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Dayton, i 20 anni

Il percorso europeo della Bosnia Erzegovina a vent’anni dagli accordi di pace di Dayton. Intervista all’Ambasciatore d’Italia a Sarajevo, Ruggero Corrias

16/11/2015, Andrea Oskari Rossini - Sarajevo

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Questa intervista, parte del nostro dossier "Vent’anni dopo Dayton ", è stata raccolta prima dei drammatici fatti di Parigi

Sono passati 20 anni. Dobbiamo festeggiare o essere preoccupati per il fatto di non riuscire ad andare oltre Dayton?

Sono stati venti anni di pace, li vorrei ricordare anzitutto in questo modo. Mi piacerebbe però che da questo anniversario si iniziasse a pensare anche ai prossimi venti anni. Per noi questo significa una cosa molto precisa, per la quale stiamo lavorando, cioè la prospettiva europea di questo paese e di tutta la regione.

La Corte di Strasburgo però ha stabilito che la Costituzione di Dayton non è in linea con la Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo. Come procedere?

È evidente che la sentenza della Corte Europea va eseguita. C’è però una questione di priorità. Nel 2014, a febbraio, abbiamo avuto dei segnali di forte disagio sociale, sfociato anche in violenze. Il paese esce da sette anni di crisi economica. Il primo obiettivo credo sia favorire quelle riforme che possono aiutare la ripresa. Un miglioramento della situazione economica e sociale può portare in maniera meno traumatica anche ad una modifica di alcuni assetti istituzionali del paese.

La pace è acquisita una volta per tutte o ci possono essere rischi di un nuovo conflitto?

La pace, e la stabilità, non vanno mai considerate come qualcosa di scontato. Dobbiamo sempre tenere presenti gli esempi del passato, e della storia, senza abbassare la guardia.

Vedo però delle differenze oggettive rispetto agli anni ’90, e alla guerra. Parte degli attori di quella guerra oggi sono membri dell’Unione Europea. Altri si stanno impegnando a fondo per l’ingresso nell’Unione. È vero, continuiamo ad assistere al manifestarsi di una certa retorica nazionalista, funzionale a nascondere o deviare l’attenzione della gente da quelli che sono i problemi reali. Questa può essere in parte considerata come un’eredità di Dayton. Quella Costituzione, imperniata sui tre popoli costituenti, con meccanismi di blocco di natura etnica, in qualche modo incoraggia gli attori politici ad utilizzare quel tipo di narrazione per mantenere il consenso. Non credo però che siamo di fronte a rischi concreti di una riapertura delle ostilità.

Ci sono altre sfide, più grandi, che circondano quest’area del mondo, il Mediterraneo, e che potrebbero diventare di natura sistemica. Una è quella dei rifugiati, che attraversa anche i Balcani. L’altra è chiaramente quella dell’Isis, l’altra la Libia, e infine ci sono gli effetti prodotti in termini di sicurezza dalla crisi ucraina.

Quanto ha influito la crisi ucraina sull’atteggiamento della comunità internazionale impegnata nel mantenimento della pace in Bosnia Erzegovina?

Certamente la crisi ucraina ha modificato lo scenario di sicurezza in Europa, e l’abbiamo percepito anche qui, in Bosnia Erzegovina. Se prima, da parte della Russia, c’era una naturale adesione alla prospettiva europea ed euroatlantica del paese, all’indomani della crisi ucraina c’è stato un certo raffreddamento.

Che si traduce in blocchi, ostacoli?

I Balcani fanno parte storicamente della sfera di interesse della Russia, con legami consolidati. Non mi sorprende che i corsi e ricorsi della storia portino Mosca ad avere un interesse più o meno forte nei confronti di questa regione.

Quindi i Balcani come uno degli elementi di un confronto più vasto tra Russia e Occidente?

Direi di sì, ma teniamo presente che non è possibile pensare ad un’Europa senza la Russia, o a una Russia senza l’Europa. La geografia non si può cambiare. Alla fine, quando le crisi minacciano gli interessi di tutti, si mettono in moto meccanismi per comporre le controversie, nell’ambito delle rispettive differenze. È accaduto per l’Iran, penso accadrà anche qui e che la prospettiva europea dei Balcani, in fondo, venga accettata anche dalla Russia.

L’SNSD di Milorad Dodik ha recentemente proposto un referendum sul sistema giudiziario del Paese, e sull’Ufficio dell’Alto Rappresentante, che alcuni considerano estremamente pericoloso per la stabilità del Paese. Qual è la posizione dell’Italia?

Un referendum che mette in discussione la costituzione della Bosnia Erzegovina ci preoccupa, è evidente. Insieme agli altri partner europei, però, tendiamo a leggere la crisi soprattutto alla luce della dialettica politica interna. Siamo di fronte a un lungo periodo di governo dell’SNSD in Republika Srpska (RS). Questo, come accade in molti altri contesti, può portare a un logoramento. Gli ultimi anni hanno visto risultati economici e sociali particolarmente negativi e il riemergere dell’opposizione all’SNSD, che ha perso la presidenza del Paese, mantenendo per pochi voti la presidenza dell’entità.

In altre parole, ho l’impressione che in questo momento ci troviamo di fronte ad un redde rationem tra i due campi. In questi casi la retorica politica, nazionalista, prevale, per cercare di mantenere il consenso deviando l’attenzione da altri problemi, di carattere economico e sociale, al di là di altre questioni che possono essere oggetto di indagini della magistratura.

Quindi non un attacco diretto alle istituzioni internazionali o al sistema di Dayton, ma l’elemento di uno scontro tra le diverse forze politiche della RS?

La nostra lettura è questa. Ricordo poi che il referendum non è stato ancora pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della RS, e che ci sono una serie di ricorsi interni, previsti dal sistema, che stanno facendo il loro corso. Valuteremo la situazione, ma cerchiamo di interpretarla anche alla luce di quanto ho detto, cioè come parte di una dialettica aspra in un contesto particolare dei rapporti tra SNSD e opposizione.

È passato un anno dal varo dell’iniziativa anglo tedesca, poi adottata dall’UE, per il superamento dello stallo nel dialogo tra Bruxelles e Sarajevo. Quale bilancio possiamo trarre?

Se pensiamo a risultati immediati stiamo sognando, soprattutto nel momento in cui la nuova Commissione europea ha dichiarato che per i prossimi 5 anni non ci saranno allargamenti. Ma è evidente che siamo in presenza di un movimento, di uno sviluppo positivo a partire dall’iniziativa anglo tedesca. All’indomani delle elezioni dello scorso anno, i diversi leader del paese e il Parlamento hanno approvato la dichiarazione, a favore dell’Europa, richiesta dal Consiglio Europeo di dicembre. È stata adottata un’agenda comune per le riforme, prima della pausa estiva, e alcune riforme sono già state fatte, penso alla riforma del mercato del lavoro fatta in Federazione. In generale, l’agenda europea è tornata al centro dell’attenzione della classe politica.

L’ipotesi di una presentazione della candidatura entro la fine dell’anno è credibile?

Mi sembra che la Presidenza stia puntando molto su questo. Noi, insieme agli altri partner europei, stiamo incoraggiando questo percorso, ricordando quali ne sono le condizionalità. In primo luogo, un’esecuzione credibile dell’agenda sulle riforme. Qualcosa è successo in Federazione, deve succedere anche in RS. L’altra questione è il meccanismo di coordinamento. Infine, c’è il problema dell’adattamento del commercio con la Croazia, alla luce dell’ingresso di Zagabria nell’Unione.

Il suo mandato finora è stato contrassegnato da una forte enfasi posta sulla diplomazia culturale, sull’attivazione e rafforzamento dei rapporti culturali tra Italia e Bosnia Erzegovina. Perché?

Io credo che gli stati, così come le aziende e le società private, debbano puntare su quelli che sono i propri naturali vantaggi competitivi, per raggiungere i risultati migliori. I vantaggi competitivi dell’Italia sono sia nella sfera culturale che in quella economica. Mi piace ricordare che in questi due anni siamo passati al secondo posto come partner commerciale della Bosnia Erzegovina, con una cifra significativa per un paese di 3.800.000 abitanti, siamo quasi ad un miliardo e mezzo di euro di interscambio. È una cifra che equivale a circa il 10% del prodotto interno lordo della Bosnia Erzegovina.

Per quanto riguarda la cultura ha usato la parola giusta, diplomazia culturale. È quanto il ministro Gentiloni ci sta incoraggiando a fare, e che facciamo con grande piacere, perché i risultati si vedono. Ricordo un solo esempio. Il giorno dopo quanto è successo a Srebrenica, l’11 luglio scorso, l’Italia era presente con il proprio ministro degli Esteri, la Filarmonica della Scala e i tre Presidenti, serbo, croato e musulmano, in prima fila al Teatro Nazionale. Questi eventi vanno oltre il messaggio di un concerto, favoriscono i contatti e il dialogo. Si tratta dell’espressione di un soft power che aiuta le relazioni a tutti i livelli. Tra pochi giorni, in occasione dell’anniversario dei venti anni di Dayton, porteremo a Sarajevo la collezione Farnesina, la più grande collezione di arte contemporanea in Italia, e il Teatro Verdi di Trieste. Il ministro Franceschini verrà ad inaugurare la collezione. Anche quello sarà un momento in cui verrà ricordata una tappa importante nella storia del Paese con eventi di grande livello culturale che, per la loro stessa natura, riescono ad unire, favorendo il dialogo.

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