Dayton, gli accordi di pace “da uomini”
Dayton fu accordo di "uomini forti" in completa assenza di donne al tavolo negoziale. In questa analisi la professoressa Aida A. Hozić critica l’accordo di Dayton e i problemi associati ad accordi di pace nei quali non viene affrontata la questione di genere
(Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul blog LSE Women, Peace and Security , il 15 febbraio 2021)
Il novembre 2020 ha segnato il 25° anniversario dell’accordo di pace di Dayton, che ha posto fine alla guerra 1992-1995 in Bosnia Erzegovina (BiH). Negoziato presso la base aerea di Wright-Patterson a Dayton, Ohio, cinque anni prima dell’adozione della Risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite sulle donne, la pace e la sicurezza (WPS), l’accordo è considerato un grande risultato diplomatico del defunto ambasciatore statunitense Richard Holbrooke e dell’amministrazione Clinton.
Nonostante la diffusa violenza contro le donne durante la guerra in Bosnia (lo stupro in particolare) avesse portato ad un pur tardivo riconoscimento della violenza di genere come crimine contro l’umanità nelle corti di giustizia internazionali, né le donne né il genere furono mai presi in considerazione a Dayton. E nessuna donna, a parte la moglie di Holbrooke (la giornalista Kati Marton), partecipò alle trattative.
Sia per la composizione degli attori chiave al tavolo dei negoziati, sia per le sue caratteristiche principali (riconoscimento dei guadagni territoriali acquisiti attraverso la pulizia etnica e il genocidio), Dayton fu un accordo degli "uomini forti" per eccellenza. Le sue ramificazioni esercitano ancora pesanti conseguenze politiche e socio-economiche profondamente di genere, non solo sulla Bosnia Erzegovina ma sul più ampio vicinato dell’Europa sudorientale (SEE). Gli anniversari gemelli di Dayton e SCR 1325 ci offrono l’opportunità di riflettere su di essi in relazione alla più ampia agenda WPS.
Lasciatemi iniziare questa analisi di Dayton e della sua eredità da un angolo diverso d’Europa: Molenbeek, un quartiere di Bruxelles chiamato in senso dispregiativo la “Jihad Central” d’Europa a causa dei collegamenti con una serie di attacchi terroristici negli ultimi vent’anni. Nell’autunno 2020, Molenbeek è ricomparso nelle cronache come il quartiere con il più alto numero pro capite di casi di Covid-19 in Belgio , paese che detiene da tempo lo stesso record in Europa .
Non parto da Molenbeek per i facili collegamenti tra i gruppi islamici radicali europei e la numerosa popolazione musulmana della Bosnia Erzegovina, anche se forse l’islamofobia persistente in Europa e negli Stati Uniti vorrebbe sentire proprio questi paralleli. Piuttosto, desidero sottolineare gli alti costi umani che le divisioni etno-religiose istituzionalizzate esercitano sulla vita delle persone, resi particolarmente visibili dalla pandemia.
In altre parole, desidero evidenziare le somiglianze strutturali tra Belgio e BiH che, contrariamente a quanto credono molti sostenitori degli accordi di condivisione del potere, non promettono nulla di buono per nessuno dei due paesi: anzi, potrebbero aver reso possibili gli effetti mortali della Covid-19. Sia il Belgio che la BiH sono luoghi in cui divisioni ed esclusioni istituzionalizzate generano altre divisioni ed esclusioni; luoghi dove il malcontento sociale e la malattia possono facilmente rimanere intrappolati in un quartiere e fuori dalla vista. Sotto questo aspetto, il Belgio e la BiH sono simili ad altri luoghi di partizione del potere come Irlanda del Nord, Cipro, Macedonia del Nord o Libano.
Il mio messaggio chiave è questo: gli accordi di condivisione del potere su base etnica sono problematici anche in sede UE. Gli accordi di pace basati su logiche razziali di partizione o quasi-partizione e contenimento creano patologie di genere . In breve, la BiH del dopo Dayton non è affatto un’eccezione nella politica mondiale, ma merita un momento di attenzione per diversi ulteriori motivi: il ruolo "da uomini" che l’Accordo di pace di Dayton e la BiH hanno avuto nella storia diplomatica degli Stati Uniti e nella memoria del loro establishment di politica estera, che ora sta tornando al potere a Washington DC; la possibilità che Dayton possa fungere da modello per altri accordi di pace "da uomini" e per altre piccole Bosnia Erzegovina da replicare e/o sostenere altrove (si consideri di nuovo il destino di spazi politici segregati come Irlanda del Nord, Cipro e Libano o il ruolo ispiratore di Dayton nei negoziati dell’accordo quadro di Ohrid in Macedonia e del piano Kosovo di Ahtisaari); le minacce “da uomini” alla sicurezza derivanti da un conflitto che molti analisti definirebbero "congelato" tra le rinnovate richieste di ulteriori partizioni etniche, in Bosnia Erzegovina ma anche in (e collegato al) Kosovo come presunte soluzioni stabilizzatrici per l’intera regione.
Infine, in questo momento di crescente interesse per la politica estera femminista (anche negli Stati Uniti) e conversazioni sull’importanza dell’agenda WPS , voglio sottolineare come questa logica "da uomini" dell’accordo di pace abbia precluso la realizzazione di qualsiasi futuro alternativo per la Bosnia Erzegovina e il sud-est Europa. Quando si considera il futuro dell’Agenda WPS, o le ragioni per cui dovremmo continuare a lottare per la sua attuazione, non dobbiamo perdere di vista i limiti che quegli accordi, che non avevano prestato attenzione al genere quando sono stati negoziati per la prima volta, hanno posto a tutti, non solo alle donne.
Interroghiamo ora queste ragioni "da uomini" e le loro implicazioni per il futuro e la sicurezza della Bosnia (e forse anche per gli Stati Uniti e l’Europa), cominciando a dire che non c’è una sola Dayton, ma almeno tre. In primo luogo, c’è l’Accordo di pace ora ricordato come “uno dei grandi trionfi diplomatici statunitensi della scorsa generazione ” e uno “storico traguardo diplomatico ". Questa è la Dayton che, come ha detto l’ambasciatore Christopher Hill alla Conferenza per il 20° anniversario di Dayton alla Brown University, non ha mai riguardato solo la Bosnia, ma il futuro stesso delle relazioni transatlantiche, la leadership dell’America nel mondo e l’incorporazione dei valori dei diritti umani nel moderno sistema statale, non necessariamente in quest’ordine.
Come spiega Derek Chollet nella sua storia del percorso verso l’accordo di pace di Dayton, "Dayton pose fine ad uno dei periodi più difficili nella storia delle relazioni USA-Europa". L’accordo non solo pose fine alla guerra in Bosnia, ma "diede vita alla strategia dell’amministrazione Clinton per l’Europa e all’elemento centrale di tale strategia, l’allargamento della NATO", "aprì nuovi importanti percorsi nelle relazioni USA-Russia", e "fu un punto di svolta per la politica estera dell’amministrazione Clinton in particolare e per il ruolo dell’America nel mondo in generale".
Questa Dayton illustra bene il cosiddetto “intervento muscolare” o “diplomazia coercitiva” , in altre parole come la diplomazia (USA) possa funzionare solo se sostenuta da una forza significativa e viceversa. Inoltre, Dayton ha creato importanti legami tra molti diplomatici statunitensi ed europei, la cosiddetta “generazione bosniaca” .
Molti politici, tra cui il presidente Biden, diplomatici e accademici statunitensi hanno creato legami affettivi con la Bosnia e i Balcani, esperienze formative per la loro ricerca/pratica che ora sono la lente attraverso la quale osservano altri conflitti globali. C’era la Bosnia dietro la scelta di Stati Uniti e Regno Unito di intervenire in Libia nel 2011 , ma anche dietro l’indecisione occidentale nell’aiutare in modo decisivo le forze di opposizione in Siria, quando il presidente Obama affermò che “ex agricoltori o farmacisti o insegnanti” non erano combattenti abbastanza induriti per essere credibili, e quindi degni del sostegno degli Stati Uniti.
Poi c’è la Dayton delle élite politiche bosniache che hanno imparato a contestare e adattare le disposizioni dell’accordo di pace e le sue istituzioni disfunzionali attraverso il clientelismo, il nepotismo, la corruzione, il ricatto e/o il racket. Questa è la Dayton che continua a produrre gli stessi risultati politici, elezione dopo elezione: in parte perché opprime strutturalmente una categoria di persone conosciute in Bosnia come "altre" (quelle senza una particolare affiliazione etnica, minoranze come ebrei, rom, italiani, slovacchi, ucraini e persone con origini razziali ed etniche diverse e/o miste).
Alla già citata conferenza alla Brown University nel 2015 , l’ambasciatore Hill (che era il vice di Holbrooke a Dayton) ha parlato della storia "reale" delle persone in Bosnia e nei Balcani e del modo in cui questa storia "reale" è stata riconosciuta a Dayton nella forma dei diritti dei suoi tre popoli costituzionali: bosgnacchi (musulmani), serbi e croati. Dayton ha assecondato le loro rivendicazioni territoriali (in particolare quelle dei serbi) e ha stabilito limiti al principio “un uomo, un voto”. Soprattutto, le questioni tradizionalmente viste come "da donne" e particolarmente acute negli spazi postbellici (istruzione, sanità, lavoro invisibile e informale, lavoro di cura in famiglia, riparazioni per la violenza in tempo di guerra ) non sono mai state prese seriamente in considerazione, soprattutto in termini di giustizia , e continuano a passare in secondo piano rispetto a questioni di sicurezza e stabilità.
Infine, c’è la Dayton vissuta quotidianamente dai cittadini della BiH: un paese in cui i neonati muoiono a causa di burocrazie etnificate, dove esistono binari ma i treni non viaggiano più da nessuna parte, dove la costruzione di circa 60 km di autostrada ha richiesto quasi 20 anni, dove le principali istituzioni culturali (compreso il Museo Nazionale di Sarajevo) sono state chiuse per anni. Questo è il paese dove, come raccontato meravigliosamente da Azra Hromadžić , i bagni sono gli unici luoghi pubblici in cui possono incontrarsi i giovani di diverse etnie; dove i bambini incarnano differenze etniche violentemente inscritte sui corpi dei loro genitori, e dove le comunità si mescolano molto raramente. Questo è anche il paese dell’esodo di massa (attualmente la principale preoccupazione dei diplomatici europei), soprattutto tra le persone giovani e istruite (in particolare personale medico e infermieristico ), che ha reso molto più difficile l’assistenza sanitaria in mezzo alla pandemia di Covid-19.
Le prime due Dayton (quella impressa nella memoria dei diplomatici occidentali e quella delle élite politiche della Bosnia Erzegovina) convivono abbastanza bene. Il loro interesse comune è mantenere lo status quo politico ad esclusione di tutti gli altri attori che potrebbero minacciare le loro posizioni di potere. Il loro massimo risultato, lo standard della loro pratica politica/democratica, è che "le persone non si uccidono più a vicenda". Quindi, quando le persone, gli "altri" non riconosciuti dall’accordo di pace di Dayton, chiedono ai loro rappresentanti politici qualcosa di più del "non uccidere", come è avvenuto durante la primavera delle proteste bosniache nel 2014, la risposta di UE e Stati Uniti è aumentare finanziamenti e formazione per i programmi di sorveglianza e per la polizia antisommossa della Bosnia.
Alla conferenza del 20° anniversario a Dayton, l’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Bosnia Thomas Miller ha chiesto a Jonathan Moore , allora ambasciatore USA presso la missione dell’OSCE in BiH, come avrebbe presentato ad un presidente entrante le prospettive politiche della BiH. Moore, il cui portafoglio combina istruzione e antiterrorismo, ha prontamente risposto: “Gli Stati Uniti hanno risorse limitate. La Bosnia va bene così. Consiglierei di non fare nulla". Anche Gerald Knaus , presidente fondatore dell’influente think-tank European Stability Initiative e (occasionale) consigliere di Angela Merkel, sostiene che la BiH va bene così , soprattutto in confronto ad altri contesti divisi come Cipro, Irlanda del nord o Nagorno Karabakh.
Quindi, invece di dedicare attenzione, se non vergogna, a queste dolorose divisioni inscritte nello spazio della periferia europea (si consideri, ad esempio, che il tasso di suicidi a Belfast dall’accordo del Venerdì Santo, per lo più da parte di uomini affetti da sindrome post-traumatica, supera ora il numero delle vittime dirette del violento conflitto), i diplomatici occidentali vedono questi spazi come problemi ben risolti. E questo, ovviamente, suscita la domanda: se la Bosnia va bene così com’è, secondo Moore e Knaus, a chi non va bene? Quali preoccupazioni vengono ascoltate nelle sedi internazionali e quali continuano a essere trascurate?
Perché nel frattempo la terza Dayton, largamente ignorata dalle élite nazionali e internazionali, marcisce sullo sfondo. La Bosnia Erzegovina condivide con il Kosovo il poco invidiabile onore di avere il più alto livello di disoccupazione giovanile al mondo (sebbene alleviato ultimamente dalle tendenze demografiche e dalla migrazione verso l’UE ). Ci si aspetterebbe che qualcuno a Washington o a Bruxelles si chiedesse almeno come mai questi due paesi, che sono stati posti sotto la supervisione internazionale e hanno ricevuto miliardi di dollari in aiuti, hanno una performance economica così scarsa. Dove abbiamo sbagliato? Dove sono finiti tutti quei soldi?
Alcuni credono che la presidenza Biden faccia sperare in un rinnovato interesse statunitense per la BiH , ovviamente ammesso che Biden non sia troppo impegnato con gli stessi Stati Uniti. La speranza, tuttavia, ha un’altra pericolosa implicazione: illustra il grado in cui il clientelismo nei confronti delle grandi potenze domina il pensiero e la pratica politica nell’intera regione. Inoltre, a complicare ulteriormente queste questioni geopolitiche, non solo la Russia continua a trattare spazi ambigui come la Republika Srpska, il Kosovo settentrionale e persino la Serbia meridionale come suoi campi da gioco, ma Berlino sta segnalando che potrebbe sostituire unilateralmente l’attuale supervisore internazionale in Bosnia, Valentin Inzko, con il fedele CSU Christian Schmidt. La frattura nelle relazioni UE-USA sulla Bosnia Erzegovina potrebbe essere solo un giro di prova per una politica più "muscolosa" del Partito popolare tedesco ed europeo all’interno e all’esterno dell’UE.
In contrasto con questi affari “da uomini”, le questioni di genere e i problemi socio-economici “da donne” continuano a ricevere pochissima attenzione, anche nelle numerose conferenze “Dayton 25”. Ovviamente si continua a parlare di "emancipazione femminile", ma non si va mai oltre le richieste di una maggiore rappresentanza (individuale) delle donne in politica.
I piani d’azione nazionali per l’Agenda WPS in BiH , come altrove, si concentrano principalmente sulla partecipazione delle donne a posizioni decisionali ad alto livello nelle forze di sicurezza e nelle missioni di peacekeeping. Come hanno già sostenuto Bjorkdähl e Selimovi ć sulla base della loro attenta analisi dei Piani nazionali in BiH e Rwanda, “la costruzione della partecipazione è legata alla nozione di donne passive piuttosto che attive, e segue il convenzionale approccio ‘aggiungi donne e mescola’. "Si aggiungono donne, ma le istituzioni, i discorsi e le pratiche non cambiano". Senza finanziamenti aggiuntivi per l’emancipazione socioeconomica e l’inserimento negli attuali accordi di condivisione del potere etnico, l’Agenda WPS perde il suo potenziale trasformativo. Non sorprende quindi che le singole donne politiche nella regione abbiano dimostrato di essere esse stesse eccellenti etno-nazionaliste: poche di numero, ma ben sostenute dalla propaganda, sono fedeli esecutrici e usate come “mitigatrici” dell’agenda “virile” della sicurezza militarizzata e dell’economia privatizzata ed estrattiva.
Un’analisi di queste imprenditrici del genere di successo fornirebbe ulteriori prove alle scomode scoperte di Marie Berry e Milli Lake secondo cui l’inclusione delle donne può spesso mascherare altre forme di politica di esclusione. La loro partecipazione non fa che oscurare la misura in cui radicati interessi etno-nazionalisti rendono invisibili altre donne e identità e impossibili altri modi di concepire la politica. In Bosnia Erzegovina, come negli Stati Uniti, concentrarsi sulla diversità delle elite dimostra solo che la comprensione femminista del mondo non può essere ridotta ad una politica dell’identità basata sulla mera rappresentazione.
E questo ci riporta a Molenbeek, il quartiere di Bruxelles con il più alto tasso di disoccupazione in Belgio (tre volte la media nazionale), dove i problemi e le ingiustizie sociali sono stati ignorati per troppo tempo, nascosti alla vista dalla ricchezza delle aree circostanti e dal gran numero di eurocrati e internazionali che lavorano nella capitale europea.
I legami tra Molenbeek e l’ex Jugoslavia attraverso il traffico di armi e di esseri umani sono già stati documentati . La pandemia rivela quanto siano importanti tutti gli altri aspetti “da donne” della sicurezza: accesso all’assistenza sanitaria, disponibilità di personale medico, reti di sicurezza economica, assistenza all’infanzia e istruzione, uguaglianza di genere nelle famiglie e nella sfera pubblica.
Se pensiamo al bilancio della pandemia in Belgio e BiH non solo accostando questi due paesi, ma su un continuum di circuiti di violenza di genere e (re)distribuzioni di danno e benessere, dobbiamo riconcettualizzare le nozioni di guerra e pace, conflitto e post-conflitto.
La tensione tra pragmatismo e concezioni femministe della sicurezza non si risolve facilmente attraverso l’Agenda WPS, ancor meno nella sua attuazione, ma apre a diverse letture della politica e visioni alternative del futuro. Prendere sul serio l’Agenda WPS non fa sparire le preoccupazioni geopolitiche "da uomini", ma ci permette di pensare alla giustizia e alla pace di genere simultaneamente nel cuore dell’Europa e alla sua periferia, negli Stati Uniti e in Germania, tanto quanto nei luoghi feriti come la Bosnia Erzegovina. In tal modo, potrebbe garantire che le dosi della medicina della pace siano somministrate in modo più equo, con considerazione e auto-riflessione: non solo ai presunti pazienti, ma anche ai medici.
*Aida A. Hozić è Professoressa Associata di Relazioni Internazionali e Cattedra Associata del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università della Florida, Stati Uniti. La sua ricerca è situata all’incrocio tra economia politica, studi culturali e sicurezza internazionale. È autrice di “Hollyworld: Space, Power and Fantasy in the American Economy” (Cornell University Press, 2002) e co-curatrice (con Jacqui True) di “Scandalous Economics: Gender and Politics of Financial Crises” (Oxford University Press, 2016). Il suo attuale progetto di ricerca esplora le interazioni tra l’arte femminista, le concettualizzazioni "virili" della guerra e la crescita dei mercati dell’arte nel 21° secolo.
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