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Dopo la guerra, frutti di Pace

Srebrenica, una zona di difficile rientro per profughi e sfollati. Ciononostante, donne operaie hanno creato le condizioni per vivere e lavorare insieme fondando una cooperativa agricola che oggi distribuisce i suoi frutti di Pace anche in Italia

06/03/2015, Nicole Corritore -

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Questo articolo uscirà nell’edizione 2015 dell’ "Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo", realizzato dall’Associazione 46° Parallelo e distribuito nelle librerie da AAM Terranuova da marzo.

Donne, Lamponi e Pace. Sono le tre parole che accomunano la storia di una cooperativa agricola nata nel 2003 a Bratunac, nel territorio di Srebrenica, una delle zone dove la guerra in Bosnia del ’92-’95 ha mostrato uno dei suoi volti più feroci. Un luogo della Bosnia orientale, sulla riva occidentale della Drina e al confine con la Serbia, dove invece oggi donne – un tempo profughe o sfollate – sono tornate a vivere e coltivano gomito a gomito frutti di bosco. Si tratta di un progetto di riconciliazione al femminile: donne che attraverso il lavoro e superando le divisioni etno-nazionali imposte dalla guerra hanno cominciato a parlarsi, ascoltarsi reciprocamente, accogliere il dolore dell’altro senza rinchiudersi nel proprio. A distanza di più di un decennio dalla fondazione, i prodotti della Cooperativa "Insieme-Zajedno" si vendono anche in Italia, sebbene la strada per arrivare fin qui sia stata tutta in salita. Innanzitutto a causa delle devastanti conseguenze del conflitto: furono centomila i morti, in maggioranza civili, e 2 milioni e duecentomila le persone che lasciarono il Paese durante la guerra o dovettero sfollare in altre zone della Bosnia Erzegovina dove la loro nazionalità era maggioranza. Quindi più di metà della popolazione bosniaca fu costretta ad abbandonare le proprie case. Il Paese si è trovato inoltre con pesanti devastazioni strutturali e un tessuto economico inesistente.

Con la fine del conflitto la comunità internazionale avviò programmi di ricostruzione e progetti a sostegno del rientro di profughi e sfollati nelle zone di residenza pre-guerra. Un rientro però reso molto difficile, oltre che dalle devastazioni strutturali e dalla mancanza di fonti di sostentamento economico, dalla divisione in zone "monoetniche" della Bosnia: la guerra aveva infatti creato la frammentazione a macchia di leopardo in territori a maggioranza croato-bosniaca, serbo-bosniaca e bosgnacca (bosniaco musulmani), dove il rientro delle minoranze veniva osteggiato.

In gran parte del Paese era stata perpetrata pulizia etnica ma è Srebrenica a segnare nella Storia una delle pagine più nere: nonostante fosse stata dichiarata area protetta dall’Onu, nel luglio del ’95 in pochi giorni le truppe serbo-bosniache la invasero e uccisero e occultarono in fosse comuni migliaia di bosgnacchi, tra i quali anche minorenni, mentre donne e bambini vennero forzati a sfollare. Ciò che avvenne è stato definito “genocidio” – e non più "semplice" pulizia etnica – dal Tribunale Internazionale per i crimini di guerra dell’Aja nel 2004.

Per i bosniaci musulmani rientrare a vivere a Srebrenica voleva dire superare paura e dolore provocate dall’esodo forzato e dalla perdita di familiari e parenti, in un luogo dove erano rimasti a vivere anche i responsabili di quei crimini.

E’ proprio nella zona di Srebrenica che parte, agli inizi degli anni duemila, la sfida di Rada Žarković – attualmente a capo della Cooperativa – assieme all’amico Skender Hot. Entrambi pacifisti, fin dallo scoppio del conflitto in Croazia nel ’91 erano stati attivi nella rete delle associazioni dei vari Paesi dei Balcani che si battevano contro la guerra. Rada entrò così in contatto con la società civile italiana, divenendo volontaria per l’Ics. L’Ics, Consorzio Italiano di Solidarietà, era nato in Italia nel 1993 allo scopo di coordinare decine di gruppi, associazioni, enti locali, ong che dall’inizio della guerra nei Balcani si erano spesi in interventi di solidarietà e aiuto alle popolazioni della ex-Jugoslavia.

All’inizio degli anni duemila Ics, come tante altre organizzazioni, dovette contrarre le attività per la forte diminuzione dei fondi. Rada, che assieme a Skender nel 2001 lavoravano presso la sede di Sarajevo del Consorzio, non si diede per vinta e decise di lavorare nella zona di Bratunac e Srebrenica dove il rientro di profughi e sfollati era stato pressoché nullo.

Con il coinvolgimento di soggetti della società civile bosniaca, fece un’approfondita ricerca per capire come sostenere il processo di ritorno. Emerse che prima della guerra quella era una delle zone di maggior raccolta di piccoli frutti, soprattutto lamponi, di tutta la ex-Jugoslavia. Dopo aver riscontrato che il mercato, sia locale che estero, offriva un buon margine per i prodotti derivati dalla lavorazione di questi frutti, Rada, Skender e altri 10 soci decisero di fondare Zajedno-Insieme.

Un nome, in italiano e bosniaco, che rispecchia le basi su cui si poggia il progetto: forti relazioni intessute nel decennio precedente con realtà del movimento solidale italiano, esistenti tutt’oggi.

Dal 2003 in poi sono state molte le difficoltà da superare: crediti bancari e donazioni da ottenere per l’acquisto della struttura, dei macchinari di filtro e pulizia dei frutti, della catena di refrigerazione, dei mezzi di trasporto. Al contempo la cooperativa si è scontrata con un’amministrazione locale – siamo in Republika Srpska, una delle due Entità in cui è divisa la Bosnia Erzegovina, abitata al 90% da serbo-bosniaci – poco disponibile a cooperare e sostenere il progetto. Nonostante si trattasse di un’iniziativa di sviluppo economico, con un portato positivo per l’intera comunità locale, disturbava la composizione etno-nazionale mista della cooperativa. Ma grazie al sostegno economico ed organizzativo proveniente dall’Italia e grazie alle lavoratrici e ai lavoratori della cooperativa che hanno creduto fermamente nel progetto, Zajedno-Insieme ce l’ha fatta.

Oggi sono oltre 500 le famiglie associate coinvolte nella produzione di frutti surgelati, marmellate e succhi e, dal 2013, alcuni prodotti hanno superato i confini del Paese: i cosiddetti “Frutti di Pace”, cioè confetture e nettari di frutta di lamponi, more e mirtillo nero, vengono distribuiti in Italia da Alce Nero per COOP-Italia, Altromercato e Mio Bio. Intanto la Bosnia Erzegovina, nonostante la guerra sia finita quasi vent’anni fa, si trova in totale stallo sociale, politico ed economico: le divisioni etno-nazionali continuano ad essere usate da una classe politica inefficiente e affaristica per mantenere lo status quo, la disoccupazione giovanile è al 49% e un milione di profughi non sono mai tornati e vivono sparsi in paesi dell’Unione europea ed extra europei.

La riuscita del progetto di Rada forse sta anche nel valore fondante della Cooperativa, come si legge sul sito alla voce "Lamponi di pace": "Questo è il nome che abbiamo scelto per definire in una breve frase l’idea originaria (…) siamo convinti che la Cooperativa e tutte le azioni svolte nel programma “Lamponi di Pace” non siano soltanto un’iniziativa di cooperazione allo sviluppo, ma rappresentino una sorta di percorso riabilitativo, una chiave per sgretolare il muro di odio, diffidenza e tensione fra le parti in conflitto, una delle strade possibili verso la riconciliazione nel dopoguerra". Piccoli frutti di pace raccolti dalle mani di donne, spesso vedove con figli a carico, in famiglie dove la componente maschile è stata quasi totalmente spazzata via, che sono riuscite a ricostruire la convivenza e a rendere possibile un futuro, laddove sembrava impossibile.

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