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Diritti umani in Armenia: il rapporto Muižnieks

Il Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, ha reso pubblico martedì il rapporto sullo stato dei diritti umani in Armenia. Al centro dell’attenzione la violenza contro le donne e l’indipendenza dei giudici. Intervista

12/03/2015, Andrea Oskari Rossini -

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Signor Muižnieks, perché il Commissario per i Diritti Umani si è recato in Armenia?

Il mio viaggio in Armenia è avvenuto nel quadro del programma ordinario di incontri che svolgo nei 47 paesi membri del Consiglio d’Europa. Nel corso di queste visite identifico due o tre grandi questioni che voglio approfondire, relative allo stato dei diritti umani nel paese.

Che cosa ha trovato?

Ci siamo concentrati su due questioni: amministrazione della giustizia e diritti delle donne. Molto deve ancora essere fatto per rafforzare l’indipendenza del sistema giudiziario. C’è un generale problema di subordinazione dei magistrati, in particolare rispetto al presidente [della Repubblica], il cui ruolo è troppo rilevante nella nomina e revoca dei giudici. In Armenia c’è inoltre un generale problema di parzialità delle Procure, e di predominio delle Procure stesse all’interno del sistema. Devono essere rafforzate le prerogative della difesa nel quadro di un processo equo.

Si tratta di problemi diffusi nei paesi post sovietici o di specificità del sistema armeno?

Il problema della parzialità delle Procure è rilevante anche in altri paesi. Ho trovato problematiche molto simili ad esempio in Moldavia e Russia.

C’è un controllo di tipo politico?

Non necessariamente anche se, come in molti altri paesi, ci sono anche problemi di giustizia selettiva o politicizzata. Parliamo però soprattutto di una media di assoluzioni, per l’Armenia, intorno al 3%, cioè molto bassa. Ci sono poi legami molto stretti tra procuratori e giudici, spesso un procuratore diventa giudice. In generale, il ruolo della difesa nel sistema è estremamente debole.

Nel suo rapporto lei sottolinea il drammatico fenomeno della violenza contro le donne, e in generale la questione della diseguaglianza di genere nella società armena. Quanto è profondo questo problema?

Durante la mia scorsa visita in Armenia, un anno fa, ero stato colpito in maniera particolare dagli attacchi che avevo registrato nei confronti di organizzazioni di donne e di singole attiviste, oltre alle statistiche sulla selezione pre-natale.

Cioè?

C’è un enorme squilibrio, in Armenia, tra bambini e bambine. Si tratta di un fenomeno diffuso in tutta la regione caucasica, ma anche nei Balcani occidentali. In Armenia però è presente in maniera particolare. Le statistiche indicano che i genitori tendono ad abortire selettivamente in base al genere, il che suggerisce che bambini e bambine non sono considerati allo stesso modo. Questo atteggiamento trova conferma nella minore partecipazione delle donne alla vita politica e pubblica. C’è poi un fenomeno inquietante di violenza domestica, di fronte al quale è chiaro che finora la risposta non è stata adeguata. Abbiamo casi in cui addirittura la retorica di esponenti politici giustifica la violenza domestica, oppure ci sono ufficiali di polizia che aggravano il problema colpevolizzando le donne. C’è una sola casa sicura per donne in tutta l’Armenia…

Una sola?

Esattamente. Ho chiesto alle autorità di dare un segnale politico chiaro rispetto a questo fenomeno, rendendo evidente che la violenza contro le donne è inaccettabile e che non verrà tollerata, che gli aggressori saranno perseguiti. Ho anche chiesto di fornire sostegno alle associazioni che lavorano in questo campo, di finanziare più case sicure, come anche di formare le forze di polizia e adottare una legislazione adeguata. L’Armenia dovrebbe ratificare la Convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza sulle donne , perché si tratta del documento più rilevante a livello internazionale sull’argomento, e Yerevan potrebbe guadagnare molto dall’essere parte del meccanismo di quella Convenzione.

Come si può contrastare invece il fenomeno della selezione pre-natale?

Parte della risposta sta nell’affrontare le motivazioni che stanno alla base di questo problema, far capire che bambini e bambine hanno lo stesso valore, si tratta di un percorso lungo di educazione. Inoltre si possono coinvolgere i professionisti del settore, ad esempio chiedendo di non rivelare il genere del feto nei primi tre mesi di gravidanza, non si tratta di un’informazione necessaria nel primo trimestre. Infine, bisognerebbe coinvolgere l’ombudsman e altri attivisti dei diritti umani nel processo. È un problema di lungo termine, ma se non viene affrontato può determinare una situazione totalmente sbilanciata dal punto di vista della percentuale di genere all’interno della società. Mi ha molto colpito, ad esempio, sapere che in una regione dell’Armenia c’è un rapporto di 124 maschi per 100 femmine, si tratta di una disparità enorme, che può portare in futuro a problemi sociali molto gravi. Credo che in generale serva aprire un dibattito pubblico su queste questioni, e fare il possibile per far comprendere il valore delle bambine e donne nella società.

Qual è la situazione delle indagini per le vittime degli scontri del 2008?

La questione delle uccisioni del 2008 non è ancora stata risolta, nel senso che non sono ancora stati puniti i responsabili. Le vittime, le loro famiglie, non sono soddisfatte dei risultati delle indagini sette anni dopo i fatti.

Nel suo studio si sottolineano anche le denunce di maltrattamenti da parte delle forze di polizia. Stiamo parlando di tortura?

Ci sono numerose denunce di maltrattamenti da parte della polizia di persone arrestate o fermate, denunce che sono state documentate dal Comitato per la prevenzione della tortura nelle sue visite del 2010 e 2013. Io stesso ho ricevuto numerose denunce su questo tema. È chiaro che bisogna fare molto di più. In primo luogo, bisogna ridurre il peso delle prove ottenute dalla polizia o dagli investigatori sotto confessione in situazioni di costrizione. Deve essere inoltre garantita da subito la presenza di un avvocato e l’accesso a cure mediche per le persone in stato di fermo o di arresto, e infine i procuratori devono perseguire le mele marce che compiono atti di violenza nei confronti dei detenuti o fermati.

Quanto il conflitto in Nagorno Karabakh influenza lo stato dei diritti umani in Armenia?

Ogni conflitto che vede persone morire ogni settimana, se non ogni giorno, ha effetti negativi sui diritti umani, a diverso livello. In generale, i diritti umani vengono sacrificati sull’altare della sicurezza nazionale quando ci sono dei conflitti in corso. Sono stato però favorevolmente colpito da alcuni cambiamenti che ho constatato in Armenia recentemente, in particolare l’introduzione dell’obiezione di coscienza e di misure alternative al servizio militare. Questi sono passi in avanti che considero molto positivamente.

Si tratta di un diritto effettivamente acquisito per i giovani armeni?

Sì. Inoltre è diminuito il numero delle morti di militari non in combattimento, anche se c’è ancora mancanza di fiducia tra le famiglie delle vittime di questi episodi e le autorità.

Il problema non è ancora stato affrontato in modo soddisfacente per le famiglie?

In alcuni casi sì, in altri non ancora. In un caso ad esempio ci sono state delle condanne, ma insoddisfacenti per la famiglia della vittima che riteneva trattarsi di un caso di omicidio, e non di incitazione al suicidio. Serve un maggiore dialogo tra le famiglie, le associazioni e le autorità.

Per quanto riguarda più in generale la situazione dei diritti umani nella regione, lei riconosce problematiche simili tra Armenia, Azerbaijan e Georgia, o ci sono differenze significative?

Credo che ci siano alcune questioni molto simili. Ad esempio, quella dell’indipendenza e imparzialità dei giudici. Si tratta di una tendenza comune, forse più seria in Azerbaijan. In questo paese tutti i principali partner del mio ufficio, difensori dei diritti umani, sono stati recentemente incarcerati e perseguiti sulla base di accuse che – per dirla molto onestamente – mancano di credibilità. Quindi direi che l’Azerbaijan rappresenta un caso particolare. Il problema dell’indipendenza dei giudici però riguarda tutta la regione. Anche la questione dei maltrattamenti dei detenuti è un problema che riguarda la regione. In Georgia era un problema enorme…

Come anche la situazione dei luoghi di detenzione in questo paese…

Sì, spaventosa. La situazione del carcere che ho visitato in Azerbaijan, invece, non era ad esempio così negativa, anche se in questo paese mi ha occupato di più il problema di chi finisce in carcere piuttosto che le condizioni della detenzione. Per quanto riguarda infine la questione della parità di genere, anche questo è un problema che riguarda tutti e tre i paesi. Forse in Azerbaijan e Armenia c’è meno consapevolezza. Né Baku né Yerevan, infatti, hanno ratificato la Convenzione contro la violenza sulle donne. Ci sono quindi motivi comuni di preoccupazione, anche se credo che la situazione in Azerbaijan sia specifica, a causa del giro di vite nei confronti degli attivisti dei diritti umani che ha avuto luogo negli ultimi mesi.

Qual è stata in generale l’atmosfera degli incontri con le autorità armene?

Mi ha fatto molto piacere il tono e il livello del dialogo che ho avuto con le autorità, sono stato ricevuto ai livelli più alti e spero nella continuazione di questo dialogo, sia con le istituzioni che con la società civile, per favorire un reale progresso su queste questioni. Il rapporto è solamente un punto di inizio.

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