Dalla Siria al Caucaso: il ritorno dei foreign fighters
Un numero sempre maggiore di miliziani caucasici impegnati a combattere in Siria sta tentando di fare ritorno in Russia, mettendo nuovamente in discussione la stabilità di una regione insanguinata per anni dal terrorismo islamista
Da tempo la turbolenta regione del Caucaso settentrionale è vittima del terrorismo di matrice islamista. La situazione sembra essere migliorata negli ultimi anni, quando a partire dallo scoppio della guerra civile in Siria diversi combattenti caucasici si sono spostati in Medio Oriente, unendosi alle varie formazioni jihadiste attive nel territorio siriano. In tempi recenti si è però creato anche un processo migratorio inverso, con una parte dei combattenti caucasici impegnati in Medio Oriente che ha fatto o sta cercando di fare ritorno in Russia.
I foreign fighters caucasici in Siria
A partire dal 2012, l’intensificarsi del conflitto siriano ha spinto diversi miliziani delusi da anni di infruttuosi scontri con le forze di polizia russe, così come molti giovani stanchi delle proprie condizioni di vita precarie, ad abbandonare il Caucaso per cercare gloria in Medio Oriente. Questo processo ha iniziato ad assumere dimensioni significative nel 2013, in seguito alla presunta morte di Doku Umarov, leader del gruppo jihadista dell’Emirato del Caucaso. Nello stesso anno nella regione ha iniziato ad affermarsi lo Stato Islamico, che nel 2015 ha proclamato la costituzione di un presunto governatorato nel Caucaso russo, e grazie all’efficace propaganda è riuscito a convincere molti giovani a giurare fedeltà al califfo Abu Bakr al-Baghdadi e a partire per il Medio Oriente.
Secondo i dati dell’FSB, all’inizio del 2016 in Siria sarebbero stati presenti circa 3000 cittadini russi arruolatisi come foreign fighters tra le fila di formazioni jihadiste. Tra questi, la maggior parte sarebbe originaria del Caucaso settentrionale, proveniente in special modo dalle repubbliche della Cecenia, del Daghestan, dell’Inguscezia e della Kabardino-Balkaria.
Mentre una parte dei miliziani caucasici presenti in Siria si è arruolata tra le fila dello Stato Islamico, i combattenti rimasti fedeli all’Emirato del Caucaso sono entrati inizialmente a far parte di formazioni jihadiste appoggiate da alcuni gruppi radicali come Ahrar al-Sham e Jabhat al-Nusra. Uno dei battaglioni dove i combattenti caucasici sono più rappresentati è la brigata “Jaish Muhajireen wal-Ansar” (Esercito degli Emigranti e degli Aiutanti), che negli ultimi quattro anni ha avuto due leader ceceni originari della Valle del Pankisi, in Georgia: Abu Omar al-Shishani, passato poi tra le fila dello Stato Islamico, diventando comandante delle forze armate, e Salahuddin al-Shishani, che a sua volta ha lasciato la brigata Jaish Muhajireen wal-Ansar per fondare il gruppo Imarat Kavkaz v Shame (Emirato del Caucaso in Siria). Un terzo al-Shishani, Seyfullah, sempre di origini cecene, dopo essere stato cacciato da Jaish Muhajireen wal-Ansar, ha radunato diversi combattenti caucasici giurando in seguito fedeltà al fronte al-Nusra.
Il rientro in patria
La partenza di buona parte dei combattenti caucasici verso la Siria ha portato negli anni a un progressivo indebolimento della resistenza islamista nel Caucaso settentrionale, spostando il problema al di fuori dei confini russi. Secondo le stime effettuate da Caucasian Knot, se nel corso del 2010, prima dello scoppio della Guerra civile siriana, nel Caucaso settentrionale si sono registrate 1705 vittime del terrorismo, esse sono diminuite progressivamente con l’intensificarsi del conflitto in Medio Oriente, come dimostrano le “sole” 258 vittime del 2015.
Come sostiene però Ivan Safranchuk, membro dell’Istituto degli Studi Internazionali Contemporanei e dell’Accademia russa della Democrazia, “quando appare un fronte importante, come quello siriano, esso attrae gente da tutto il mondo, prosciugando le risorse nei conflitti locali. Quando però quel fronte scompare, e nessun altro fronte importante è disponibile, questo può essere il periodo più pericoloso di tutti”.
In seguito all’intervento internazionale contro lo Stato Islamico e alla cooperazione tra la Russia e le truppe di Bashar al-Assad, le formazioni jihadiste attive nel territorio siriano hanno iniziato a perdere terreno. Con la progressiva ritirata delle forze jihadiste, diversi combattenti caucasici hanno così deciso di fare ritorno in Russia per continuare le azioni di guerriglia contro il governo di Mosca o per cercare semplicemente riparo nei propri villaggi d’origine. Nell’agosto 2015, nel corso di un’operazione antiterroristica, le forze speciali russe hanno ucciso in Daghestan Magomed Abdullaev, uno dei leader dell’Emirato, il primo foreign fighter caucasico eliminato dopo essere tornato dalla Siria.
Da allora, in tutto il Caucaso settentrionale sono stati uccisi o arrestati decine di jihadisti che dalla Siria avevano fatto ritorno in Russia, a dimostrazione del pugno di ferro adottato da Mosca nei confronti di chiunque sia accusato di fare parte di organizzazioni terroristiche. La “tolleranza zero” del Cremlino è evidenziata dal numero di ribelli eliminati negli ultimi anni nell’intero distretto del Caucaso settentrionale in seguito a scontri armati, raid e spedizioni punitive; oltre 1700 secondo Caucasian Knot, che fa riferimento al periodo compreso tra il 2010 e il 2015. Per assicurarsi di fare terra bruciata intorno ai miliziani le autorità hanno iniziato inoltre a prendere di mira anche i parenti degli stessi, arrivando a compiere diversi arresti e a distruggere le loro abitazioni nel caso essi abbiano dato rifugio ai presunti jihadisti.
Le politiche di Mosca
A partire dal 2013 le autorità russe hanno dichiarato di aver intensificato i controlli alle frontiere, per limitare la fuga all’estero dei foreign fighters. Negli ultimi anni ad esempio, alcune repubbliche del Caucaso russo come il Daghestan, che secondo le autorità locali avrebbe fornito ai ribelli siriani quasi un migliaio di combattenti, a scopo precauzionale hanno imposto un’indagine preventiva prima di rilasciare passaporti validi per l’espatrio ai propri cittadini.
Tuttavia, secondo Shamil Shikhaliev, studioso di storia dell’Islam presso l’Accademia russa delle scienze, nonostante le misure adottate da Mosca, in questi ultimi anni il Cremlino avrebbe tendenzialmente consentito ad alcuni combattenti caucasici di partire per la Siria, aprendo a essi le frontiere, intravedendo in questa migrazione l’opportunità di allentare la forte pressione esercitata dagli islamisti nelle repubbliche del Caucaso settentrionale, in vista soprattutto delle Olimpiadi invernali di Sochi 2014. Questo atteggiamento, seppur in evidente contraddizione con la posizione ufficiale di Mosca riguardo al contrasto del fenomeno, sembrerebbe però avere effettivamente pagato, considerato il progressivo indebolimento del terrorismo a livello regionale.
L’intensificarsi del processo di rientro di questi combattenti verso la Russia ha però messo nuovamente in allerta il Cremlino. Per far fronte a questo problema, oltre a monitorare attentamente le proprie frontiere e a tenere sotto stretta sorveglianza coloro i quali riescono a fare ritorno nella Federazione Russa, il Cremlino è attivo anche in Siria dove cerca di impedire che i miliziani caucasici lascino il paese mantenendo così la guerra al di fuori dei propri confini nazionali.
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