Tipologia: Intervista

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Area: Serbia

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Diciotto anni dopo, ancora voglia di Europa

Il Movimento europeo in Serbia compie quest’anno 18 anni. Da un passato contro la guerra e il regime di Milošević alle iniziative per promuovere i valori europei e il percorso di integrazione europea. Ne parliamo con Maja Bobić, segretario generale dell’organizzazione

04/06/2010, Cecilia Ferrara - Belgrado

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A pochi giorni dal “Meeting di Alto Livello Ue – Balcani Occidentali” che si è tenuto a Sarajevo il 2 giugno scorso, Osservatorio Balcani e Caucaso ha incontrato Maja Bobić, segretario generale del Movimento europeo in Serbia. Il Movimento europeo, dagli inizi degli anni Novanta, promuove l’idea di Europa nel proprio paese attraverso iniziative che coinvolgono i giovani studenti serbi e formazione sulle possibilità offerte dal processo di integrazione europea. Il Movimento nasce nel 1992 e inizialmente lavora con altre ong in attività e campagne contro la guerra, a favore della cooperazione internazionale e della diffusione di valori europei.

Cosa vi ha spinto a costituire un movimento europeo nel 1992? La Jugoslavia era un Paese che veniva dal socialismo, dal movimento dei non allineati e che stava producendo movimenti fortemente nazionalisti: come vi è venuto in mente di dire “no, noi siamo europei”?

L’idea di essere europei non ci ha mai abbandonato, esisteva durante il socialismo ed esisteva prima di esso. Si può far risalire all’inizio del ‘900, ai tempi in cui l’élite serba veniva educata in Francia in Inghilterra, in Germania. Il senso di comunione con gli europei non si dissolse durante il comunismo, che certamente fu anti-capitalista e anti-occidentale, ma anche comunque differente rispetto ai regimi dei paesi del blocco sovietico.
Il movimento europeo conobbe un primo impulso alla fine degli anni Ottanta quando un gruppo di intellettuali e anche di persone che avevano posizioni importanti nel partito comunista e nel regime espressero la volontà di creare il Movimento Europeo della Jugoslavia. Purtroppo ben presto iniziarono le tensioni nazionalistiche nelle rispettive repubbliche che portarono alla dissoluzione del paese. I promotori del Movimento europeo decisero che sarebbe stato meglio far nascere un movimento limitato alla Serbia, ma allo stesso tempo l’isolamento della Serbia fece capire che era ancora più importante ricostituire una connessione regionale ed europea.

Quest’anno il Movimento Europeo compie 18 anni, ha raggiunto, per così dire, la maturità. Che cosa avete imparato in questi anni?

Al compimento dei nostri primi 15 anni c’è stato un tentativo più approfondito di fare una sintesi su cosa avesse fatto il Movimento europeo e su cosa avesse fatto la Serbia. La stima fu piuttosto al ribasso: negli anni ‘90 tutti quelli che facevano advocacy per l’integrazione europea si aspettavano che la guerra sarebbe finita, che avremmo avuto un cambio di regime, che ci sarebbe stato un governo democratico a favore dell’integrazione. Questo accadde effettivamente nel 2000, ma nessuno fu soddisfatto della velocità con cui le riforme vennero fatte da li in avanti. Sicuramente le aspettative, non solo le nostre ma anche quelle di tutti coloro che avevano partecipato alle proteste e alla lotta contro Milošević, erano molto alte, mentre quello che avevamo di fronte era un Paese devastato in tutti i sensi: istituzionalmente, economicamente, politicamente. È vero, però, che il nuovo governo non riuscì a gestire molto bene il processo di transizione e naturalmente noi, come ong, facevamo pressione affinché avvenisse un reale cambiamento che coinvolgesse la società intera. Quindi non potevamo essere soddisfatti della velocità del cambiamento e anche per i molti problemi che il nuovo governo presentava, come l’alto livello di corruzione e la debolezza contro il crimine organizzato.

E oggi?

Possiamo dire che oggi il consenso nei confronti del cammino europeo della Serbia è alto a livello istituzionale, politico e popolare, anche se come spesso accade non c’è una percezione molto realistica dell’Unione Europea. Quando si pone la domanda di base “voteresti per entrare in Unione europea?”, due terzi dei cittadini rispondono sì, ma se si va più in profondità chiedendo che cosa sarebbero disposti a cambiare nella propria vita per entrare in Europa non c’è molta flessibilità. Se la domanda è sui benefit dell’accessione, la maggior parte delle persone risponde che è la libertà di movimento, che è stato il maggior risultato tangibile dell’ultimo anno, e il miglioramento del livello di vita e i soldi. Quindi una percezione assolutamente sbagliata.

Ci sono secondo lei responsabilità dell’Unione nei confronti della Serbia per questa percezione un po’ distorta?

Ci sono stati degli errori da parte dell’Ue. Dopo il 2000 abbiamo sempre registrato una certa indecisione nei confronti della Serbia. Non ci sono mai stati dubbi sulla prospettiva europea del nostro Paese, l’Europa ha investito molto in Serbia in tutti i campi, ma le decisioni politiche spesso erano questionabili.
Un esempio può essere l’esperimento “Unione Serbia Montenegro” che fu in parte sponsorizzato dall’Unione Europea. Si pensò che Serbia e Montenegro insieme avrebbero funzionato meglio – così come credeva parte dell’elite politica locale – e quindi venne formata l’Unione di Serbia e Montenegro che risultò essere un grosso problema in termini di integrazione. A quel punto infatti c’erano tre livelli che il processo di avvicinamento doveva seguire: quello in Serbia, quello in Montenegro e quello del livello centrale, più un necessario coordinamento tra le due repubbliche. Fu così che anche prima del referendum del 2006 l’Unione europea capì che non ci poteva essere un’unica “road map” per l’integrazione e iniziò a seguirne due parallele.

Ci sono poi le condizioni per l’accesso, che sono uno dei principali metodi per il processo di integrazione, che a volte sono state dettate con poca chiarezza. Ad esempio nel 2006 l’Unione europea bloccò i colloqui per gli ASA (Accordo di associazione e stabilizzazione) a causa della non cooperazione con il tribunale dell’Aja. Ci fu un anno di pausa e nel 2007 sono iniziati i negoziati, ma non si è capito quali fossero stati i cambiamenti nel livello di cooperazione con il tribunale. Nell’autunno del 2008 abbiamo finalmente finito i negoziati per gli ASA e firmato gli ASA ma, di nuovo, l’implementazione dell’accordo ad interim è stato bloccato per avere maggiore cooperazione con il TPI. Alla fine del 2009 è stato sbloccato l’accordo ad interim, ma adesso manca la ratifica da parte del Consiglio europeo [secondo le ultime notizie il processo di ratificazione dovrebbe iniziare a metà giugno ndr.]

Da una parte le condizionalità hanno effettivamente portato la Serbia a collaborare con il TPI, dall’altra l’Europa vuole dare incentivi e segnali positivi ai cittadini e cede parzialmente sulle condizioni precedentemente imposte.

Proprio per questo penso che sia fondamentale per la Serbia diventare un paese “candidato” perché è una parte molto impegnativa nel processo di integrazione europea, ancora molto lontano dalla membership, ma che obbligherebbe la Serbia ad applicare riforme serie soprattutto per quanto riguarda lo stato di diritto.

Cosa è cambiato con la liberalizzazione dei visti?

Diciamo che è cambiato quello che ci si aspettava cambiasse. Quando si leggono i sondaggi, le persone dichiarano che oggi hanno la libertà di viaggiare e andare dove e quando vogliono, anche se a causa della situazione finanziaria probabilmente non utilizzeranno questa libertà. Naturalmente la categoria che più è soddisfatta sono i giovani che sono più mobili, che possono usufruire più facilmente di programmi di formazione all’estero, ma anche i cittadini che vivono vicini ai confini di Ungheria, Bulgaria e Romania che possono fare le loro piccole o grandi commissioni al di là del confine. Senza contare il forte impatto psicologico per tutti.

Esiste secondo lei competizione tra Europa e Russia rispetto all’influenza sulla Serbia?

Tra Russia e Serbia c’è un legame speciale. La Russia è molto presente negli ultimi anni sia politicamente che economicamente, ma questo non ha niente a che vedere con l’ingresso nell’Unione europea. Alcuni partiti tentano di utilizzare la Russia in senso antieuropeo, ma in realtà Mosca è favorevole all’integrazione europea della Serbia. Un discorso diverso è per l’entrata nella Nato, ma è un’altra questione anche per la Serbia stessa. Ora è molto in voga uno slogan che tiene insieme Europa e Russia. Ad esempio Tomislav Nikolić lo sta usando con il suo nuovo partito (Partito progressista serbo – SNS) ormai pro-europeo: siamo sia est che ovest, siamo sia filorussi che filo europei. Uno slogan che la gente ama molto sentirsi dire.

Perché c’è questa necessità di sentirsi dire proprio questo? C’è un timore di perdere la propria identità all’interno dell’Ue?

Sicuramente c’è una paura che non è solo storica, ma deriva da avvenimenti recenti, sia il bombardamento Nato a cui presero parte paesi europei, sia la questione del Kosovo. Ed è questa paura che alcuni partiti cavalcano: oggi devi rinunciare a parte del tuo territorio, quindi alla tua storia quindi alla tua identità per andare in Europa e per avere un po’ di soldi.

E la crisi greca ha cambiato qualcosa?

La crisi greca e la reazione dell’Europa ad essa è stata molto seguita qui, anche per le possibili ripercussioni in Serbia. La preoccupazione è che rallenti il processo di allargamento che è già molto affaticato. Personalmente non mi è piaciuta la risposta dell’Ue alla crisi greca ma ad esempio c’è stata una dichiarazione congiunta dei movimenti europei di Grecia e Germania – prima che l’Unione europea approntasse il pacchetto di aiuti – di invito alla solidarietà tra i popoli contro ogni protezionismo e nazionalismo. L’Europa ha bisogno di ritrovare queste forze, questa freschezza di aspirazioni anche al proprio interno.

Cosa ne pensa della cooperazione regionale alla vigilia della conferenza di Sarajevo?

La cooperazione regionale non è solo una condizione per il processo di integrazione europea ma è necessaria per la sopravvivenza di tutti i Paesi. Ormai negli anni si è sviluppata una notevole cooperazione regionale sia a livello economico grazie all’accordo CEFTA (Accordo centroeuropeo di libero scambio), sia a livello di società civile, culturale e di altri settori della società.
L’unico è il livello politico che non sta seguendo il reale sviluppo della propria società.

In questo momento è molto interessante ed importante il nuovo rapporto tra Serbia e Croazia grazie alle frequenti visite che si scambiano i rispettivi presidenti: Ivo Josipović e Boris Tadić. Il miglioramento delle relazioni tra questi due Paesi influirà tra l’altro a livello regionale.

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