Tipologia: Notizia

Area: Croazia

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Dubravka Ugrešić: la confisca della cultura

Il 17 marzo scorso è venuta a mancare la scrittrice Dubravka Ugrešić. Pubblichiamo la traduzione italiana di un suo saggio che lei stessa ha letto all’incontro "Musealizzazione della Jugoslavia" nel 2018 presso il Dom omladine di Belgrado

24/03/2023, Dubravka Ugrešić -

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(Originariamente pubblicato dal portale Peščanik , il 18 marzo 2023)

Vorrei dedicare questo testo al mio caro amico, recentemente scomparso, Goran Stefanovski, che nei suoi drammi, e soprattutto nei suoi saggi ha descritto quella condizione di esilio in cui tutti ci eravamo ritrovati dopo la dissoluzione della Jugoslavia, a prescindere dal fatto che ce ne fossimo effettivamente andati, lasciando il paese, o che fossimo rimasti. Nel 1989 tutti gioivano per la caduta del Muro di Berlino. Due anni più tardi, solo gli idioti gioivano per l’innalzamento di nuovi muri. Quegli idioti erano i croati, i serbi, e poi tutti gli altri.

La storia di Sheherazade è una delle storie più crudeli sulla bellezza, l’importanza e la vitalità dell’espressione artistica. Parla del rapporto tra artista e potere, suggerendo che l’atto creativo di per sé sia anche un atto di resistenza. Inoltre, questa storia trasmette il messaggio che ogni autentico atto artistico comporta dei rischi per il suo autore. Pur essendo una delle storie più antiche del mondo, la leggenda di Sheherazade difficilmente verrà inclusa nel corpus dei testi dedicati alla resistenza artistica, forse perché al centro di questa metafora vi è una donna che, narrando storie, salva la propria vita, ma anche quella delle future vittime del re misogino. Forse il lieto fine della storia mina la serietà della resistenza di Sheherazade. Dopo una maratona narrativa protrattasi per mille e una notte, Shahriyar si innamora di Sheherazade, così la narratrice e il suo potenziale aguzzino restano insieme. La vittoria di Sheherazade è anche la sua più grande sconfitta. È ormai trascorso tanto tempo da quando Shahriyar – almeno così narra la storia – ha smesso di tagliare la testa alle donne, ma, guarda caso, la misoginia continua a fiorire.

Miti e leggende sulla creazione artistica nella maggior parte dei casi sono romantici, a differenza della vita reale. L’artista scardina l’ordine e le leggi divine e per questo viene punito. Una punizione che tende ad essere più severa se l’artista è una donna. Nell’atto della creazione l’artista compete con Dio stesso, pur non essendone pienamente consapevole. La creazione artistica implica la distruzione del sistema consolidato di valori estetici, etici e politici, e la creazione di una nuova visione del mondo. Le industrie creative contemporanee hanno cancellato queste frasi fatte romantiche, sostituendole con altre frasi fatte incentrate su forme di successo artistico più pragmatiche e intelligibili.

Sono nata in un piccolo paese nei pressi di Zagabria, in Croazia, nell’ex Jugoslavia. Ricordo la mia infanzia come un periodo caratterizzato da un insegnamento repressivo impartitomi dall’ambiente circostante, un periodo di esposizione al terrore delle verità comuni popolari. Nel desiderio, del tutto comprensibile, di non isolare la figlia dal mondo, i miei genitori hanno tacitamente appoggiato quell’insegnamento. “Chi sta nel mezzo, vale tre ducati”. Questa verità popolare significava che la strada migliore era quella di stare nel mezzo, cioè di essere mediocri. La scelta di vita più redditizia e più sicura era adeguarsi alle norme dell’ambiente circostante. “Chi vola alto, cade in basso”. Il significato di questo detto mi frenava. Mi spaventava e attirava allo stesso tempo. Il detto: “Non scontrarti con chi è più forte di te” educava all’obbedienza, all’accettazione dell’autorità e alla sottomissione a ogni forma di potere. Nell’ambiente in cui sono cresciuta non era raccomandabile alzare la voce. “Il silenzio è d’oro”. Il silenzio, l’ipocrisia e la menzogna erano un modo per evitare varie difficoltà.

A differenza dell’ambiente che mi circondava, le scelte di vita dei miei genitori scardinavano il predominio dell’idea di aurea mediocritas. All’inizio della Seconda guerra mondiale, mio padre, all’epoca diciassettenne, si era unito ai partigiani. Dopo la guerra aveva partecipato alla costruzione di un futuro più luminoso, di una società in cui non ci sarebbero stati gli affamati, gli umiliati e i denigrati, lasciando dietro di sé una manciata di onorificenze ricevute per il suo tenace impegno nella costruzione della Jugoslavia socialista. Si era innamorato di mia madre, una straniera, proprio in quel periodo pericoloso, ma per fortuna breve, in cui intrattenere legami con gli stranieri veniva considerato un atto di tradimento ai danni dello stato. La resistenza istintiva al terrore dell’ambiente che mi circondava – un ambiente che, pienamente consapevole della propria ortodossia, continuava ad imporre regole morali, estetiche e di altro tipo – , l’amore per i genitori che, volenti o nolenti, mi segnarono con la loro alterità, e la mia precoce passione per la letteratura furono la mia guida.

I miti greci, le leggende partigiane, i film di Hollywood e le fiabe, soprattutto quella che parla di un giovane coraggioso di nome Danko, il corrispettivo comunista di Gesù Cristo, che si strappa dal petto il cuore e, illuminando con esso la strada, fa uscire i poveri da una foresta oscura, portandoli fino ad una radura illuminata dal sole. Questo modesto pacchetto culturale rafforzò dentro di me le prime coordinate del bene e del male. Oggi mi sembra di essere cresciuta e vissuta in un’epoca, per poi, tutto ad un tratto, essere trasportata in un’altra. Ad ogni modo, oggi quella fiaba sul coraggioso Danko verrebbe ridicolizzata, una derisione che del resto anche lo stesso autore del racconto, Maksim Gor’kij, aveva preannunciato: appena Danko esce sulla radura soleggiata, un uomo malvagio e insidioso calpesta il suo cuore come se fosse una rana.

Da tempo ormai la cultura del cuore è stata soppiantata dalla cultura del denaro. Le verità che conoscevamo sono state annullate e sostituite da altre verità. Solo nella piccola Croazia, luogo dove sono nata, sono stati abbattuti o devastati tremila monumenti eretti in memoria della resistenza jugoslava e dei partigiani. Oggi gli eserciti di storici dilettanti sono impegnati nel cancellare la storia antifascista e legittimare altre versioni della storia.

Ad esempio, l’Istituto polacco della memoria nazionale, con i suoi numerosi dipendenti laboriosi, è impegnato a ripulire la coscienza collettiva dei cittadini polacchi, la storia nazionale e i manuali scolastici di storia da ogni responsabilità. La magistratura polacca è sottoposta ad un controllo assoluto da parte del governo e il senato polacco ha approvato la cosiddetta legge Olocausto. Chiunque utilizzi il sintagma “campi della morte polacchi” può essere perseguito legalmente perché, dicono, i polacchi innocenti non avevano nulla a che fare con i lager nazisti costruiti nei territori polacchi occupati.

Anche in Croazia, così come in Serbia, in molti lavorano assiduamente affinché i criminali della Seconda guerra mondiale, ma anche quelli della guerra degli anni Novanta vengano beatificati, affinché i ladri e i rapinatori vengano sollevati dalle accuse, affinché il campo di concentramento di Jasenovac – dove i nazisti locali, ossia gli ustascia, uccidevano gli ebrei, i serbi e i rom – sia riconosciuto ufficialmente come un campo di lavoro dove i malvagi comunisti avrebbero trucidato i prigionieri pur di incolpare i croati innocenti. Oggi nel cuore dell’Europa, in Bosnia Erzegovina, gli alunni frequentano classi separate su base etnica: croate, serbe e bosgnacche. Imparano la stessa storia e la stessa lingua da libri di testo completamente diversi. Le notizie sull’esistenza di numerose prassi simili stanno giungendo da Ungheria, Bulgaria, Grecia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Macedonia del Nord, dal sud e dal nord Europa, dall’est e dall’ovest Europa, confluendo in un fiume sotterraneo che lentamente, ma inesorabilmente mina le fondamenta ideologiche ed etiche su cui poggia l’Europa, quell’Europa nata dalle macerie della Seconda guerra mondiale.

Mia madre, ormai scomparsa, per tutta la vita fu tormentata da ciò che aveva visto nel 1946 viaggiando in treno da Sofia verso Zagabria, passando per il sud della Serbia e Belgrado. “Tutto era stato distrutto”, diceva sempre con la stessa incredulità e con lo stesso sospiro, senza però accompagnare quella frase da alcuna immagine, quindi non riuscivo a concepire la realtà rappresentata da quelle parole. Oggi, a distanza di una ventina di anni dall’ultima guerra – nel frattempo anche questa espressione si è radicata nella lingua… sì, l’ultima guerra, quella del 1991-1995 – quindi, ormai da una ventina di anni vivo tra le macerie, eppure nessuno è ancora riuscito a stilare l’elenco dei danni: quanti furono i morti e quanti gli sfollati, quante le persone scomparse e quante quelle economicamente devastate; quante case, fabbriche, ferrovie, strade, ospedali, chiese, scuole e monumenti furono distrutti, quanti libri vennero dati alle fiamme.

Nessuno si è mai sforzato di rendere conto di quanto accaduto. Alle leadership della maggior parte degli staterelli ex jugoslavi non interessa né la resa dei conti né la ricostruzione. A loro interessa mantenere lo status quo, uno stato di ibernazione tra guerra e pace, tra devastazione e ricostruzione. In realtà, a loro interessa il processo di graduale decadenza, lo slow motion. Ed è per questo che i procedimenti penali si protraggono per anni, per questo le case, una volta ricostruite, rimangono a lungo disabitate, manca sempre qualcosa di fondamentale: il tetto, le porte, le finestre. Per questo le riforme vengono annunciate, ma mai attuate. I criminali di guerra, gli assassini e i ladri non vengono mai condannati; anche quando in qualche modo vengono sanzionati, non finiscono mai in carcere. Per questo la vita tra le macerie è un processo, una condizione che si protrae nel tempo, perché solo così può sopravvivere chi ha provocato e sostenuto quella distruzione, chi non ha fatto nulla per evitarla. È come se queste persone non fossero esseri umani: sono parte integrante, tasselli delle macchina della distruzione e dell’autodistruzione.

Dove risiede il fascino del fascismo e delle sue molteplici forme che oggi impregnano l’Europa allo stesso modo in cui l’inchiostro impregna la carta? Il fascino risiede nel fatto che per essere fascisti non serve alcuna qualifica né garanzia, né tanto meno alcun documento che certifichi il possesso di determinate competenze e saperi. Il fascino del fascismo risiede in un gruppo di persone uguali a noi, nell’accettazione, nella violenza che un gruppo esercita su un altro gruppo, nella sensazione, facilmente inducibile, che siamo migliori degli altri, che finalmente siamo migliori e che per essere migliori, guarda caso, non ci vuole molto, basta avere lo stesso gruppo sanguigno ed essere disposti a compiere atti di violenza contro chi ha un gruppo sanguigno diverso.

Alla fine di aprile di quest’anno, a Vodice, una località turistica della costa adriatica, alcuni cittadini croati che parteciparono all’ultima guerra, anche come volontari, hanno brutalmente distrutto una decorazione floreale in un parco. Ai coraggiosi veterani di guerra croati è sembrato che quella composizione floreale fosse a forma di stella a cinque punte, una forma ritenuta provocatoria poiché legata all’”aggressore”. I croati reagiscono alla stella rossa a cinque punte, simbolo del comunismo, allo stesso modo in cui il toro reagisce al mantello rosso. Quella composizione floreale, come sostiene la sindaca di Vodice, rappresentava un fiore a cinque petali, non una stella a cinque punte.

Alla fine di ottobre di quest’anno, nel parco Maksimir a Zagabria è stata allestita una mostra del fotografo zagabrese Robert Gojević composta da dodici fotografie di grande formato. La mostra è stata concepita come un omaggio a Ivan Standl, il primo fotografo ad aver immortalato Maksimir, ed era previsto che venisse allestita anche in altri parchi della Croazia. Tuttavia, poche ore dopo essere state esposte a Maksimir, le fotografie sono state vandalizzate. Alcuni giorni più tardi, all’inizio di novembre di quest’anno, un ubriacone di Spalato si è scagliato contro uno dei pochi monumenti dedicati a Rade Končar, icona del movimento partigiano, rimasti in piedi [dopo la guerra degli anni Novanta]. La statua si è rovesciata più facilmente di quanto ci si aspettasse ed è caduta addosso al vandalo ubriaco, provocandogli, presumibilmente, una frattura alla gamba. Il vandalo, finito in ospedale, ha approfittato dell’occasione per raccontare ai giornalisti che non aveva nulla contro quell’uomo – riferendosi a Rade Končar, fucilato nel 1942 – non lo conosceva nemmeno, ha detto, sottolineando però che in generale non sopportava i serbi, i partigiani e i comunisti. E così di giorno in giorno. Ecco, così è trascorso un quarto di secolo.

Ho scelto casualmente questi tre episodi accaduti di recente, ma potevo benissimo sceglierne qualsiasi altro. Ciascuno di questi episodi è caratterizzato da una forma di violenza. La violenza è diventata il criterio della normalità. Nel frattempo, qualsiasi giustificazione politica degli omicidi, dei furti e degli atti di brutale violenza – come quel poveraccio ubriaco che odia i serbi, i comunisti e i partigiani, o quegli odiatori delle composizioni floreali che vedono stelle a cinque punte ovunque – è diventata del tutto irrilevante. Ad un certo punto tutto può diventare bersaglio di violenza: uno spettacolo teatrale e il suo regista, un’opera letteraria e la sua autrice, un fotografo e le sue fotografie del tutto innocue dal punto di vista politico. Il fascismo ama il vuoto. Il fascismo ama la morte. Forse per questo nei luoghi vacui, scialbi, scarni e devastati stanno sorgendo – sempre più frequenti, più brutti e più imponenti – i monumenti dedicati al padre della,nazione croata, Franjo Tuđman, il primo presidente croato. Il monumento più recente è presumibilmente alto quattro metri e mezzo e, una volta posto su un piedistallo, sarà alto sette metri. Poi ci sono i nomi delle strade, dei parchi, delle istituzioni, delle piazze… la maggior parte di questi spazi è intitolata a Franjo Tuđman, fatto che non fa che confermare l’esistenza di un deficit catastrofico di altri contenuti. La scelta di un contenuto simbolico – che in questo caso è rappresentato da Tuđman e solo Tuđman – preclude ogni dilemma su tale scelta. La scelta di una cosa sola è sacrosanta: una chiesa, una religione, un’ideologia, una razza, una classe… questo è il rifugio degli analfabeti.

La sofofobia, dicono, è la paura di sapere e di imparare. Mi rendo conto che molti dei miei connazionali sono apatici, letargici, decisamente poco curiosi, inclini a utilizzare gli stereotipi e a ignorare tutto ciò che oltrepassa i confini che conoscono. La dottrina, ormai da tempo accettata, secondo cui la Terra è rotonda, pian piano sta retrocedendo, lasciando spazio alla dottrina, ancora più antica, secondo cui la Terra è piatta. Gli esperti, che per primi si sono accorti di questa dinamica, hanno cercato di richiamare l’attenzione dei dilettanti, redattori di Wikipedia, su alcuni errori e inesattezze. Nella maggior parte dei casi però le loro obiezioni sono rimaste inascoltate. Gli ignoranti anonimi, che si sono impossessati della potente rete, di solito persistono nella loro ignoranza e nel controllo di quest’ultima, nonostante inizialmente sostenessero il contrario. Il drammatico crollo degli standard educativi iniziò con la dissoluzione della Jugoslavia, con il nazionalismo, con i licenziamenti di massa di giornalisti, medici, giudici, tutti quelli che – mi limito al caso della Croazia – erano di nazionalità serba, o comunque diversa da quella croata, ex comunisti o semplicemente persone che avevano assunto un atteggiamento critico nei confronti del sistema mafioso e corruttivo dei nuovi stati.

Il crollo di tutti gli standard iniziò con il nepotismo, con l’enorme potere della Chiesa, con la legge che nelle nuove assunzioni, anziché agli esperti, dava precedenza ai croati, ai volontari di guerra, ai figli dei volontari di guerra e ai patrioti. Questa tremenda classe degli analfabeti fu descritta nel modo più conciso e preciso da Michail Zoščenko nel lontano 1923 nel suo racconto satirico Aristokratka [Un’aristocratica]. Grigorij Ivanič, concierge e idraulico, porta una donna aristocratica a vedere uno spettacolo teatrale, raccontando la loro breve relazione destinata a fallire. Zoščenko si fa beffe di quella nutrita classe sociale che con la rivoluzione aveva portato anche un populismo rivoluzionario e le proprie idee sulla cultura, la bellezza, l’educazione, i valori esistenziali e di ogni altro tipo. Ogni volta che vedo quella nuova classe fascista post-jugoslava in abiti firmati, pesantemente abbellita grazie agli interventi cosmetici, con i suoi barboncini che non perde occasione di portare alle anteprime degli spettacoli teatrali, presente a tutte le sfilate di moda, inaugurazioni di mostre, nei media, nelle rubriche dedicate ai vip… quando vedo i rappresentanti di quella classe giudicare con tanta boria gli spettacoli teatrali, i libri e le mostre, mi viene in mente Grigorij Ivanič e la sua replica: “Se una tizia infila la testa in un cappellino e le gambe nei collant, se indossa i manicotti o ha un dente d’oro, tale aristocratica non è una donna, è un niente”.

A Zagabria nell’ottobre del 2018 è stata inaugurata una mostra intitolata “Archeologia della resistenza – alla scoperta delle collezioni della resistenza culturale nella Croazia socialista”, realizzata in collaborazione con l’Istituto croato di Storia e l’Archivio nazionale croato, come parte integrante del progetto europeo COURAGE, un acronimo che, dicono, sta per Opposizione culturale – comprendere il dissenso nei paesi ex socialisti. Tra i partecipanti al progetto COURAGE c’è la città di Budapest, che primeggia per numero di istituzioni scientifiche coinvolte (addirittura tre), fatto che in un certo senso suggerisce che, se dovesse verificarsi un diluvio universale, solo la versione ungherese della storia sarebbe ricordata come quella giusta, perché l’Ungheria godrebbe di un vantaggio statistico rispetto agli altri. Ci sono poi Vilnius, Praga, Bucarest, Zagabria, Bratislava, nonché alcune istituzioni accademiche di Oxford, Dublino e Ratisbona. Il progetto ha ricevuto un cospicuo finanziamento dall’Unione europea. I curatori della mostra sono stati guidati dalla grande idea che ogni resistenza è semplicemente resistenza, che l’opposizione è semplicemente opposizione, che tutti i totalitarismi devono essere messi sullo stesso piano, che peraltro è la frase fatta più aggressiva, stupida e mendace mai diffusa nello spazio ideologico post-jugoslavo, e non solo.

Tale approccio promuove l’idea che la storia umana è un mucchio di rifiuti dove prima o poi finiranno tutti, cito: “Gli emigranti, i fedeli, i dissidenti, seguaci della scuola di Praxis, i giovani, le artiste, le femministe, i censori, gli ideologi, i membri dell’Udba [servizi segreti jugoslavi]” perché, in fin dei conti, siamo tutti uguali, i buoni e i cattivi, i giusti e i malvagi, Gesù Cristo e Hitler. Quindi, ogni resistenza è inutile, perché tutti finiremo in un mucchio di ossa che uno degli ideologi futuri cercherà di riconciliare. È curioso notare come la Chiesa cattolica, la più potente istituzione in Croazia, non abbia mai protestato contro il fatto che uno dei suoi esponenti più emblematici, l’arcivescovo Alojzije Stepinac, sostenitore del regime ustascia, è finito sullo stesso mucchio di rifiuti storici dove si trova anche Toma Gotovac, artista concettuale croato che nelle sue performace ama spogliarsi e baciare l’asfalto di Zagabria.

Questo è solo l’ultimo dei tanti esempi del revisionismo storico croato, basato sulla strategia dell’ostinata destigmatizzazione del movimento ustascia, di uno stato ustascia, ossia dello Stato indipendenti di Croazia, e del suo famigerato leader Ante Pavelić, e sui tentativi di negare l’esistenza dei lager nazisti in Croazia, ma anche dei crimini commessi dai croati durante l’ultima guerra. Ed è un esempio che ci riporta indietro, in un altro tempo e in un altro spazio geografico. L’attacco al registro della popolazione (bevolkingsregiser) di Amsterdam del 1943, il cui scopo era quello di distruggere l’elenco dei cittadini sulla base del quale i nazisti avrebbero potuto identificare gli ebrei, è rimasto impresso nella memoria collettiva degli olandesi come uno splendido esempio della resistenza al terrore nazista. Un gruppo di artisti aveva rischiato la propria vita per salvare quella dei loro concittadini. Certo, esiste anche un’altra storia, la storia oscura del collaborazionismo. Le due storie, quella luminosa e quella oscura, si intrecciano nel caso di Anna Frank. Quella di Anna Frank è una storia di resistenza, ma anche di tradimento. Chi visita il sito del Museo della Resistenza (Verzetsmuseum) di Amsterdam si imbatte subito in una domanda molto chiara scritta in diverse lingue: “La Germania nazista ha invaso i Paesi Bassi. Cosa farete?”. Ci sono tre possibili risposte, tre pulsanti che i visitatori possono premere: adapt, collaborate, resist. Adeguarsi, collaborare, opporre resistenza.

Quando, nel 1991, era scoppiata la guerra nell’ormai vacillante Jugoslavia, avevo schiacciato il pulsante invisibile “opporre resistenza”. La mia era stata una resistenza peculiare, forse incauta, ma certamente autentica, una rivolta contro le stupidaggini e le menzogne, una protesta contro le numerose strategie vergognose con cui i futuri rapinatori e assassini cercavano di convincere i cittadini della Jugoslavia che la guerra era necessaria e che non c’era altra opzione se non quella del fratricidio. Alcuni anni dopo, quando, abbandonando il mio paese, mi ero ritrovata nei Paesi Bassi, qualcuno – il pubblico mi perdoni questa irremissibile scivolata nell’autocompiacimento intriso di autocommiserazione – aveva riconosciuto il mio atto di resistenza, conferendomi il premio Versetsprijs 1997, istituito in ricordo degli artisti olandesi che durante il periodo nazista avevano sacrificato la propria vita per difendere la dignità umana, la propria dignità e quella dei loro concittadini. Questa inaspettata accoglienza olandese mi aveva spinto a disfare le valigie e costruire nei Paesi Bassi la mia seconda casa. Il premio di cui sopra, purtroppo, non esiste più. Io sono l’ultima vincitrice di quel premio.

Oggi sono consapevole che quei pulsanti immaginari vengono schiacciati in modo impulsivo, così come sono consapevole che la maggior parte delle persone, in tutte le costellazioni storiche, solitamente sceglie il pulsante “adattarsi”. Prevale l’istinto di sopravvivenza ed è la capacità di adattamento, dicono, a garantire la sopravvivenza. Solo una minoranza trascurabile premerà il pulsante “opporre resistenza”.

Sono convinta che gli intellettuali, gli educatori, i professori, gli artisti, i letterati, gli scienziati, i giornalisti e tanti altri possano scegliere se adattarsi, collaborare o opporre resistenza ad ogni forma di terrore, palese o dissimulato che sia. Questi tre pulsanti – Adattamento, Collaborazione, Resistenza – determinano la cultura in cui viviamo, la cultura della vita quotidiana, quella politica, letteraria, artistica, educativa e mediatica, incidendo in maniera decisiva anche sulla cultura del domani, quando dico domani lo intendo letteralmente. Gli ex jugoslavi vivono questa cultura ormai da un secolo, confrontandosi con essa come con il proprio riflesso nello specchio, eppure ancora non sono riusciti a darle un nome. In altre epoche, meno sensibili dal punto di vista politico, questa cultura forse sarebbe definita post-fascista o neofascista. Oggi, di solito viene definita populista, la pensante maggioranza democratica ne è pienamente consapevole e responsabile.

Il termine populismo è stato riconosciuto nel 2017 e può essere tradotto anche come governo degli analfabeti. Da qualche parte, sulle pagine di un giornale che parlava della mostra “Archeologia della resistenza – alla scoperta della collezione dell’opposizione culturale nella Croazia socialista”, sono comparsi splendenti i volti dei curatori dell’evento, un giovane uomo dal volto tondo e innocente e dagli occhi azzurri che non esprimevano
nulla, e una giovane donna sul cui volto la telecamera ha colto un’aria astuta che suscita imbarazzo. Mentre osservavo quei volti ortodossi e scialbi sono stata folgorata dal idea che quelle persone erano gli angeli della morte – anche i miei futuri aguzzini avranno quell’aspetto – che si sono infiltrati nelle importanti istituzioni statali, negli archivi statali, nei network internazionali e – generosamente finanziati da varie commissioni composte da altri angeli simili – spazzavano con le loro ali invisibili, gettando nella spazzatura tutto ciò che andava buttato via, che non serviva a nulla, per poi gettare tutto, tutti gli sforzi umani, su un unico mucchio. Di fronte ai cieli freddi, non ci sono né i giusti né i malvagi, e tutti i nostri sforzi sono vani. Osservando la fotografia di quei due giovani angeli dai volti indifferenti mi chiedevo: quanti ce ne sono ancora? Decine, centinaia, centinaia di migliaia?

Mi chiedevo se non avessi finalmente paura e, prima di riuscire a rispondere, da qualche parte dentro di me risuonò in maniera appena percettibile il ritornello del capolavoro di Harbal Una solitudine troppo rumorosa che parla dei cieli inumani. Il protagonista, Hanta, un uomo solitario e istruito, ormai da trentacinque anni lavora in un centro di raccolta della vecchia carta. Tratta i libri scartati con una pressa idraulica e poi coi resti crea opere d’arte, cercando di dare a ciascuna un’impronta personale, a instillarvi la vita, e di certo non ci pensa nemmeno di mettere insieme dentro la pressa Hitler e Kafka. Nei suoi trentacinque anni di lavoro, Hanta era circondato da libri, vivendo in una solitudine rumorosa, come un tenero macellaio, come dice lui stesso. È vero: i cieli non sono umani, pertanto bisogna cercare la consolazione nell’empatia e nell’amore. In altre parole, i manoscritti non bruciano. Visto che gli esseri umani non sono in grado di farlo, i libri, gettati in un rogo, ridono, con un silenzioso sorriso della resistenza.

(Traduzione di Ivana Draganić)

Dubravka Ugrešić  © Shevuan Williams. Norman, Oklahoma 2016

Dubravka Ugrešić © Shevuan Williams. Norman, Oklahoma 2016

Dubravka Ugrešić (1949-2023) è nata in Jugoslavia, nella Repubblica di Croazia. Si è laureata presso la Facoltà di Filosofia di Zagabria, per poi lavorare per una ventina di anni presso lo stesso ateneo, nello specifico all’Istituto per la teoria letteraria. Ha scritto tre libri per bambini, uno studio sulla prosa russa contemporanea, numerosi articoli sulla letteratura russa. Ha tradotto dal russo le opere di Boris Pil’njak e Daniil Charm, curando, tra l’altro, un’antologia della letteratura russa alternativa. È autrice di raccolte di racconti Poza za prozu [Prosa in posa, 1978] e Život je bajka [La vita è una favola, 1983], romanzi Štefica Cvek u raljama života [Štefica Cvek nelle fauci della vita, 1981], Forsiranje romana-reke [La forzatura del romanzo-fiume, 1988], Muzej bezuvjetne predaje [Il museo della resa incondizionata, 1997], Ministarstvo boli [Il ministero del dolore, 2004], Baba Jaga je snijela jaje [Baba Jaga ha fatto l’uovo, 2008] e Lisica [La volpe, 2017], e raccolte di saggi Američki fikcionar [Uno scrittore di fantascienza americano, 1993], Kultura laži [La cultura della menzogna, 1996], Zabranjeno čitanje [Vietato leggere, 2001], Nikog nema doma [Nessuno in casa, 2005], Napad na minibar [L’assalto al miniar, 2010], Europa u sepiji [Europa in seppia, 2013], doba kože [L’era della pelle, 2019], Tu nema ničega! [Qui non c’è niente, 2020], Brnjica za vještice [Museruolaper le streghe, 2021] e Crvena škola [La scuola rossa, 2021]. Le sue opere sono state tradotte in quasi tutte le lingue europee. Ha insegnato presso diverse università statunitensi ed europee, tra cui l’Università di Harvard, l’Università della Californua (UCLA) e l’U

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