Doviđenja Jadran, arrivederci Adriatico
Il Mulino ha recentemente ripubblicato "Storie di Adriatico", di Sergio Anselmi. Le sue pagine sfogliate in riva al mare permettono di incontrare un balestraio vissuto nel ‘300, ragazze inviate “a la bona ventura et a la grazia di messer Dio” e pirati Uscocchi. Una recensione
Sono mesi difficili per il nostro spirito randagio, per le nostre insopprimibili necessità nomadi. “Nell’Origine dell’uomo Darwin rileva che in certi uccelli l’istinto migratorio è più forte di quello materno”, scrive Bruce Chatwin, con quel pizzico di sana verve provocatoria che lo contraddistingue. Istinto migratorio che è di tutti gli animali, uomo compreso. Animale incompleto, animale culturale, ma pur sempre animale. Animale ferito dalla pandemia, non solo nel corpo ma anche nell’animo. Animale rinchiuso dalla pandemia, a prescindere dal suo status, dal colore della pelle e del passaporto. Sofferenze risibili le nostre, se paragonate a quelle di chi migra per necessità politiche, economiche o ambientali. Comunque capaci, consciamente o inconsciamente, di provocare piccole e grandi inquietudini. Irrazionali, come irrazionale è lo spirito randagio che ci abita. Oggi, in questo secondo marzo pandemico, i più fortunati possono provare a stemperare frustrazioni migratorie andando in riva al mare e, non potendo aprire una vela, possono aprire un libro, insostituibile strumento libertario.
Io in quest’assolata e tiepida mattina, veleggio con la fantasia da una sponda all’altra con “Storie di Adriatico” di Sergio Anselmi, da poco ripubblicato da Il Mulino (pp.210; € 12). Anselmi è stato per me un maestro e questo piccolo libro, edito la prima volta nel 1996, mi ha insegnato ad ampliare gli orizzonti temporali di questo straordinario crocevia acqueo di genti e culture. “Dalmati, ebrei, slavi, italiani, austriaci, ungheresi, (…) personaggi tratti fuori dagli archivi per comporre un mosaico” variegato e palpitante, un mondo legato più alle libertà dello spazio marino che alle reclusioni di quello terrestre. Ma se la prima lettura credo sia inevitabilmente più attenta al fatto storico, appassionante e articolato, questa mia rilettura fatta a distanza di anni, in queste circostanze d’isolamento, predilige le geografie. Porti e città che conosco, più o meno bene, ma anche luoghi che rimangono letterari, perciò ancor più attraenti.
Ecco allora che se la titolazione dei tredici capitoli scelta da Anselmi fa riferimento ai personaggi, quella che vado riscrivendo io è invece geografica. Perché poi ogni lettore ha il diritto di correggere il libro, di declinarlo alla sua esperienza e sensibilità, mutevole come il cielo. Così il mio indice restituisce oggi una geografia duplice, una relazione stretta, umana, tra le due sponde. Ancona e Ragusa, l’attuale Dubrovnik, nel primo racconto di un balestraio vissuto nel Trecento. Obrovazzo, un borgo nella regione di Zara, e il Montefeltro nel secondo dedicato a un pastinatore, cioè a un coltivatore del Quattrocento. Podjezveka, un villaggio vicino a Travnik in Bosnia, e Jakin, come veniva chiamata Ancona dagli slavi, nel terzo in cui si narrano le vicende di una ragazza inviata “a la bona ventura et a la grazia di messer Dio”, ambientata sempre nel Quattrocento. Così di capitolo in capitolo questa mia lettura si trasforma in un andirivieni tra le due rive a bordo non solo di velieri famigliari, quali caracca, pielago, bragozzo, trabaccolo ma anche di inusuali, stoljeća, marsilijana, filjuga, fregata e bertón.
Eccomi sulla “Santa Maria” una caracca semicarica di mercanzie, pronta a salpare da Spalato sfruttando il vento fresco di metà mattina. A bordo contadini e montanari terrorizzati anche dal mare quieto che sta tra le isole spalatine. Tre giorni d’altomare, prima di raggiungere Ancona, “presto annunciatasi con il profilo del Monte Conero, dietro al quale essa si nasconde, all’interno di un gomito, come anche il suo nome greco ricorda”.
Poche pagine dopo mi commuovo leggendo la triste storia di Alvise Zuliàn Poareto, “nato da una donna di letto su una galera veneziana, che nel 1689 portava vagabondi, straccioni e prostitute da pochi soldi a popolare la Morea, ove le armi cristiane avevano recuperato un pezzo della Turcheria greca”. Un viaggio inconcluso a causa di un naufragio, con successivo recupero dei malcapitati da parte dei perastani. Il bambino comprato insieme alla madre finisce a Perasto dove cresce tra melograni e oleandri, quercioli e palme, le cui fronde si bagnano nelle acque delle Bocche, dove nuota, pesca e rema. Va come tanti a “gettar pietre delle acque dello skripio per ringraziare la Madonna e i santi della scampata morte del naufragio”. Lo skripio è lo scoglio affiorante di fronte al paese che, sasso dopo sasso, a partire dal 1452 divenne abbastanza grande da permettere la costruzione della Chiesa della Madonna dello Scalpello. Ma la vita del ragazzo sarà tragicamente segnata dall’incontro con Bogdàn, il circasso cieco di Perasto, che viveva di elemosine facendo il cantastorie.
In questo libro Anselmi restituisce l’immagine di un “protagonista silenzioso”, l’Adriatico. Un mare ben più grande di quello geografico, che collega Venezia a Costantinopoli, Trieste a Suez. Lo fa con una particolare attenzione alle storie minori, di paroni e murè, di rom e gagé, di barbareschi e uscocchi. Ricostruisce una koinè adriatica in parte dimenticata, arricchita da una lingua franca, un sabir adriatico che vitalizza i racconti e trova un suo spazio autonomo nel glossario, a chiusura del libro. Ma adesso è quasi mezzogiorno e vado ad acquistare seppie, particolarmente saporite in questa stagione, anche per avere un po’ di fiele con cui poter fare inchiostro seguendo la ricetta di Allegretto, scrivano raguseo quattrocentesco, in servizio presso una nobile famiglia anconetana: nero di seppia appunto, fuliggine, tannino, chiara d’uovo e una segreta polvere, che solo lui conosceva e io proverò a sostituire con farina. Mi eserciterò in bella calligrafia, scrivendo e riscrivendo doviđenja Jadran, arrivederci Adriatico.
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