Dibattito cooperazione: tra la vita che cambia e la forma che fissa
Prosegue il dibattito sulla cooperazione. Stefano Ellero, responsabile per l’est europeo di una nota ONG italiana, risponde ad un testo da noi pubblicato nelle settimane scorse a firma di Valentina Pellizzer.
Credo che l’intervento di Valentina Pellizzer (approfondimento su OdB del 19/05/2003) abbia lanciato un sasso che merita essere raccolto e rilanciato per l’importanza e la profondità della riflessione in un momento di forte e rapida trasformazione di contenuti e significati per la cooperazione internazionale, ad ogni livello.
Mi chiamo Stefano Ellero, sono stato coinvolto in varie forme nel dramma balcanico fin dal suo inizio e attualmente mi occupo di est Europa dalla sede centrale di una nota ONG italiana. Ho avuto pure occasione di discutere con Valentina molte volte su questi temi essendoci venuti a trovare per un lungo periodo nella stessa zona e nello stesso contesto.
Penso che il dilemma posto da Valentina fra omologazione-fallimento-morte e diserzione-vita-libertà per le ONGs e gli altri soggetti no profit non sia che una delle sfaccettature del mistero più grande che da sempre attanaglia l’umanità, la dicotomia fra idea e materia, fra utopia e realtà fra il regno di questo mondo e un regno che non è di questo mondo… Ovvero penso che il dilemma del cooperante non sia molto diverso dal dilemma dell’impiegato di banca, pedina di un sistema che magari odia e su cui non ha alcun potere.
Non c’è risposta sicura o verità incontrovertibile di fronte a questo dilemma e quindi ogni scelta di campo credo vada rispettata quando assunta con coscienza e con il coraggio di sopportarne le conseguenze.
Per ora ho scelto di non disertare e vorrei quindi in questo luogo provare a fare alcuni ragionamenti sulla cooperazione essendoci ancora dentro.
E’ vero che la cooperazione non governativa vive quasi sempre e per la maggior parte di fondi pubblici senza avere però la capacità o, forse, la volontà di indirizzare le scelte politiche che stanno alla base della destinazione di questi fondi. Partiamo dal primo punto: accettare o non accettare questi fondi. Secondo Valentina il fatto che siano frutto di tasse è un alibi che non tiene. Sarà pure un pensiero debole, ma qualcuno questi fondi li utilizzerà: è allora veramente sbagliato candidarsi, pur all’interno di binari stabiliti da altri, e cercare di farne l’uso più efficace possibile? Bisogna fra l’altro dare un’occhiata anche a questi binari: sono così netti negli obiettivi stabiliti e dettano regole attuative molto strette? Non ne sarei così sicuro. E’ certo che le macro allocazioni seguono le necessità delle politiche mondiali contingenti ( e quindi ora, ad es. il piatto grosso è in Iraq ) ma esistono opportunità che se ben sfruttate permettono di continuare a lavorare anche in zone "fuori agenda" per lungo tempo. Quanto a cosa e come fare, per diretta esperienza, ho visto che le macro decisioni riguardano principalmente i budget totali, tanto in questa zona, tanto su questo tema (grandi temi: ambiente, donne, sviluppo economico….), ma dopo all’interno di queste linee si può proporre quasi di tutto. E i controlli veri, le cosiddette valutazioni di impatto, purtroppo sottolineo, sono rare e molto poco raffinate per cui la libertà di manovra è spesso molto ampia (non ditemi che un progetto promosso viene facilmente respinto dalla cooperazione italiana perché non coerente con qualche politica geografica o con qualche priorità settoriale…). Andiamo ora all’alternativa: se non si lavora con fondi pubblici si lavora con fondi privati e gli unici veramente "liberi" sono quelli che nascono da fund raising. Ma lasciando da parte organizzazioni che hanno già la loro struttura di fund raising per come sono nate (mi riferisco ad esempio a strutture cattoliche ) una agenzia di cooperazione ha due alternative: affidarsi ad esperti o sfruttare con il proprio carisma, se ce l’ha, i media. Nel primo caso è utile ricordare che circa il 50% del raccolto va ai raccoglitori esterni; nel secondo mi chiederei se il Maurizio Costanzo show sponsorizzato dalla BMW all’interno del gruppo Mediaset sia un palcoscenico fuori dal sistema (non sto polemizzando, sto cercando di capire se esistono possibili patenti di verginità…). Rimane solo un’altra alternativa: il fund raising diretto, il coinvolgimento capillare di persone e realtà locali basato sul rapporto personale. Ne esistono già molte, preziosissime e insostituibili esperienze di questo tipo. L’impatto è però a priori trascurabile rispetto ai grandi numeri ed ai problemi sistemici. E allora siamo tornati al cuore del dilemma: scommettere su una rivoluzione dal basso che partendo da queste relazioni e coinvolgimenti nuovi si diffonda a macchia d’olio e cambi radicalmente il nostro sistema oppure, standoci dentro, vedere quali sono gli spazi, le brecce in cui inserirsi e, senza fare molto clamore, cercare di far passare qualche innovazione e qualche idea elaborata grazie al quotidiano confronto con problemi più grandi di te e superando le frustrazioni connesse?
Credo che in entrambe i casi ci siano delle possibilità di resistenza. In entrambe i casi faticose e con conseguenze sul piano personale (non si farà mai carriera se si è critici verso il sistema dal suo interno).
La sfida per chi rimane dentro mi pare chiara: dimostrare di essere capaci di impatto, professionalizzarsi non per guadagnare di più ma per essere in grado di unire passione e capacità di offrire soluzioni, trovare strade di sviluppo della propria capacità di dialogo politico per poter influire anche sulle decisioni macro. Naturalmente che le ONG sappiano e vogliano questo è tutto da dimostrare, ma il punto posto da Valentina era che non esistono ONG buone o cattive ma che è il sistema di cui fanno parte che fallisce a priori il proprio mandato.
L’unica tentazione che abbandonerei ma che, purtroppo mi pare prendere piede, è la contrapposizione fra le due scelte, la radicalizzazione fra un ipotetico campo del bene ed uno del male, di fronte ad un mondo che ha bisogno di risposte. Mi sembra molto un teatrino un po’ personalistico e molto italiano (quanto ci piace teorizzare e aver ragione a parole) mentre sarebbe importante unire gli sforzi di fronte ad una sfida ogni giorno più complessa ed urgente.
Diceva una fotografa friulana, che il dramma della scelta ha vissuto fino ad una probabile morte per mano di sicari stalinisti,: "accetto il tragico conflitto tra la vita che cambia continuamente e la forma che la fissa immutabile".
Stefano Ellero
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