Diego Zandel: a bordo dell’Esperia
Grazie alle recensioni di Diego Zandel i lettori di OBC Transeuropa possono tenersi aggiornati su gran parte della narrativa che esce nelle librerie ed è collegata ai Balcani. Ma Diego non è solo questo, è innanzitutto uno scrittore lui stesso e un instancabile animatore culturale. Lo abbiamo intervistato in occasione della ristampa di due dei suoi romanzi
Sia Operazione Venere che Crociera pericolosa – usciti di recente per Oltre Edizioni – sono due riedizioni dei romanzi pubblicati nella storica collana Segretissimo di Mondadori e sono parte della cosiddetta trilogia dell’Esperia. Cosa rappresenta questa imbarcazione?
Considero i due romanzi un “divertimento”, per usare la stessa categoria che Graham Greene, uno scrittore che ho particolarmente amato, ha usato per le sue opere più commerciali. Lei giustamente ha ricordato che originariamente i due romanzi uscirono nella collana pulp settimanale di spy-story Segretissimo della Mondadori. È curioso anche come sono nati. Era da poco caduto il muro di Berlino, che rappresentava un po’ simbolicamente quella che veniva chiamata la cortina di ferro tra l’occidente capitalista e l’oriente comunista, una divisione del mondo che vedeva lo scontro tra i servizi segreti occidentali, in particolare la CIA americana o l’MI5 o l’MI6 inglesi da una parte e i servizi segreti comunisti, in particolare il KGB sovietico, dall’altra.
A quel punto, a risentirne la crisi fu la stessa narrativa di genere, e quindi la collana Segretissimo. Così, per correre ai ripari, l’allora direttore di Segretissimo e dei Gialli Mondadori, Gian Franco Orsi, chiamò, tra gli altri, me, che avevo già scritto “Massacro per un presidente”, pubblicato dalla stessa Mondadori nella collana di narrativa italiana, uno dei primi romanzi sul terrorismo italiano in cui comparivano anche i servizi segreti italiani, per chiedermi se ero disponibile a scrivere spy-story per la sua collana. Accettai la scommessa. Orsi mi disse pure che i lettori della collana si affezionavano in particolare alle serie con gli stessi personaggi. Così m’inventai una nave da crociera – e vengo alla sua curiosità – a cui diedi il nome di “Esperia” che era il nome di una nave dell’Adriatica Navigazione, società della quale era dipendente mio padre e nave sulla quale, nel lontano 1972, avevo fatto il mio viaggio di nozze nel mediterraneo orientale. Come personaggi fissi misi il capitano e gli ufficiali della nave, tra i quali spicca il profugo fiumano Rudi Hagendorfer, detto Hag, cognome preso dai miei dirimpettai al campo profughi di Roma dove ero finito con i miei genitori dopo quello di Servigliano, in cui sono nato, e il maitre, un ex campione di lotta libera greco, Stavros Xenicos, a cui ho dato il cognome della madre greca della mia prima moglie, oggi scomparsa. Della serie sarebbero usciti tre romanzi: oltre a “Crociera pericolosa” e a “Operazione Venere”, “L’uomo di Kos”, quest’ultimo però con la Hobby&Work in edizione cartonata. Quanto alle tematiche, anche in questo caso, sono sempre le mie: l’Istria e Fiume, i Balcani, la Grecia, ovvero le terre legate alla mia vita.
In un’intervista dichiarava una “predilezione per il genere avventuroso” di questi romanzi, accompagnati da uno “sguardo politico”. Come si legano questi due aspetti e lei come è arrivato al genere thriller?
La sua domanda mi riporta ai miei autori preferiti, Graham Greene ed Eric Ambler, i cui romanzi hanno questa caratteristica: di unire l’avventura alla politica, e l’una e l’altra vissute in direzione di una ricerca, quella della libertà, dell’affrancamento da un qualcosa che ostacola il libero manifestarsi della propria esistenza. È inevitabile, a questo punto, il confronto con il contesto storico che condiziona i luoghi e i protagonisti in campo. Non lo so se la predilezione per questi autori e i loro romanzi nasca dallo scenario avventuroso che ha dato l’imprinting alla mia vita, molto determinata dalla storia e dal contesto politico in cui sono nato e cresciuto – figlio di esuli fiumani avventurosamente fuggiti dalla Jugoslavia di Tito, il fatto di essere nato e cresciuto in un campo profughi, abitato da gente che si sentiva vittima della Storia e della politica, con mezza famiglia che abitava al di là dell’allora cortina di ferro, con storie che lasciavano intravvedere in un bambino un mondo diverso, di misteri, segreti, conflitti, spie, il mondo cosmopolita della frontiera – oppure da altre motivazioni, esclusivamente letterarie, come ad altri possono piacere i romanzi fantasy o d’amore.
Si aggiunga che, forse non a caso, ho sposato, giovanissimo, una donna di origine greca che mi ha praticamente introdotto e fatto amare un mondo come quello greco e più in generale levantino del Dodecaneso, anch’esso turbolento politicamente, anch’esso mondo di frontiera, che ha finito con l’innestarsi a quello dal quale provenivo. Non a caso c’è un terzo scrittore, sempre inglese, i cui libri mi hanno influenzato. Parlo di Lawrence Durrell, che mi aveva affascinato in particolare con il suo Quartetto di Alessandria, ovvero la tetralogia di romanzi ambientata nella Alessandria d’Egitto levantina e cosmopolita della fine degli anni Trenta e inizio Quaranta, in cui ho ritrovato tutti gli ingredienti che nutrono la mia fantasia e costituiscono i miei interessi.
Il giallo e il thriller sono generi sempre molto apprezzati dal pubblico ma non sempre trovano spazio fuori da alcune nicchie. Perché è così secondo lei? Sono passati di moda?
Credo che questo fosse vero finché del thriller e del giallo esistevano collane apposite, facilmente identificabili, come i Gialli Mondadori o i Gialli Garzanti o lo stesso Segretissimo per la spy-story, e che quindi finivano col richiamare solo il pubblico amante del genere, addirittura riducendo, con la loro confezione, a “genere” anche romanzi di indubbio profilo letterario. Le porto l’esempio di Eric Ambler. Per anni i suoi romanzi sono usciti in collane di genere, Segretissimo stesso o nei Gialli Garzanti, per cui non venivano prese neppure in considerazione le sue qualità letterarie. L’abito, in un certo senso, faceva il monaco, e sfuggiva la vera realtà che c’era sotto la tonaca.
Ora che Eric Ambler è pubblicato nelle raffinate edizioni Adelphi, nessuno si sognerebbe più di ridurre a genere romanzi come “L’eredità Schirmer” o “Il processo Delchev” e gli altri che via via sono usciti con questa sigla editoriale, mentre io li amavo come opere letterarie già quando li leggevo nella collana dei Gialli Garzanti. Ma si può dire la stessa cosa di Simenon. Oggi questa ghettizzazione non esiste più. Anzi, il giallo, che si preferisce ora definire alla francese “noir”, è il romanzo che grazie ad alcuni autori – che vanno da Loriano Macchiavelli a Massimo Carlotto a Giancarlo De Cataldo a Carofiglio ed altri – meglio rappresentano la realtà sociale che viviamo. Direi invece che sono proprio questi ad andare oggi più di moda.
I luoghi nei suoi libri non sono mai casuali: Cipro e Kos sono solo due esempi di località a cui lei stesso dichiara il proprio legame, con gran parte del Mediterraneo. Perché ci affascinano così tanto le isole del nostro mare? Ci sono ancora storie dimenticate da raccontare?
Io sono legato ai luoghi dalla mia biografia. Il fatto che alcuni di questi siano isole è una pura casualità, anche se è vero che l’isola offre a chi la vive di essere un mondo separato, da cui non hai altre vie di scampo che il mare o le ali di Icaro. A conoscerle poi intimamente si scoprono tante storie dimenticate. Ad esempio il mio romanzo “Il fratello greco” nasce da una storia risalente all’occupazione tedesca dell’isola di Kos, all’epoca sotto amministrazione italiana, come tutto il Dodecanneso, passato sotto giurisdizione italiana dopo oltre 400 anni di dominazione ottomana in seguito alla guerra italo-turca vinta dall’Italia nel 1912.
I tedeschi occuparono l’isola agli inizi del mese di ottobre del 1943 dopo un combattimento di 48 ore contro i soldati italiani, tra cui il mio futuro suocero, che la presidiavano, non esitando, una volta conquistata l’isola, a uccidere, per rappresaglia, 103, forse 106, ufficiali italiani, 66 corpi dei quali o di quel che ne restava furono poi ritrovati anni dopo negli acquitrini di una località dell’isola chiamata Linopoti. “Il fratello greco” prende spunto da quel tragico evento, che l’Italia ha completamente e vergognosamente rimosso, come se quei 106 ufficiali non fossero lì per l’Italia, per poi svilupparsi secondo un’idea sua propria, ma che riporta ai rischi vissuti e alle protezioni avute da parte dei greci di quei soldati che si nascondevano dalla caccia tedesca ai soldati italiani sfuggiti alla prigionia (non fu il destino di mio suocero che finì in un campo di concentramento in Germania). Ma, per fermarci a quei 106 ufficiali, nessun governo italiano del dopoguerra ha mai provveduto a dedicare non dico un monumento, ma una stele, una targa in loro ricordo. Solo il comune greco di Kos nel 1992 ha posto una grande lapide al camposanto cattolico dell’isola con i nomi e cognomi, in stretto ordine alfabetico, degli ufficiali massacrati. All’inaugurazione non uno straccio di rappresentante del governo italiano si fece vedere, a rappresentare l’Italia solo due anziani dell’Associazione reduci italiani dell’Egeo.
Nella sua produzione però c’è spazio per i più svariati generi: non mancano i romanzi, ma anche la saggistica. In quale ambito ora si sente maggiormente a suo agio?
La mia saggistica nasce dalla mia attività giornalistica, non da studi accademici. È figlia solo della passione per la materia che tratto, in particolare i Balcani, i suoi autori, e il mondo che le loro opere rappresentano. Resto decisamente un narratore. Su 18 libri finora pubblicati, i saggi, se non vogliamo mettere tra questi anche l’autobiografico “Manuale sentimentale dell’isola di Kos”, sono tre, uno su Andrić, scritto a quattro mani con Giacomo Scotti, un altro, intitolato “Balcanica” che raccoglie gran parte delle mie recensioni di libri di autori balcanici o di libri sui Balcani scritte in tanti anni per varie testate, massimamente per OBC Transeuropa, e un libro come “Apologia della lettura”, dello scorso anno, che spazia su un’altra mia passione: i libri, leggerli e farli, non solo i miei, ma anche quelli degli altri. Per anni sono stato “lettore professionale” per le case editrici Mondadori, Rusconi e Bompiani, mentre oggi curo alcune collane per un piccolo gruppo editoriale ligure, quello della Oltre Edizioni, che si compone anche delle case editrici Gammarò e Töpffer. È un divertimento che, arrivato a 73 anni, mi concedo grazie all’amicizia e stima reciproca con l’editore Paolo Paganetto che mi dà carta bianca nella scelta degli autori e delle opere da pubblicare.
Le sue origini, come afferma spesso, sono forse l’aspetto più presente nella sua produzione. Come entrano e su quali aspetti ritiene più importante soffermarsi?
Io sono le mie origini. Non solo l’esilio e il campo profughi e il fatto di essere stato allevato, fin dalla culla – che, è bene sottolineare, era una cassetta di arance – da una nonna istrocroata, in seguito al ricovero in sanatorio, subito dopo la mia nascita, di mia madre, malata di tisi. Ma anche per il portato famigliare che ho alle spalle, a cominciare dal capostipite, il mio bisnonno Carlo Zandl, senza la e, figlio di una ragazza madre austriaca, Maria Zandl, che l’ha abbandonato quattro giorni dopo il battesimo alla ruota dell’ospedale maggiore di Trieste, e poi dato in adozione, con il cognome aggiustato di Zandel, a una famiglia istrocroata della zona di Albona. Sposatosi poi con Olivia Frankovich, avrebbe messo al mondo 7 figli maschi, dando cosi il via a una vasta progenie che oggi, oltre che in Istria, tra esilii ed emigrazioni, è sparsa un po’ in tutto il mondo, ma che, straordinariamente, è legata da un forte senso di appartenenza che travalica i continenti, i confini e le lingue che ciascuno di noi parla. Una famiglia che, nel mio caso personale, ha trovato un’altra sponda di sangue, se penso ai miei figli, anche nella Grecia, che amo come una mia terra e che considero fonte di sempre nuovi spunti letterari.
A che cosa sta lavorando attualmente? Ci sono uscite all’orizzonte?
Ho finito un romanzo ispirato al processo di Oskar Piškulić, il capo dell’Ozna di Fiume, la polizia politica di Tito, accusato di omicidi degli autonomisti, e antifascisti, fiumani Giuseppe Sincich, Nevio Skull e Mario Blasich e di altri, avvenuti lo stesso giorno dell’entrata dei titini in città. Il processo, svoltosi a Roma, nei suoi vari gradi, dal 1997 al 2004, era stato al centro di polemiche, manifestazioni, proteste dei ministri degli Esteri croato e sloveno, e interrogazioni parlamentari da esserne, a mio avviso, in qualche modo condizionato. Da qui l’idea di una storia a forti tinte noir che ritengo avvincente e, come si dice, ricca di suspense, oltre che interessante dal punto di vista storico e politico. Sulla stessa vicenda ho anche scritto con la scrittrice della minoranza italiana a Fiume Laura Marchig un recital intitolato “Processo a Piškulić, il boia degli autonomisti. Chi ha paura dello Stato Libero di Fiume?” che abbiamo eseguito a Torino nel 2019. Il romanzo invece è adesso in mano al mio bravo agente letterario che provvederà alla sua pubblicazione, che spero avvenga entro il prossimo anno.
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