Dai Balcani in Siria, per combattere
Una parte dei combattenti internazionali impegnati nella guerra civile in Siria proviene dai Balcani. Un fenomeno che desta non poche preoccupazioni nella regione. Il caso della Macedonia
All’inizio di luglio i media macedoni hanno riportato la notizia della morte di Bashkim Bela, giovane ventitreenne di Skopje, durante i combattimenti in Siria. Si tratterebbe del sesto caso in tre anni di un cittadino macedone che perde la vita in Siria combattendo a fianco dei ribelli. Secondo alcune stime sono almeno trenta i cittadini macedoni, albanesi di fede islamica, che starebbero combattendo nella guerra civile siriana. I numeri sembrano essere in crescita.
La situazione non è molto diversa negli altri paesi balcanici che ospitano comunità musulmane numerose. L’Albania, il Kosovo, la Bosnia Erzegovina e la Serbia (soprattutto la regione meridionale del Sangiaccato) hanno tutti confermato la morte di propri cittadini in Siria. Secondo alcune fonti, in tre anni sarebbero stati uccisi in Siria circa 30 albanesi, 11 bosniaci e quattro serbi.
Attualmente sarebbero circa 300 i cittadini dei paesi balcanici a combattere in Siria contro le forze governative. Come riportato dai media macedoni che hanno ripreso i dati di una recente ricerca condotta dall’International Center for the Study of Radicalization (ICSR), il 9,6% dei guerriglieri stranieri che hanno preso parte alla guerra civile in Siria sarebbe di provenienza est europea. Gran parte di questi combattenti proverrebbe dai paesi balcanici.
Eroi o mercenari?
Pare, inoltre, che i mujahedin stranieri in Siria percepiscano una paga che va dai tremila ai cinquemila euro al mese, ma altre stime riportano cifre anche più alte, mentre le poche dichiarazioni pubbliche da parte dei parenti dei combattenti dei paesi balcanici suggeriscono cifre significativamente più basse rispetto alle speculazioni dei media. Inoltre, mentre alcuni sostengono che si tratti di semplici mercenari, secondo altri il motivo che spinge all’azione non è il denaro, ma la solidarietà. E questi ultimi sembrano avere ragione.
La spiegazione delle motivazioni che muovono questi combattenti varia a seconda della parte da cui provengono. I non-musulmani tendono a ridurre il valore morale delle motivazioni dei guerriglieri che vanno in Siria a combattere: secondo alcuni si tratta di avventurieri, mentre altri li etichettano come criminali. Ma è un dato di fatto che pochi tra i combattenti balcanici in Siria hanno trascorsi criminali connessi ad attività terroristiche nei paesi di origine.
Inoltre, secondo alcuni media che si rifanno a fonti di intelligence, molti degli uomini che si sono recati in Siria sono veterani delle guerre degli anni novanta nei Balcani, anche se questo dato è in parte contraddetto dal fatto che un buon numero dei combattenti morti finora siano stati giovani dai 20 ai 25 anni.
Secondo altri, la ragione principale che muove questi mercenari è la povertà: si tratterebbe di persone che decidono di partire alla volta della Siria per denaro. Spesso si parla di uomini con una formazione di tipo militare: i sostenitori di questa tesi ritengono che si tratti di ex personale militare e di polizia che accetta incarichi “relativi alla sicurezza” in altri paesi spinti dai buoni guadagni.
Le spiegazioni fornite dai musulmani mostrano comprensione per le motivazioni dei combattenti. Alcuni giustificano la decisione di partire con motivi di solidarietà, come il fratello di un giovane bosniaco (Emedin Velic, 20 anni) proveniente da un paese nei pressi di Sarajevo che ha perso la vita in Siria lo scorso settembre, il quale ha sostenuto che suo fratello è andato in Siria a combattere contro l’oppressione del popolo siriano e l’ha fatto con l’approvazione della sua famiglia. Chiaramente non tutte le famiglie sono d’accordo con questo genere di decisioni prese dai figli. In un caso dello scorso anno, il padre di un giovane bosniaco andato a combattere in Siria rivolse un appello alle persone che avevano contribuito a radicalizzare le posizioni del proprio figlio convincendolo ad andare in Siria.
Negazione del fenomeno
In alcuni casi la spiegazione di questo fenomeno è ispirata dalla negazione dei fatti. Ad esempio, ben pochi tentativi di spiegazione sono venuti dai mufti locali. Quando un albanese macedone è stato ucciso in Siria lo scorso anno, alcuni rappresentanti della comunità islamica del paese hanno liquidato velocemente la questione, affermando che il giovane era conosciuto in primo luogo per i suoi problemi di alcolismo. Un altro mufti è andato oltre, sostenendo che i giovani della regione che partono per la Siria sono manipolati dai servizi di sicurezza dei governi dell’area balcanica.
Anche se questo genere di spiegazioni vengono in genere fatte per negare l’esistenza del problema, esistono prove del fatto che alcuni servizi di sicurezza nella regione hanno spinto alla jihad giovani radicali. Secondo quanto ha sostenuto ai media del suo paese un combattente bosniaco in Siria, uomini dei servizi segreti hanno spinto lui ed altri ragazzi a partire, con l’idea che così facendo avrebbero “ripulito” il paese dai radicali. Ma si tratta evidentemente di un errore di giudizio, in quanto si sottovaluta la radicalizzazione che questi combattenti possono apportare alla vita politica del paese una volta rientrati dal teatro di guerra siriano.
Non è difficile comprendere perché alcuni religiosi neghino l’esistenza dell’Islam radicale nelle loro comunità. In primo luogo perché questo va contro le loro convinzioni. Inoltre, è difficile per il clero tradizionale accettare il fatto di non avere il controllo delle proprie congregazioni religiose. Questo discorso, tuttavia, non riguarda tutto il clero islamico macedone: infatti, un combattente macedone caduto lo scorso anno in Siria era un hodža locale.
Mujahedin di ritorno
Negli ultimi tempi la preoccupazione sui rischi alla sicurezza nazionale posti dai mujahedin di ritorno è stata ripetutamente espressa dagli uomini di tutti i governi nella regione balcanica, secondo cui questi estremisti sarebbero veicolo per le idee radicali e rischio diretto di terrorismo. Ci sono sicuramente ragioni per queste paure, alimentate anche dalle dichiarazioni di alcuni combattenti che avrebbero affermato che, nel caso fossero rientrati in patria, sarebbe stato per prendere le armi. Secondo alcune fonti, per quanto irrazionale possa suonare, i radicali islamici della regione sognano un califfato balcanico.
I governi dei paesi balcanici sono impegnati ad adottare misure per rafforzare le sanzioni contro i guerriglieri di ritorno: in genere si tratta di provvedimenti che prevedono dai 5 ai 15 anni di carcere. Si parla anche della possibilità di togliere la cittadinanza a queste persone. L’idea è stata avanzata in Macedonia un paio di mesi fa in risposta ad un video che ritraeva un combattente in Siria nell’atto di bruciare un passaporto macedone. Anche se l’identità del giovane non è stata confermata, il messaggio del suo gesto sembra essere chiaro. In quel momento l’unica appartenenza che il giovane riconosceva era quella alla causa in cui si stava impegnando. Ma è possibile leggere anche un significato simbolico in quel gesto, l’idea che per queste persone non c’è possibilità di ritorno.
Il caso macedone
La minaccia dell’Islam radicale è considerata particolarmente seria in Macedonia a causa di un nazionalismo etnico e religioso sempre più forte. Sono stati numerosi gli avvertimenti circa l’ascesa dell’Islam radicale nel paese negli ultimi anni. Anche se sono stati regolarmente sminuiti o addirittura negati dai mufti locali, altri membri della comunità islamica hanno in più di una occasione riconosciuto il problema e rivolto appelli pubblici. Si è parlato a lungo, anche sui media locali, del fatto che numerose moschee nella capitale Skopje sono controllate da gruppi radicali e che sono ormai al di là del controllo della comunità religiosa.
I segnali del rafforzamento dell’Islam radicale in Macedonia sono troppi per essere ignorati. Qualche tempo fa i media hanno riportato la notizia di un gruppo di detenuti di uno dei carceri principali del paese che si erano organizzati in una “cellula radicale”. Il ministro dell’Interno ha confermato che in carcere un gruppo ha organizzato rituali di preghiera islamici secondo usanze diverse da quelle tradizionali dell’Islam locale.
L’atroce assassinio di cinque uomini, quattro dei quali ancora adolescenti, uccisi a sangue freddo alla periferia di Skopje due anni fa è stato inizialmente collegato ad attività di estremismo islamico in Macedonia. La spiegazione è plausibile, anche se nel corso del tempo è stata ridotta al silenzio. Secondo alcuni, proprio per non scatenare ulteriore violenza inter-religiosa. C’è però chi è convinto che non ci fosse alcuna prova di motivazioni religiose alle radici del crimine.
Andare in un paese straniero a combattere per quello in cui si crede non dovrebbe essere confuso con l’uccisione di bambini innocenti. Molti degli eroi celebrati dalle varie nazioni del pianeta, e alcuni di quelli riveriti a livello internazionale, sono proprio persone che hanno deciso di intervenire in conflitti lontani.
Ma il radicalismo è solo cecità. E ci sono chiari segnali che il radicalismo islamico è in crescita sia in Macedonia che nel resto della regione balcanica. Potrebbe trattarsi solo di piccoli gruppi che non hanno il supporto delle proprie comunità religiose: negarne l’esistenza, però, difficilmente può portare a qualcosa di buono.
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