Tipologia: Recensione

Tag:

Categoria:

Da Srebrenica al Medioevo

Novità librarie sulla Bosnia Erzegovina tradotte in inglese e recensite da Tim Judah. In primo piano "Cartoline dalla tomba", di Emir Suljagic. Tradotto in inglese anche "Bosnie, la Mémoire à vif". Il lavoro di un piccolo editore britannico in collaborazione con il Bosnian Institute di Londra

22/07/2005, Redazione -

Da-Srebrenica-al-Medioevo

Di Tim Judah*, per Transitions Online, 14 luglio 2005 (titolo originale: "From Srebrenica to the Middle Ages")
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Carlo Dall’Asta

"Io sono sopravvissuto". La prima frase delle memorie di Emir Suljagic sulla vita nella Srebrenica assediata non potrebbe essere più succinta. "Il mio nome avrebbe potuto essere uno qualsiasi, Mohamed, Ibrahim o Isak, non importa. Io sono sopravvissuto e molti altri non ce l’hanno fatta". Milioni di parole sono state scritte su Srebrenica negli ultimi 10 anni, molte delle quali in questa settimana, nel decimo anniversario della sua caduta. Negli anni a venire esse saranno dimenticate, ma questo libro supererà il vaglio del tempo.

Ciò che però è particolarmente rilevante di "Postcards From the Grave" Cartoline dalla tomba, è che è il primo libro pubblicato in inglese da un bosniaco sopravvissuto all’assedio e a ciò che ne seguì. Oggi Suljagic fa il giornalista a Sarajevo.

All’inizio della guerra in Bosnia, nel 1992, lo studente diciassettenne Suljagic fu costretto a sfuggire dai paramilitari serbi e dagli esecutori della pulizia etnica, e si rifugiò nella città di Srebrenica, nella Bosnia orientale. Imparò l’inglese e trovò lavoro come traduttore per l’ONU. Al suo primo giorno in città racconta di aver sentito "un profondo impulso interiore a sopravvivere". Fu grazie a questo, e al lavoro che svolgeva, che quando nel luglio 1995 l’enclave assediata cadde e le forze serbe comandate dal generale Ratko Mladic procedettero a massacrare qualcosa come 8.000 dei compagni di Suljagic, uomini e ragazzi Bosniaci Musulmani (oggi detti Bosgnacchi), lui sopravvisse.

Uno degli episodi più agghiaccianti che Suljagic descrive accade subito dopo che Srebrenica è caduta. Un soldato serbo chiede a Suljagic la carta d’identità, che passa di mano in mano finché arriva al generale Mladic in persona. Il generale gli chiede se lui è mai stato un soldato, al che lui risponde di no. Spiega che faceva il traduttore per l’ONU. Mladic allora gli dice che può andare. Fino ad oggi, il ricordo di quel momento non ha smesso di tormentare Suljagic.

"Io sono sopravvissuto perché Mladic in quel giorno si sentiva come Dio", scrive Suljagic. "Aveva potere assoluto di decidere sulla vita e sulla morte. L’ho sognato per mesi, rivivendo ogni volta quell’incontro". Avevo paura di impazzire cercando di spiegarmi perché avesse risparmiato me, che per lui ero altrettanto insignificante dei miei amici, che aveva fatto giustiziare. Non ho mai trovato una risposta".

"La fame mi ha completamente cambiato"

Dieci anni dopo il massacro e 60 anni dopo la liberazione di Auschwitz, ciò che è maggiormente allarmante è riconoscere nelle parole di Suljagic quella stessa sindrome, il complesso di colpa di chi è sopravvissuto, che fu riscontrata dopo la seconda guerra mondiale tra i sopravvissuti all’Olocausto.

Parte della storia di Suljagic è marcatamente personale. "Ho notato che la fame ha completamente alterato la mia personalità", scrive, "dal ragazzo schivo e riservato che ero prima della guerra, sono diventato aggressivo e senza scrupoli. Quello che ho visto mi ha spaventato, ma ho ben presto realizzato che era una questione di sopravvivenza".

Certe parti del libro sono vivide, ma gettano una luce squallida sul comportamento delle truppe dell’ONU in un modo che si trova, se non mai, raramente. "Me suck you dick!" faceva parte, dice, del limitato repertorio inglese di alcune ragazze disperate che si vendevano alla truppa olandese. Tanto per cominciare, per mettere in pratica quella particolare offerta, il soldato scostava per quanto possibile una parte di filo spinato della recinzione del campo ONU, in modo che la ragazza potesse infilare la testa. Ma nonostante questo la ragazza, dopo, aveva a volte la faccia ricoperta di sangue per i graffi lasciati dal filo. In seguito, i soldati allargavano il varco nella recinzione abbastanza da fare entrare una ragazza, dopo di che, dice Suljagic, parecchi soldati "facevano sesso con la ragazza contro un muro, velocemente, come animali, uno dopo l’altro".

Gli eventi e le scene descritte sono accuratamente messi a fuoco. Suljagic racconta come la difesa della città fosse organizzata e parla della sua ammirazione, se non addirittura della sua simpatia, per Naser Oric, il leader militare di Srebrenica. Poi arriva la sua delusione nello scoprire, più tardi, che Oric si divideva in un secondo ruolo, quello di capo della mafia di Srebrenica. Ma la storia di Suljagic non è in nessun modo un racconto autocompassionevole di vittime passive, tradite solo dal mondo esterno. Egli ci propone l’intera storia, o perlomeno, viene da sospettare, la più completa che può raccontare oggi, senza prendersi una pallottola in testa.

A un certo punto descrive come, mentre corre per prendere degli aiuti umanitari paracadutati sull’enclave, suo zio venne ucciso da un uomo armato. Niente però accadde all’assassino, perché era parente del presidente della municipalità. "Non c’erano leggi e l’autorità pubblica era basata sul mutuo equilibrio dei poteri". Ancora oggi, dice Suljagic, "non ha senso" fare il nome dell’omicida. Un altro uomo è stato ucciso per aver condotto una protesta contro il furto di aiuti da parte di funzionari locali.

Un dubbio che rode Suljagic è se i Bosgnacchi dell’enclave avessero mai commesso dei crimini di guerra contro i Serbi. È molto coraggioso da parte sua anche solo il sollevare la questione, visto quello che è accaduto dopo l’assedio, e qualcuno senza dubbio sarà adirato con lui. "Abbiamo provato un piacere maligno alla notizia di un massacro di civili", scrive. "Anche se non abbiamo pensato che fosse propaganda Serba, le nostre posizioni erano così diverse che perfino il crimine era definito in modo diverso. Abbiamo preferito credere a quelli che avevano partecipato alla battaglia, che dicevano che quando il villaggio fu attaccato al mattino presto i civili erano corsi fuori dalle case confondendosi con i nostri soldati e civili".

In questo modo, dice Suljagic, quelli che parteciparono ai raid spiegarono in che modo furono uccisi dei civili. Benché non ci fosse compassione in Srebrenica per quelli che morirono, scrive: "Indipendentemente da tutto", queste erano "macchie" su quelle che erano altrimenti vittorie "irreprensibili".

Una delle scene più commoventi del libro descrive come la gente veniva da tutta l’enclave per avere un’opportunità di parlare alla radio locale, rivolti alle famiglie e agli amici rimasti altrove. "Nessuno ha mai detto: ‘Ti amo’. Mai una aperta dichiarazione d’amore passò attraverso quei cavi e quelle antenne. Eppure mai da nessuna parte c’è stato tanto amore concentrato in un solo posto come in quella stanza grigia, in penombra, con le sbarre alle finestre".

Con un po’ di fortuna il racconto di Suljagic raggiungerà un ampio pubblico. Lo merita, anche se i curatori avrebbero dovuto inserire uno o due rimandi per quelli non così informati sui personaggi e sui luoghi della guerra in Bosnia. Comunque, al di sopra di ogni altra considerazione, ciò che avrebbe potuto essere solo un rabbioso flusso di coscienza è scritto davvero molto bene e non è guastato dal rancore. Di certo, non solamente Suljagic scrive bene, ma allo stesso tempo e per chi è interessato, dà molti dettagli sui fatti, non solo sulla vita sotto assedio ma anche informazioni che senza dubbio saranno riprese nei libri di storia che ancora devono essere scritti.

L’anniversario della caduta di Srebrenica si è dimostrata una buona scusa per gli editori, o almeno per Saqi e i suoi soci del Bosnian Institute di Londra, per pubblicare non solo il libro di Suljagic ma anche diversi altri.

Pendolarismo via campi di concentramento

"Raw Memory" è un libro di due giornalisti francesi, Isabelle Wesselingh e Arnaud Vaulerin. Ci ricorda, molto opportunamente, che Srebrenica, un po’ come Auschwitz, non è stato l’unico crimine. Per molti anni la Wesselingh ha seguito il Tribunale dell’Aja per i crimini della guerra jugoslava per l’agenzia di stampa francese AFP; Vaulerin lavora per il quotidiano francese Liberation e si è occupato dell’area balcanica.

Il loro eccellente libro si concentra sulla pulizia etnica dei Bosgnacchi nella città settentrionale di Prijedor nel 1992. Nel corso della storia, si mostra anche come il lavoro del Tribunale per i crimini di guerra, rimuovendo successivamente i principali esecutori della pulizia etnica, ha aperto la via al ritorno a casa per molti Bosgnacchi. Il libro fa un buon lavoro nel rafforzare quello che potrebbe essere un resoconto piuttosto arido di eventi, incentrandosi su personaggi straordinari come Muharem Murselovic. Egli sopravvisse 68 giorni nel famigerato campo serbo bosniaco di Omarska, a cui ora passa accanto ogni giorno in automobile, recandosi da Prijedor a Banja Luka per prendere il suo posto di membro bosgnacco dell’Assemblea della Republika Srpska, la parte della Bosnia a predominanza Serba.

Bosniaci o Bosgnacchi?

Il libro fotografico di Paul Lowe, "Bosnians", è una raccolta di belle immagini prese sia durante la guerra che dopo, di cui alcune a Srebrenica. Ci sono momenti di terrore e tragedia ma anche di amore e di allegria. In queste fotografie possiamo rivivere le un tempo familiari immagini di Sarajevo assediata e i rigori della vita in tempo di guerra. È però un peccato che i Bosniaci di Lowe siano tutti, eccetto uno o due, dalla parte bosgnacca delle linee, sia durante la guerra che dopo. Se Lowe fosse stato un bosgnacco questo sarebbe stato comprensibile, ma non lo è. Certo è vergognoso che l’unica fotografia di comuni Serbi Bosniaci sembri essere stata scelta deliberatamente per metterli in cattiva luce. Mostra della gente che osserva una bancarella che vende fotografie del generale Mladic, di Slobodan Milosevic, del leader Serbo Bosniaco durante la guerra Radovan Karadzic e di Draza Mihailovic, il cetnico realista della Seconda Guerra Mondiale, accanto ad immagini di santi ortodossi.

Il toccante saggio con cui il giornalista della BBC Allan Little ha contribuito al libro propone una spiegazione per questa parzialità, se si arriva a leggere tra le righe. Egli cerca di spiegare perché lui e così tanti altri giornalisti stranieri furono coinvolti da una guerra "che non era la nostra", in altre parole dalla causa bosgnacca. Poi, quando ebbe fine, egli ammette di aver nutrito un doloroso dubbio interiore: "Mi mancava la mia guerra? In qualche modo – il pensiero mi inorridiva – mi spiaceva che fosse finita?"

Ebrei dei Balcani

In ultimo un libro che, a differenza degli altri, il cui tema è la sopravvivenza ed il trionfo sulle avversità, parla di una comunità che ancora non è scomparsa dalla Bosnia di oggi. "Sarajevo Rose" contiene saggi del poeta e scrittore americano Stephen Schwartz. Il suo soggetto è la (un tempo) quarta grande etnìa del Paese: dopo i Bosgnacchi, i Serbi e i Croati, gli Ebrei. Il libro di Schwartz contiene racconti straordinari e affascinanti, che da molto tempo erano andati perduti, di Ebrei di Bosnia, molti dei quali arrivarono nel Paese dopo essere stati espulsi dalla Spagna cristiana nel 1492. Sono inclusi degli affascinanti documenti che testimoniano di un’epoca scomparsa ormai da molto tempo, come la petizione del 1819 di 249 notabili di Sarajevo al Sultano ottomano, molti dei quali predicatori delle moschee, che si lamentano di una esplosione di persecuzioni contro gli Ebrei di Sarajevo.

Schwartz non si limita alla Bosnia. Scrive sugli Ebrei dell’Albania e del Kosovo (comunità che non esistono più), arrivando nel suo girovagare fino alla Romania. È un fervente pellegrino che rintraccia santuari e cimiteri. Ci sono fotografie di una pietra tombale ebraica a Pristina, la capitale del Kosovo, e la tomba di Rabbi Danon a Stolac, in Erzegovina, un tempo sito di pellegrinaggio per gli Ebrei bosniaci. Il rabbino morì lì nel 1830, in un caffé sulla strada per Dubrovnik, dove si stava recando a cercare un imbarco per la Terra Santa.

Forse la parte del libro più straordinaria è la caccia di Schwartz alla tomba del "falso messia", Sabbetai Zvi, il quale, dopo aver ispirato un movimento di massa di Ebrei che lo credevano il Messia, si convertì poi all’Islam, o perlomeno disse agli Ottomani di averlo fatto. Essi lo esiliarono allora a Ulcinj, dove apparentemente morì nel 1676. Ulcinj oggi è un porto albanese abbandonato nonché stazione di villeggiatura in Montenegro, vicino al confine con l’Albania. Non ha, nota Schwartz, nessun legame storico noto con gli Ebrei. Eppure il segugio Schwartz rintraccia un "turbe" (una tomba con santuario) a Ulcinj che si ritiene essere uno degli ultimi luoghi di riposo di Zvi. Il guardiano del turbe è un vecchio di ottant’anni di nome Qazim Mani, "proprietario di un fiorente negozio di ferramenta e vernici" che sfortunatamente respinge ogni associazione del turbe con un ebreo, sostenendo che esso è invece la tomba di un musulmano albanese chiamato Murat Dede, di cui ammette di non sapere assolutamente nulla. Perciò, conclude l’infelice Schwartz, "la questione di chi sia effettivamente sepolto nel turbe rimane irrisolta". Si può sospettare comunque che, per quanto lo riguarda, questa non sia la fine della storia.

Schwartz ha scritto un libro davvero speciale. È un peccato che egli talvolta si lasci andare ad irate concioni sulle sorti della guerra in Bosnia. I Serbi, per esempio, sono generalmente (seppure menzionati) liquidati sbrigativamente come "Cetnici", nella parlata della Sarajevo del tempo di guerra. Ci si sarebbe potuti auspicare in qualche modo un più fermo intervento da parte dei curatori, per trattenere l’irreprensibile autore dal divagare talvolta lontano dal suo tema originario, e per alleggerire il tono dell’inchiesta, a tratti pesantemente accademico. A parte tutto, comunque, Schwartz ha scritto un libro diverso da qualsiasi altro, il che è già un bel risultato in un mercato sempre più affollato.

Postcards From the Grave, di Emir Suljagic. Tradotto da Lejla Haveric. Saqi / The Bosnian Institute. 240 pagine, $24.95
Raw Memory: Prijedor, Laboratory of Ethnic Cleansing, di Isabelle Wesselingh e Arnaud Vaulerin. Tradotto da John Howe. Saqi / The Bosnian Institute. 292 pagine, $27.50
Bosnians, di Paul Lowe. Saqi / The Bosnian Institute. 172 pagine, $35.00
Sarajevo Rose: A Balkan Jewish Notebook, di Stephen Schwartz. Saqi/ The Bosnian Institute. 288 pagine, $30.00
*Tim Judah è autore di "The Serbs: History, Myth & The Destruction of Yugoslavia", e di "Kosovo: War and Revenge". Da molto tempo collabora a TOL e al suo predecessore cartaceo "Transitions"

editor's pick

latest video

news via inbox

Nulla turp dis cursus. Integer liberos  euismod pretium faucibua

Possono interessarti anche