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Dopo l’Aja: “Le ong fanno il lavoro dei governi”

Dopo la chiusura del TPIJ sono le ong della regione, attraverso l’iniziativa Rekom, a battersi per far luce sui crimini commessi negli anni ’90. Un’intervista con Ivan Đurić, coordinatore del progetto

16/01/2018, Philippe Bertinchamps -

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(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans il 9 gennaio 2018)

Lanciata nell’aprile 2011 l’iniziativa Rekom non è ancora riconosciuta dai governi nazionali. Ci descrive il progetto?

Si tratta della più ampia iniziativa di questo genere mai promossa nella regione, unica nella storia della giustizia transizionale dei paesi dell’ex Jugoslavia.Rekom vuole essere la prima commissione multilaterale che comprenda sette paesi: Bosnia Erzegovina, Croazia, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia.

L’idea di creare questa commissione non è imposta dall’alto, dai governi, come per esempio per le commissioni di riconciliazione del Sud Africa o dell’America Latina, ma nasce dalla società civile e dai cittadini.

Rekom raggruppa più di 200 associazioni: vittime di guerra e reduci, rappresentanti delle comunità religiose, giovani, politici, avvocati, giornalisti e via dicendo.

Dopo tre anni di dibattito la commissione ha adottato nel 2011 un progetto di statuto e lanciato una campagna di sostegno, raccogliendo più di mezzo milione di firme. Tutto per convincere i politici ad avviare un percorso di confronto con il passato.

Ciononostante sembra che le autorità competenti facciano di tutto per differire questo lavoro sulla memoria dei crimini di guerra…

Il problema è che, nelle nostre democrazie un po’ particolari, abbiamo elezioni quasi ogni sei mesi. Questo agisce come un freno dato che le nostre élite, nonostante la loro narrativa “pro-europea” appaiono riluttanti ad ammettere pubblicamente i crimini commessi dalla loro parte, per timore di perdere i voti nazionalisti.

Il nostro scopo è di inserire ufficialmente Rekom nelle discussioni che si terranno durante il Summit 2018 che si terrà tra Balcani Occidentali e Ue che si terrà a Londra nel quadro del Processo di Berlino.

Quali le condizioni affinché questa iniziativa possa funzionare?

La prima condizione è che la gente si incontri. Quando si parla di giovani, nati durante o dopo la guerra, ci si rende conto che a differenza dei loro genitori, si conoscono tra loro molto poco. Certo, non si odiano, ad esempio, tra vicini, ma sono comunque influenzati da tutte le recite tendenziose fatte dai politici, diffuse dai media e dai manuali scolastici.

Occorre che i giovani della regione imparino a conoscersi. Questo può avvenire solo attraverso programmi di mobilità e di scambi educativi, di incontri culturali e sportivi, di attività turistiche.

E’ per questo che durante il Summit di Parigi del 2016, è stato creato l’Ufficio regionale di cooperazione tra i giovani dei Balcani Occidentali (RYCO) sul modello dell’Ufficio franco-tedesco per la gioventù (OFAJ). Lo scopo è che i giovani, troppo spesso inclini al nazionalismo, imparino a superare i pregiudizi e a lavorare insieme per lo sviluppo della regione.

Non occorrerebbe prima porre termine ai discorsi di vittimizzazione?

Durante la seconda guerra mondiale la Jugoslavia è stata sconvolta da guerre civili. Quando i partigiani hanno preso il potere hanno ignorato queste tensioni nel nome dell’ideologia titina della fratellanza e unità, spazzando la polvere sotto il tappeto. Non si poteva discuterne e gli storici non hanno fatto il loro dovere.

Risultato: agli inizi degli anni ’90 ciascuna nazione si è messa a riscrivere la propria storia e ad attribuirsi il ruolo di vittima.

Oggi, per quanto ci riguarda, noi non intendiamo creare na narrazione comune, ma vogliamo stabilire i fatti. Quanti civili sono stati uccisi nei recenti conflitti? In Serbia non vi è ancora una lista ufficiale dei morti avutisi durante la guerra in Bosnia Erzegovina, in Croazia e in Kosovo. Non si conoscono i loro nomi e in che circostanze hanno perso la vita. Al posto di questo, si calcolano quanti anni di prigione sono stati comminati ai nostri generali condannati dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia…

Come vedete il futuro della riconciliazione nella regione?

In Croazia, dopo la sconfitta elettorale dei social-democratici, i temi della giustizia e della riconciliazione regionale hanno fatto un gran passo indietro. Zagabria ha addirittura deciso di ritirarsi dall’iniziativa Rekom.

Ora che fa parte dell’Ue la Croazia ritieni in effetti di non aver nulla a che spartire con i Balcani.

In Kosovo il governo è fragile e la fiducia nelle istituzioni internazionali come Eulex è crollata dopo troppi scandali di corruzione. In quanto alla Bosnia Erzegovina si prepara alle elezioni del 2018 in un’atmosfera di status quo, alla mercé del presidente Milorad Dodik, l’uomo forte della Republika Srpska.

Una critica viene spesso mossa al TPIJ: di aver fallito nella riconciliazione regionale…

Il TPIJ ha fatto un buon lavoro nello stabilire le responsabilità di coloro i quali hanno commesso crimini di guerra. Mi auguro che le prove da loro raccolte possano essere in futuro utilizzate da tribunali locali chiamati a giudicare di crimini di guerra, come ad esempio il Tribunale speciale per il Kosovo. Ma mi auguro possano essere utilizzati da Rekom stessa.

La riconciliazione regionale non era un compito del TPIJ, ma dei dirigenti politici. Questi ultimi l’hanno delegata alle ong. Si sono rifiutati di collaborare con la giustizia mentre la loro retorica populista continua a nutrire i pregiudizi e seminare zizzania nella regione.

Sono però convinto che un giorno verremo a conoscenza delle sorti di tutte le vittime e di tutti i dispersi di guerra, condizione preliminare alla riconciliazione. Solo il TPIJ può fornirci le prove. Prove alle quali non avremo mai accesso se rimangono nelle mani dei governi nazionali.

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