Dialogo con Boris Pahor, oltre la morte
Un ultimo saluto a Boris Pahor, una riflessione sul tema del male, del dolore per le comunità oppresse, del valore e della fragilità del corpo
(Contributo originariamente pubblicato su www.michelenardelli.it )
Caro Professore caro,
ti scrivo, ancora una volta.
Questa lettera veleggerà nell’aria fino a raggiungerti nel silenzio dell’universo dove sei approdato. Non posso ignorare il morso di dolore che stringe lo stomaco, al pensiero della morte nonostante la tua lunga complicata vita.
Di recente ho attraversato le dolenti spiagge dell’abbandono della persona amata ed ora il saluto che devo rivolgere a te acuisce il solco della perdita. Delle varie perdite, che si sommano a mano a mano che si devono salutare i volti di quanti hanno intercettato i nostri passi e con cui si sono condivisi pensieri e speranze.
Nel tuo romanzo “Il petalo giallo”1 hai messo in campo lo scambio di lettere tra i personaggi della storia narrata, ribadendo che le lettere collegano, spiegano, fanno affiorare il rimosso, illuminano, aiutano. Tra i protagonisti, Igor a Magda, un tempo le lettere erano state “un dono, di una creatura accorta ma sognatrice e infantile, che l’aveva aiutato a ritornare nel mondo degli esseri umani”, perché l’invio di missive in qualche caso permette di ricucire gli strappi della vita.
Forse anche fra noi, pur in piccola misura, i messaggi scambiati hanno lenito momenti di solitudine. Leggendo le tue narrazioni, ho intercettato tante domande ed è forse da qui che ha preso il via la nostra corrispondenza, fatta di cartoline e di lettere, scritte a mano o battute a macchina, come facevi solitamente, secondo antica usanza. Per questo oggi ti scrivo e, col tuo permesso, condivido pubblicamente alcuni argomenti di cui abbiamo discusso da lontano.
Spero che altri possano raccogliere il testimone e proseguire allargando il cerchio del dialogo intrapreso.
Un abbraccio denso di affetto.
Micaela
Il tema del male
Boris Pahor infine ha lasciato questa terra, la sua amata Trieste, i suoni del mare e le voci slovene di quanti gli sono stati cari, la parlata italiana di amici vicini e lontani.
Mi piace ricordare come in tutte le sue opere abbia portato avanti un discorso sul male, mettendo in rilievo come spesso lo si riconduca solo a eventi catastrofici che piovono addosso a popoli e a persone singole, schiacciate dalla violenza. Lo è stato per i totalitarismi, per la criminale opera del nazismo, delle squadracce fasciste distruttrici di ogni cosa. Lo è stato con la guerra e l’olocausto.
Tuttavia, sostiene Pahor, è necessario comprendere che la questione del male chiama in causa le coscienze e i comportamenti individuali, le culture dei luoghi, la parte oscura di ognuno: «Il male non era giunto in paese con le SS, ma era lì da prima e aveva solo trovato una buona occasione per diffondersi».
Ad esempio, il padre della protagonista di Il petalo giallo vittima di violenza, «era diventato un boia davanti al fato che lo rendeva euforico, quell’infelice fato dove cercava il proprio sterminio, dal quale nasceva l’olocausto, davanti al quale veniva designata un’altra vittima. Ecco perché la sua fragile figliola aveva cominciato a tremare davanti a lui.»
Ciononostante l’esperienza del male individuale, patito da quella donna non era paragonabile a quello del campo di sterminio perché «il lager era unico nella sua specificità, in quanto eliminazione organizzata.»
Pur essendo sempre possibile che qualcuno metta in atto un suo ingegnoso progetto, tuttavia non sono paragoni da farsi.«Non sono cose paragonabili […] non ha senso misurare il male con il bilancino.»
Non serve stilare una graduatoria degli orrori e, quindi per altri versi, non ha neppure senso definire unica la tragedia dello sterminio nazista: fa parte dello stesso male, della belva che è dentro ognuno di noi, direbbe David Grossman, quel piccolo nazista che è dentro di noi, PNDN.2
Il dolore per una comunità oppressa
C’è poi un altro tema caro a Pahor, su cui si è impegnato tutta la vita: quello del dolore di una comunità oppressa, costretta a rinnegare la propria lingua. La sua Slovenia, piccola nazione «stretta tra due grandi, voraci, Paesi» nel corso del Novecento ha conservato un dolore «inscritto già nei cromosomi dei suoi antenati».
Questo nodo problematico, drammaticamente vissuto in prima persona da Pahor, ha caratterizzato un secolo di guerre nazionali. Oggi viene riproposto dai sovranismi ravvivati nello scontro tra statualità che puntano a “difendersi” dai flussi migratori, è rilanciato dalle logiche della guerra in Ucraina, con la miopia generale di chi corre a schierarsi pro o contro.
Il ventunesimo secolo dovrà confrontarsi con nuovi modi di affrontare il diritto all’esistenza dei popoli, il riconoscimento dei diritti delle diverse culture, delle singole lingue, delle tante storie. In una parola è di estrema urgenza la questione della convivenza, della interdipendenza e addirittura della sopravvivenza delle specie dei viventi in un ambiente sull’orlo del collasso.
Il valore e la fragilità del corpo
Per proseguire nella riflessione che stava a cuore a Pahor, dovremo avvalerci di nuovi spunti di pensiero, di visioni ad ampio spettro, quale quella offerta da Luigi Ferrajoli nel suo “Per una Costituzione della Terra”, in cui l’autore ammonisce che l’umanità è al bivio. Esiste cioè una drammatica necessità dell’espansione a livello sovranazionale del paradigma costituzionale. Emergenza ecologica e minaccia nucleare richiedono una nuova coscienza planetaria.
Boris Pahor nelle tante conversazioni con gli studenti, in cui ha cercato di trasmettere il portato della sua lunga esistenza, ha posto anche la seguente domanda: «Come mai l’uomo, a causa di conflitti religiosi, etnici, ideologici o politici che dir si voglia – punisce sempre il corpo, che è quasi sempre innocente?»
Ciò accade nei tanti casi di violenza sulle donne, che subiscono qualcosa di simile a quanto successo a Marsia, a cui Apollo strappò la pelle esterna dopo la gara musicale: alle donne la violenza strappa «la bellezza e la coscienza del corpo.»
Spesso alla fine delle conferenze, come è accaduto quando è venuto a Trento, Boris Pahor concludeva con le parole dei suoi personaggi: «Io non vedo altro che il valore e al tempo stesso la fragilità del corpo umano».
Per evitare il male assoluto che è dentro l’uomo, si dovrebbe «inculcare nell’uomo la fede nel valore del suo corpo. Il corpo e l’eros quali basi per l’interpretazione di una nuova forma di vita».
L’amore e le relazioni fra persone fungono da medicina per curare l’anima.
In uno dei messaggi che ho ricevuto da Boris Pahor, dopo avergli inviato una cartolina con la figura del comune amico Don Chisciotte, con la domanda circa il fatto se sia ancora possibile l’approccio utopico del famoso hidalgo della Mancia, ho avuto in risposta la riproposizione dell’interrogativo.
«Un ringraziamento tutto speciale per il fantastico don Chisciotte raffigurato nella cartolina. Ci metto anch’io un grande punto di domanda: dove stiamo andando? Non siamo tutti invece dei Sancio Panza? Un caro saluto, con un abbraccio
Boris Pahor»
Riflettendo bene, penso che non sia possibile disgiungere Sancho Panza da Don Chisciotte, formando entrambi la sintesi della modalità in cui si affronta la vita: sintesi tutto sommato positiva, poiché dove non riesce l’uno, soccorre l’altro e viceversa. Così come dovrebbe accadere in una società basata su criteri di vera solidarietà, perché l’utopia del fare ha bisogno di collaborazioni reciproche. E di domande, come quella che ha rilanciato Pahor: dove stiamo andando?
Nella risposta a questo quesito sta il futuro.
Caro Professore caro,
caro Boris,
spero che il mio e il nostro grazie, possa arrivare fino a te,
perché lo scambio di lettere e parole, di cui ci hai onorati,
ha a che fare con l’impegno civico nella società di questo tempo
ed è stato un prezioso dono.
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