Divjak, il generale dei bambini
Uno dei comandanti della difesa di Sarajevo da anni guida un’associazione che difende il diritto dei bambini all’istruzione. Il ricordo degli anni ’90, la Bosnia oggi: colloquio con Jovan Divjak
La sede dell’associazione è una casetta sulla Dobojska vicino al confine tra Sarajevo e la Republika Srpska. Sulle pareti, decine di fotografie e attestati testimoniano della forza della rete di sostenitori e della quantità dei progetti svolti a favore dei bambini bosniaci. Questo, da anni, è il quartier generale di Jovan Divjak, ex militare che fu tra i comandanti della difesa di Sarajevo durante la guerra. L’obiettivo dell’associazione che dirige, L’educazione costruisce la Bosnia (OGBH – Obrazovanje Gradi BiH), è fornire borse di studio a bambini e ragazzi che non abbiano risorse sufficienti per poter continuare gli studi, con un’attenzione particolare rivolta ai giovani rom. L’anno prossimo l’associazione celebrerà il proprio ventennale.
“Io ero un bambino dopo la Seconda Guerra Mondiale, ricorda Divjak. I profughi, i problemi che c’erano in Vojvodina, mi erano rimasti nella mente. Durante quest’ultima guerra ho capito che dopo ci sarebbero stati altrettanti problemi, invalidi, orfani, e che bisognava fare qualcosa anzitutto per i bambini. Abbiamo cominciato a raccogliere fondi per borse di studio, creando questa associazione. Aiutiamo bambini delle scuole primarie, delle secondarie e ragazzi che vanno all’università. Inoltre aiutiamo gli invalidi e i ragazzi che mostrano particolari eccellenze. Quando possibile, creiamo partenariati con altre associazioni in Europa per scambi di giovani e di esperienze, abbiamo creato una grande famiglia.”
Il simbolo dell’associazione è Muhammed, ormai un ragazzo di 18 anni. Durante la guerra, il 10 giugno 1992, una granata uccise i suoi due fratelli e la cugina. A Divjak era toccato il compito di portare le condoglianze alla madre, Halida. Dopo tre anni la donna bussò al suo ufficio, chiedendogli di essere il padrino del bimbo che sarebbe nato di lì a breve. “Quando mi chiedono di raccontare la situazione della Bosnia racconto questo episodio, la tragedia ma anche la speranza per questo paese.”
Cos’è cambiato in questi 20 anni?
Tra i giovani c’è più odio ora di quanto non ce ne fosse subito dopo la guerra. I genitori fanno enormi pressioni sui figli perché non si mescolino con gli altri. I giovani di Sarajevo non vanno a Banja Luka, e viceversa. A 200 metri da qui, dalla sede della nostra associazione, c’è Sarajevo Est. Là vivono 80.000 serbi, penso che meno del 10% di loro venga a Sarajevo. La questione dell’educazione è centrale. Il sistema scolastico è diviso in base alla nazionalità, hanno iniziato nel 1999 con il modello delle “due scuole sotto uno stesso tetto”, una decisione dell’OSCE. È stato un grave errore.
Come valuta il ruolo della comunità internazionale in Bosnia Erzegovina?
Il più importante rappresentante della comunità internazionale è l’Alto Rappresentante, una specie di dittatore che però non fa le sole cose che dovrebbe fare, cioè arrestare sia Dodik che Lagumdžija [presidente della RS e ministro degli Esteri della BiH, ndr]. Quando Dodik afferma che la Bosnia non può esistere in quanto Stato unitario, andrebbe rimosso dalle sue funzioni, ma questo non accade.
Quest’anno il presidente serbo Nikolić ha chiesto perdono per Srebrenica, ha firmato un accordo sul Nord del Kosovo, ha dichiarato che i serbi di Bosnia sono in primo luogo dei bosniaci. L’atteggiamento di Belgrado può favorire il miglioramento della situazione politica in Bosnia?
Non credo. Dodik continua con la propria retorica, minacciando in continuazione un referendum sull’unione tra Serbia e RS. Inoltre sono scettico rispetto alle capacità di tenuta dell’accordo su Mitrovica. Per quanto riguarda Srebrenica è vero, Nikolić si è scusato, ma né lui né il parlamento di Belgrado hanno detto che a Srebrenica è avvenuto un genocidio.
Dayton è il peccato originale per l’attuale stallo politico in Bosnia?
Dayton era un buon accordo, ma non è stato realizzato. Ad esempio disponeva che tutti i paramilitari lasciassero la Bosnia entro un termine di 90 giorni. La maggior parte dei paramilitari musulmani invece sono rimasti. Sono i cosiddetti amici che sono venuti qui durante la guerra per aiutarci, e che non ci hanno aiutato per nulla. È stato molto negativo che i musulmani arabi, i mujaheddin, siano stati qui. Alcuni poi si sono fermati, si sono sposati, e oggi ce ne sono più di quanti non ce ne fossero negli anni ’90. Inoltre Dayton diceva che tutti i rifugiati potevano tornare nelle proprie case, ma ne sono tornati meno della metà, un milione circa, e per lo più nelle aree dove rappresentano etnicamente la maggioranza.
Perché la Bosnia non applica la Sejdić-Finci, la sentenza della Corte di Strasburgo sul rispetto dei diritti delle minoranze?
Il problema della Sejdić Finci è politico. I politici temono di perdere il potere se accettano che anche coloro che non sono serbi o croati o bosgnacchi possano essere ammessi ad alcune cariche pubbliche. Da questo punto di vista non ci sono differenze tra i serbi, i croati e i bosgnacchi, parlo dei nazionalisti.
Se la Sejdić-Finci non verrà applicata, però, il percorso europeo della Bosnia verrà interrotto…
L’Europa minaccia molte cose ma poi non succede nulla.
Tra breve in Bosnia si terrà il censimento generale della popolazione, con domande su temi sensibili quali nazionalità, lingua e religione. Ci sono dei rischi?
No. Per la Bosnia è molto importante che si tenga questo censimento. Dobbiamo sapere quanti siamo. Sappiamo molto bene che in Republika Srpska (RS) praticamente non ci sono più bosgnacchi, e lo stesso in Federazione, a Sarajevo, dove i serbi sono oggi molto pochi, il 95% della popolazione è bosgnacca. Dopo la guerra sono state fatte pressioni di ogni tipo sui serbi che erano rimasti. Ci sono serbi che sono vissuti qui per tutta la guerra ma che nei tre, quattro anni successivi alla fine dei combattimenti sono passati a vivere a Sarajevo est.
Anche il ricordo degli anni ’90 è diviso?
Avete visto il monumento ai bambini morti che è stato eretto sulla via Maresciallo Tito? Io ero contrario. Ho fatto parte di una commissione che aveva previsto un monumento per tutti i bambini di Sarajevo, non solamente per quelli che erano dentro l’assedio. Ci sono stati incidenti anche nella zona controllata dai serbi. Ricordo ad esempio, nel 1994, quando un cecchino di Sarajevo uccise due bambini nella parte serba, a Grbavica. Loro in quel monumento non ci sono. Ricordo bene quei giorni, e l’ira dei serbi, e il nostro governo che aveva detto di non essere responsabile. Dopo qualche giorno però i caschi blu hanno mostrato che i colpi erano partiti da una casa che si trovava nel nostro territorio, dalla parte della Sarajevo assediata. La reazione del nostro Stato maggiore era stata di giustificare il responsabile, dicendo che si trattava di qualcuno che l’aveva fatto per vendetta, perché erano state uccise persone della sua famiglia. Questa però non era una giustificazione possibile.
Lei è serbo. Quando ha deciso di prendere le parti del governo di Sarajevo?
Subito. Io ero comandante della difesa territoriale della Bosnia Erzegovina, non facevo parte dell’esercito. Nel sistema jugoslavo c’erano due organi di difesa. Oltre all’esercito, che costituiva il primo sbarramento in caso di un attacco dall’esterno, ogni repubblica aveva le proprie difese territoriali, che erano la riserva dell’esercito nel caso di guerra nel proprio territorio. Quando è iniziata la guerra, e l’aggressione alla Bosnia Erzegovina, era mio dovere restare dalla parte di chi veniva attaccato, dalla parte dei più deboli. Dicono sempre che ero nell’esercito e che ho preso le parti dei musulmani. Non è così. È avvenuto un attacco e per me non si trattava di una scelta, quella di difendere. Ero obbligato, era il mio dovere. Quando mi ha chiamato lo stato maggiore dicendo che potevo essere comandante aggiunto dell’esercito bosniaco, che sarebbe stato un esercito multinazionale, per me è stato un onore accettare.
All’inizio della guerra è avvenuto un episodio controverso, quello della Dobrovoljačka Ulica. L’esercito jugoslavo stava uscendo da Sarajevo ma è iniziata una sparatoria, ci sono state delle vittime. Lei è stato accusato dalla Procura di Belgrado di essere il responsabile di quanto era avvenuto. Cos’è successo quel giorno?
Il 2 maggio [1992] l’esercito jugoslavo era nel centro di Sarajevo con i carri armati, hanno sparato con l’artiglieria per tutta la giornata, quel giorno c’è stata battaglia, abbiamo vinto con i piccoli gruppi della difesa territoriale bosniaca e i carri armati sono rientrati a Lukavica, una trentina, non ricordo quanti.
Il giorno dopo c’è stato uno scambio tra i comandanti del II Corpo d’Armata, che erano ancora in città, e Alija Izetbegović [che era stato sequestrato all’aeroporto al ritorno da una conferenza internazionale, ndr]. Mentre i serbi si stavano ritirando, però, soldati bosniaci, che erano in strada, hanno ucciso sei militari. È stato detto che erano stati i serbi a cominciare a sparare, e che noi avevamo reagito, ma non è vero.
Ci sono le immagini di lei che cerca di fermare la sparatoria gridando: “Non sparate”…
Sì, ma siamo stati noi a sparare per primi, non i serbi. C’era una vettura del pronto soccorso con a bordo anche 4 ufficiali, 3 colonnelli e un sotto colonnello… Hanno detto loro di uscire e gli hanno sparato sul posto. Sono morte sei persone. E’ stato un crimine di guerra. Io ho visto e ho riferito a Izetbegović, che non ne sapeva nulla. Poi però i serbi hanno detto che avevo organizzato tutto io, che ero io il responsabile. Ma non è andata così. [La infondatezza delle accuse contro Jovan Divjak per i fatti della Dobrovoljačka è stata più volte ribadita dalla giustizia internazionale, ndr]
All’intervista ha partecipato M. Alba Gilabert Grau di Catalunya Radio
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