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Da Oriente a Occidente, lungo gli scogli in cui si è incagliato il progetto politico europeo

Un viaggio dentro la faglia tra Oriente ed Occidente, da Venezia ad Istanbul, un viaggio attraverso la deriva del progetto comune europeo

23/10/2019, Michele Nardelli -

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(Questo testo racconta l’undicesimo itinerario – "Roma e Bisanzio. Guardando la Mezzaluna Fertile" – del progetto Viaggio nella solitudine della politica , tenutosi dal 27 settembre all’8 ottobre scorsi. pubblicato originariamente su michelenardelli.it )

Quattromilaseicentonove chilometri, sedici frontiere attraversate di undici diversi paesi europei e due fusi orari, almeno una dozzina di città dove ci siamo fermati, non meno di sette lingue ascoltate come sette sono state le monete correnti scambiate, quindici sono stati i viaggiatori (otto donne e sette uomini 1) di sei diverse regioni italiane…

Potrebbero bastare questi numeri per descrivere l’undicesimo itinerario del “Viaggio nella solitudine della politica”, certamente anche la fatica di comprimere tutto questo in dodici giorni, talvolta appena sfiorando luoghi che avrebbero meritato ben altra attenzione. Che pure abbiamo cercato di colmare negli spazi di conversazione, nelle letture dedicate (a partire dalla nostra piccola biblioteca mobile composta di oltre quaranta volumi e di numerose schede preparate) e nelle considerazioni emerse durante i nostri spostamenti.

L’intento del viaggio dentro la faglia fra Oriente e Occidente era di metterne a fuoco la complessità, di coglierne l’attualità e di intercettare sguardi e pratiche, pur nel disincanto, per rilanciare il progetto politico europeo e mediterraneo.

Perché è proprio qui, lungo questa frattura storica, che alla fine del secolo scorso il progetto politico europeo si è incagliato. Con la guerra dei dieci anni nei Balcani, con l’esclusione della Turchia dall’Unione, con la formazione di un’ampia area di stati offshore funzionali alla massima accumulazione, con il naufragare del processo di Barcellona (o di partenariato euromediterraneo), con il clima di paura e di avversità associato all’insana idea dello scontro di civiltà, con il rinascere dei vecchi nazionalismi e dei nuovi sovranismi… l’Europa ha via via smarrito la sua natura inclusiva e la forza di un progetto sovranazionale che ci avrebbe permesso di affrontare in ben altro modo (e con ben altri scenari e conseguenze) il disordine globale.

Di questo, tanto nelle soggettività politiche come nella società civile (e ancor meno nelle opinioni pubbliche) non si ha la necessaria consapevolezza, a testimonianza dell’incapacità di leggere gli eventi nella loro concatenazione, riducendo tutto ad un incedere di emergenze che a guardar bene non sono nemmeno tali.

Il viaggio ha proposto un corpo a corpo con ciascuna di queste falle del cammino europeo, provandone una lettura diversa da quella stereotipata nella quale sono invece prevalse l’inganno e l’ipocrisia: l’inganno di guerra etnica che ancora tiene prigioniere le persone; quello di un’area sottosviluppata quando invece eravamo (e siamo) in presenza del manifestarsi del più feroce turbocapitalismo e del proliferare delle mafie; quello di un islam come fenomeno religioso estraneo all’Europa ed incompatibile con le sue presunte radici cristiano giudaiche; l’inganno di un tempo niente affatto galantuomo laddove l’elaborazione delle vicende storiche e dei conflitti è ben lungi dal divenire pratica diffusa. E l’ipocrisia, soprattutto quella dell’aver volto lo sguardo altrove, come se tutto questo non ci riguardasse.

Averne contezza era la sfida dentro il viaggio, il filo rosso che teneva insieme le mete che ci eravamo prefisse, gli incontri avuti, gli spazi di riflessione che malgrado i tempi tirati abbiamo cercato di darci, sul lungomare di Senj in una tarda serata e un po’ infreddoliti fra i tavoli di un bar all’aperto, a Sarajevo nella bosanska kafana all’interno della Baščaršija dove un’anziana signora mantiene vivo il genio di questa città, a Kotor nel silenzio del mattino in una piazzetta dentro le mura della città vecchia, negli incontri a Istanbul con tre testimoni privilegiati della contemporaneità, a Niš nel racconto delle ragioni di una diversa cooperazione internazionale e infine per le strade di Belgrado nell’amara ironia di chi ha dedicato il proprio impegno ad un progetto come quello europeo che, visto da qui, appare tanto beffardo quanto di là da venire.

Ci siamo riusciti? Difficile rispondere ma credo che le immagini e gli stimoli da raccogliere non siano mancati. Siamo partiti da Venezia mentre migliaia di ragazzi invadevano le calli per affermare che nella deriva del pianeta occorre un profondo cambio di paradigma; siamo arrivati a Istanbul nelle ore in cui Erdoğan decideva di mettere in atto un nuovo capitolo della guerra in Siria con una nuova pulizia etnica contro la popolazione curda. In mezzo la sofferenza e le contraddizioni che attraversano l’Europa e che nel suo cuore balcanico assumono una luce particolare, come in un grande caleidoscopio.

Immagini che vorrei provare a mettere a fuoco, talvolta dettagli apparentemente insignificanti raccolti nel corso del nostro viaggiare o semplicemente sensazioni che mi sono passate per la mente.

Greta e la nostra insostenibilità

La percezione che questo mondo stia andando alla deriva mi ha accompagnato in tutto il viaggio. Partire dal Fontego dei Turchi nel cuore di Venezia, in compagnia di Elisabetta Tiveron e Andrea Martini, ci dispone al navigare a vista lungo una rotta che solo l’ossessione securitaria ha reso impervia. Ci accompagnano, questo ci piace pensare, migliaia di ragazzi che rivendicano il diritto al futuro. Ma nella città più bella del mondo, dopo aver speso 8 miliardi di euro (ma forse oggi sono ancora di più) per un’opera tanto inutile quanto dannosa come il Mose, non si vieta l’accesso alle grandi navi in un così delicato ed unico ecosistema.

Un abisso, nel prevalere di miopi interessi di bottega che del futuro si fanno beffa. Il fatto è che quell’abisso, procedendo verso levante, è semplicemente la realtà, senza neppure la coscienza critica di Greta. Dove il post comunismo ha liberato gli istinti più brutali fatti di cementificazione della costa in funzione di un turismo di massa che tende a banalizzare un paesaggio un tempo mozzafiato. Dove tutto, persino la toilette, diventa occasione di business, tanto che persino la bellezza della vecchia Ragusa risulta appannata. Dove la storia scompare fra l’incedere di palazzi inguardabili come a Salonicco. Dove l’inurbamento esasperato fa sì che venti milioni di esseri umani possano vivere in una megalopoli (peraltro straordinariamente interessante) come Istanbul, in un’area a grande rischio sismico, quale esito di un modello di sviluppo che nemmeno prende in considerazione il tema invece cruciale del limite. Eppure qui la coscienza critica nel 2013 prese le forme della protesta contro la realizzazione dell’ennesimo centro commerciale nel centralissimo Parco di Gezi (la repressione fu spietata con 9 morti, più di ottomila feriti e quasi mille arresti). Ma come non vedere che il formarsi di megalopoli è il manifestarsi di un’insostenibilità che porta all’abbandono delle zone rurali e della montagna? E che importa se il mar Nero, un tempo area ricchissima di biodiversità nonché pescosissima, sta morendo per asfissia?

Scrive Hannah Arendt: «Quanto più una civiltà è evoluta, quanto più completo è il mondo da essa creato, quanto più familiare gli uomini trovano questo ambiente “artificiale”, tanto più essi si sentono irritati da quel che non hanno prodotto, da tutto quel che è loro misteriosamente dato»2.

Sarajevo, sentimenti contrapposti

Da qualche tempo Sarajevo mi suscita un duplice sentimento. La città che ha saputo resistere a quattro anni di assedio con la cultura, quel microcosmo che – come sostiene lo scrittore Dževad Karahasan – contiene in sé tutto il mondo, quella città interiore – sempre per usare le parole dell’amico Dževad – dove l’altro è imprescindibile. Ne abbiamo parlato nella bosanska kafana Behar, nel cuore della Baščaršija . Questa è la città della cultura, del festival internazionale del cinema, delle tante persone che si sono opposte al cambiamento del nome alla Ulica Maršala Tita (la via Maresciallo Tito) e che talvolta guardano con nostalgia ad un passato spesso mitizzato, senza vedere che nella vecchia Jugoslavia c’erano già i tratti di quel che sarebbe accaduto. Mi capita spesso di polemizzare con la jugonostalgia, ma questa è la città che non si può non amare.

E poi c’è un’altra città che proprio di quell’assedio è l’esito e che oggi sembra prevalere, quella dei grattacieli di vetro o dei centri commerciali, quella dei nuovi ricchi che dalla guerra e dal dopoguerra hanno saputo trarre profitto, cinica ed indifferente alla sofferenza che si consuma quotidianamente nella fatica del sopravvivere delle persone anziane o di chi non si sa rassegnare al si salvi chi può, o nel non vedere futuro che porta i giovani ad andarsene e, talvolta, al suicidio (un tasso doppio rispetto all’Italia). Quest’ultima Sarajevo è anche quella di chi ha ben presto imparato a considerare la prima come un ingombro del passato, che della storia si prende gioco e che privilegia il selfie (3) alla riflessione, approfittando di un flusso turistico sempre maggiore che fa di questa città la meta preferita (e possibile) degli arabi che non se ne possono permettere di altre o del turismo del sol levante che in genere fa da apripista al turismo di massa.

Inutile negare che la guerra ha lasciato il segno.

Scrive Dževad Karahasan: «E’ un problema … se al mondo rimane solo una Gerusalemme, perché l’interezza del mondo deve manifestarsi almeno in due luoghi per essere credibile e perché la si possa sperimentare nella realtà» (4)

Ponti abbattuti ed altro

E malgrado tutte le sue contraddizioni (non ultima il contesto di profonda divisione che la Bosnia Erzegovina gli riversa addosso), se la mettiamo a confronto con Mostar, Sarajevo è una città vivace e in pace.

E’ paradossale che Mostar porti oggi più di altre il peso delle fratture antiche e moderne. E’ così per la verità da tempo, nella difficoltà di esprimere una gestione unitaria delle sue istituzioni, nei frequenti episodi di scontro attorno ad ogni pretesto simbolico, o anche nel semplice prendere atto che una parte della città non oltrepassa quel maledetto boulevard che venticinque anni fa segnava la linea del fronte fra croati e bosgnacchi, ovvero fra chi voleva che quella città diventasse la capitale di una Erzeg-Bosna ripulita etnicamente, mortificando ciò che la città vecchia rappresentava, e chi ne voleva salvaguardare la dimensione multiculturale.

Lo stari most è stato abbattuto perché era il simbolo di una storia che i nazionalisti croati volevano cancellare, un gioiello dell’architettura ottomana che nell’ossessione dei nuovi crociati poteva diventare un obiettivo di guerra. E così è stato: fra l’incredulità dei mostarini, il 9 novembre 1993, dopo giorni di cannoneggiamenti, i nazionalisti croati lo fecero saltare.

Ora che il vecchio (5) è disperso sulle rive e nelle fredde acque della Neretva, al suo posto c’è il nuovo ponte ricostruito rispettando tecnica costruttiva e materiali del suo predecessore e che, nel tempo, invecchierà. Ma se l’intento degli aggressori era quello di tagliare con quel ponte tutti i ponti, è inutile fingere, ci sono riusciti.

Che la città sia divisa, lo si percepisce anche nei dettagli. Un parcheggiatore che non vuole essere pagato in KM (il marco convertibile, la divisa della BiH), ma in Kune croate o in Euro. Il cameriere che alla tua richiesta di una Pelinkovac (6) accompagnata dall’osservazione che quello era uno dei sapori tipici della vecchia Jugoslavia, ti risponde stizzito che quello è un amaro croato da almeno duecento anni. Lo stato di abbandono del grande monumento/cimitero della resistenza partigiana che sorge a Mostar ovest (la celebre battaglia della Neretva contro gli invasori tedeschi e italiani che volevano cancellare la resistenza titina si svolse fra Prozor, Jablanica e Mostar).

Piccoli ponti che quotidianamente vengono abbattuti.

Scrive Dario Terzić: «Per me Mostar è la Neretva. Con o senza il ponte, questa per me è la cosa importante. Si dice che la città determina gli abitanti, ed è vero. Tutto può cambiare a Mostar, ma la Neretva rimane lì. La maggior parte della gente vi risponderà che era il ponte vecchio, ma se chiedete a chi vive a Mostar ovest, può essere che vi rispondano che per loro il ponte non significava nulla» (7)

Paesi offshore

Oltrepassato l’aeroporto nuovo di zecca che sta a sud di Dubrovnik, diventata ormai una lontana parente di quella splendida città che un tempo si chiamava Ragusa e che faceva sfoggio in tutto l’Adriatico – fra Venezia, Costantinopoli e Ancona – dell’arte della diplomazia e dell’autogoverno, l’approccio con il Montenegro non è dei migliori. Lo squallore della frontiera ricorda i tempi della cortina di ferro. Ma per gli oligarchi di questo paese, evidentemente, le frontiere sono un affare da vecchi straccioni del socialismo reale.

Sono ben altri gli ambiti che interessano alla mafia montenegrina che praticamente dalla fine della Jugoslavia governa di fatto questo paese, lungo un altro confine molto sfumato, quello fra legalità e criminalità: i traffici, la speculazione immobiliare, il turismo russo, la ripulitura del denaro, il gioco d’azzardo. “Sotto il segno della mafia” scriveva nove anni fa Mustafa Canka a proposito delle storie incrociate del presidente Milo Đukanović e del boss montenegrino del narcotraffico Darko Šarić.

Dalla nostra biblioteca viaggiante prendo il libro di Daniele Rielli, Storie dal mondo nuovo. Uno dei capitoli di questo affresco del nostro presente è quello dedicato a Budva e ad un mondo del gioco d’azzardo del quale in genere non si ha percezione fin quando non ci si mette dentro il naso.

Qualche anno fa, rispondendo all’invito di una giovane signora di Trieste che mi proponeva di inserire la sua bella casa nel centro storico di Budva nei nostri percorsi di turismo responsabile, ho avuto modo di soggiornare per qualche ora in questa città. Mezza giornata mi è bastata per comprendere i diversi livelli di business (e di degrado morale) che vi albergano, dai fuoribordo della mafia russa parcheggiati nel porticciolo per adescare le fanciulle montenegrine a chi gestiva (alla faccia del turismo responsabile) quella casa a due passi dal mare dentro le mura della Stari Grad. Non era ancora stato approvato il piano urbanistico che di lì a breve avrebbe preso il nome suggestivo di modello Vancouver. Tredici anni dopo basta un colpo d’occhio per vederne le conseguenze.

Quanto al libro di Rielli, mi era tornato alla mente lo stupore dell’autore nel salire sul suo primo taxi wi-fi lungo strade perfettamente asfaltate che dall’aeroporto di Podgorica lo portavano alla città dei casinò. In quello stupore vi leggevo uno degli stereotipi con cui abbiamo guardato a ciò che accadeva nei Balcani nell’ultimo decennio del Novecento, non cogliendone la modernità, tanto meno la sperimentazione.

Quella stessa grande nave della MSC che avremmo potuto incrociare nel Canal Grande ora era accostata al molo di Kotor con il suo carico di umanità incattivita dai soldi e dagli anni, il casinò Pasha, la città vecchia dentro le mura romane molto curata e ricca di negozi alla moda e di alberghi stellati. Sorridiamo al paradosso che il migliore dei nostri alloggi notturni (e così si rivelerà anche nel proseguo del nostro viaggio) lo possiamo godere nel paese offshore per eccellenza.

Proprio dei paesi offshore nati dopo la caduta del muro di Berlino e dei legami fra mafia montenegrina e Sacra Corona Unita (la quarta mafia italiana) parliamo in una piazzetta, quando ancora il sole sul golfo di Cattaro non è arrivato.

E sempre a proposito di offshore, a cinque chilometri in linea d’aria da Kotor c’è Tivat, un tempo arsenale della marina, i cui sottomarini rimasero in quel porto anche dopo il lungo frantumarsi della Jugoslavia. Un’altra storia di ordinaria modernità che stende l’ombra del malaffare su questo bel paese.

«Alle nostre spalle montagne brulle, di fronte l’Adriatico, nel mezzo una statale nuova che collega un agglomerato urbano irregolare fatto di casinò, sale scommesse, case vacanze per ricchi, e parcheggi pieni di Porsche Panamera e Range Rover nere» (8)

Stati nazione, bandiere e militarismo

I confini e le bandiere si susseguono. «Da Oriente a Occidente in ogni punto è divisione» scrive Leonardo Da Vinci nel Codice Atlantico. Ce lo ricorda Predrag Matvejević a proposito di una dedica che Ivo Andrić gli fece nell’edizione italiana del Ponte sulla Drina. E’ ancora così, oggi più ancora che negli anni ’60. E forse ha ragione Paolo Rumiz quando scrive che, nonostante i proclami, c’è oggi meno Europa di cent’anni fa (9).

Quello che mi colpisce nel tratto di viaggio che dal Montenegro ci porta in Turchia non è Ohrid e nemmeno Salonicco. Non la bella città che dà il nome al suo grande (e antico) lago che è un piccolo mare, già conosciuto molti anni fa. E nemmeno Salonicco, forse perché le tracce della sua importante storia sono appena visibili, in larga parte cancellate dall’incendio che nel 1917 distrusse l’intera città e dall’incedere di una modernità senza qualità.

Quel che invece mi impressiona sono i confini, le bandiere. In questi anni fra Grecia e Macedonia c’è stato un conflitto sordo, che ha trovato finalmente soluzione nel 2018 con l’accordo attorno alla denominazione di “Macedonia del Nord”. Ma che in Grecia ha lasciato dietro di sé un grande malcontento, diventato peraltro decisivo nella recente sconfitta elettorale dell’ex premier Tsipras che quell’accordo aveva faticosamente raggiunto. E poi il passaggio di mezzi militari lungo un’autostrada pressoché deserta fra due paesi, Grecia e Turchia, entrambi aderenti alla NATO, ma ancora in conflitto dagli anni ’70 per la questione di Cipro.

Il fattore simbolico assume nella postmodernità un ruolo cruciale. Ne abbiamo preso atto un anno fa nel nostro viaggio in Catalunya dove ancora una soluzione ragionevole alle istanze di autogoverno (ovvero europea) non si è trovata e dove la recente condanna degli esponenti indipendentisti di certo non aiuterà a venirne a capo positivamente. E lo vediamo ora di fronte ad un accordo che mette finalmente fine ad un contenzioso iniziato con la dissoluzione jugoslava, ma lascia dietro di sé effetti tali da riportare la destra al governo della Grecia.

Ancora non abbiamo compreso come il mito dei Nibelunghi e il canto di Sigfrido, le vestigia romane del fascismo italiano, le spoglie del principe Lazar del risorgente nazionalismo serbo negli anni che precedettero la guerra dei dieci anni, l’ampolla d’acqua alla fonte del Po per rivendicare le origini del popolo padano o il suicidio in diretta del generale croato Praljak al processo per crimini di guerra al Tribunale de L’Aja, siano ritualità che vanno prese sul serio tanto da diventare ossessioni identitarie.

Scrive Marcello Flores: «La forza del mito permette di ignorare la realtà, di giustificarla, di accusare chi cerca di farla conoscrere di essere un disfattista e un partigiano del nemico, rafforzando l’autoreferenzialità di una chiesa che adatta la religione alla propria sopravvivenza e al proprio potere… » (10)

La follia e lo stupore

Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul. Basterebbe percorrere questi nomi per comprendere la grandezza di una città che ha fatto la storia. Oggi Istanbul non è soltanto la più grande metropoli europea come numero di abitanti. E’ anche, contrariamente ai luoghi comuni, una delle città più moderne, che raccoglie le tante città della sua storia, europea ed asiatica. Diverse una dall’altra, come diverso è l’insieme se lo osserviamo dal Bosforo o dal Corno d’Oro, arrivandoci in aereo oppure entrandoci in autostrada.

La concentrazione di venti milioni di persone in una sola città (anche se sulla carta sono quindici) è qui come altrove il manifestarsi di un modello di sviluppo che porta al progressivo abbandono delle aree rurali e della montagna, esodi alla ricerca di fortuna fra le pieghe di aree metropolitane che macinano un’umanità in larga parte destinata all’oblio. Inclusione ed esclusione abitano qui, come la cultura dello scarto e dell’indifferenza. Penso con angoscia alla previsione che nel 2100 città come Lagos avranno, secondo le previsioni del Global Cities Institute dell’Università di Toronto, 88 milioni di abitanti.

Eppure, malgrado questo delirio quotidiano, tutto sembra funzionare. Le strade sono pulite, i servizi appaiono efficienti, i clacson di un traffico asfissiante pressoché silenti. I gatti sono rispettati, nutriti e coccolati nel rispetto di una leggenda secondo la quale fu proprio un gatto a salvare il profeta Maometto dal morso di un serpente. «Kedi. La città dei gatti» è il titolo di un film che la regista turca Ceyda Torun ha dedicato a Istanbul.

Non ci vivrei, ma il fascino di questa città è fuori discussione. Anche i nuovissimi grattacieli che s’incontrano lungo le colline che circondano la città già ti fanno capire molte cose, in primis la miopia della scelta di tenere fuori la più grande capitale europea da un comune processo politico con il pretesto del primato dell’identità giudaico/cristiana dell’Europa.

Una frattura non ricucita (fors’anche resa più profonda) che ha fatto sì che questa città rivolgesse il proprio sguardo altrove, diventando un punto di riferimento per il vicino Oriente, senza peraltro fare i conti con le tante storie che contiene. A cominciare da quella armena, che ancora brucia nella coscienza collettiva di questo paese, che vincano i Fratelli mussulmani o che prevalga il nazionalismo turco ora all’opposizione.

Questo è il nostro paese

Non è dunque casuale che il primo incontro a Istanbul sia con il direttore del settimanale armeno Agos, Yetvart Danzikyan. Per comprendere quanto la questione armena rappresenti un filo scoperto nel presente di questo paese basta dire che il fondatore del giornale, Hrant Dink, venne assassinato nel 2007, praticamente ieri, da un giovane nazionalista turco. Fu subito evidente che quel ragazzo minorenne era stato solo l’esecutore di una trama che coinvolgeva gli apparati dello Stato, i servizi segreti e gli ambienti ultranazionalisti. In altre parole, l’ultimo anello – ci dice Yetvart – di un genocidio mai riconosciuto e che ha praticamente cancellato una comunità come quella armena che all’inizio del Novecento contava più di un milione e mezzo di persone (ora ridotta a poche decine di migliaia).

Agos, che esce bilingue in turco e in armeno, intende però parlare a tutto il paese ed è proprio questa impostazione di apertura e di dialogo a dare fastidio al potere. Ai funerali di Hrant Dink, ci ricorda il direttore di Agos, c’erano oltre centomila persone, un momento importante perché, a partire da quei giorni, la parola genocidio non è più stata un tabù e la questione armena ha rotto gli steccati di una narrazione separata.

Non ci conosciamo e nelle parole di Danzikyan la prudenza è d’obbligo. Quando gli chiediamo che cosa pensa dell’Europa, il direttore di Agos si dice favorevole all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea ma, aggiunge, oggi l’Europa si sta distruggendo da sola. Danzikyan si dice molto preoccupato della rinascita dei fascismi e della risposta che i paesi europei stanno dando alla crisi migratoria. E alla domanda di quale sia il loro rapporto con lo stato armeno, la risposta appare ancora più netta: noi siamo cittadini di questo paese. C’è di che riflettere.

Quanto alla solitudine della politica, loro – ci dice – ne sanno qualcosa. La conversazione con il direttore di Agos è molto cordiale. E’ la prima volta che la redazione del suo giornale ospita un gruppo così consistente che viene dall’Italia. Del resto il primo genocidio del Novecento europeo non è che abbia avuto da noi chissà quale attenzione. Non fu affatto casuale che nel 2013 come Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani iniziassimo il percorso sul Secolo degli assassini con lo spettacolo di Paolo Malvinni dal titolo A che serve un poeta dedicato alla figura di Daniel Varujan e al genocidio armeno.

Una particolare forma di Islam politico

Il nostro secondo incontro a Istanbul si svolge nella sede del circolo culturale (e casa editrice) Kültürevi con İhsan Eliaçık, scrittore e animatore del movimento dei musulmani anticapitalisti, una corrente originale dell’Islam politico in dissenso con Erdoğan, accusato di usare la religione a fini di potere. Un movimento nato nel 2010 e che per le sue idee si è trovato in un punto di mezzo fra tradizione e modernità, fra oriente e occidente, fra destra e sinistra. Insomma, nel mezzo. In una sorta di limbo, collocazione non facile ma aperta alla ricerca di strade nuove.

Un passaggio fondamentale per il loro movimento fu il primo maggio del 2012, quando si saldarono le istanze egualitarie del movimento operaio e una preghiera per i lavoratori. Uscirono dalla moschea e s’incamminarono verso la manifestazione a piazza Taksim. Fu la svolta.

Quando gli parliamo del significato di questo nostro viaggio, İhsan ci dice che gli piacerebbe partecipare. E’ come se lo stare nel mezzo ci portasse a riconoscersi. Noi veniamo dall’Islam – ci racconta İhsan – ma abbiamo un’idea diversa della religione, che guarda all’Islam come riforma del cristianesimo, all’illuminismo come suo moderno proseguimento: chi governa non è figlio di Dio, non ci devono essere né servi né padroni e non ci sarà nessun nuovo profeta a salvarci.

Il tema del rapporto fra tradizione e modernità si ripresenta in tutta la sua rilevanza. Ricordo un viaggio in Marocco dove andai a parlare di autogoverno, nodo che apparve cruciale nel riprendere dalla tradizione le forme di organizzazione sociale che – come nel caso della gestione dei beni comuni – affondavano le loro radici ben prima dell’affermarsi del paradigma dello stato-nazione. Avrebbe potuto essere, questo, un tratto importante delle primavere arabe, se solo avessero trovato interlocutori attenti e avuto il tempo di dispiegare le ali.

Nell’Islam politico, un’altra via. Davvero interessante.

Lo sguardo di Ali

A seguire i nostri incontri fin dal mattino c’è con noi anche il fotografo Ali Öz, con il quale avremmo in programma di vederci nel tardo pomeriggio. Nell’intervallo fra un appuntamento e l’altro, in un locale molto bello e colorato nei pressi del quartiere greco di Istanbul, ne approfittiamo per presentarci.

La sua vicenda umana ripercorre quella della mia generazione, l’impegno sociale e politico degli anni ’70, le grandi speranze, il riflusso. E poi la scelta anche professionale di raccontare la realtà attraverso la forza delle immagini, quando ancora queste non potevano essere facilmente manipolate. L’impegno militante e la genialità artistica si sono accompagnati.

La fotografia è diventata la sua forma di osservazione, di racconto, di denuncia. Un’attenzione che nel tempo Ali ha riservato alla metamorfosi urbanistica e sociale dei quartieri di Istanbul o alle rotte dei migranti, a quella stessa umanità che Erdoğan sta usando in queste ore per ricattare un Occidente più attento alle proprie opinioni pubbliche che ai diritti umani.

Prima della nostra conversazione serale, Ali ci porta a mangiare in un luogo vero. Niente a che fare con le mete turistiche, nemmeno con ristoranti segnalati dalle guide più accreditate, ma un piccolo locale sulla sponda asiatica della città dove il kebab diventa un piatto raffinato. Apprezzo molto.

Quello di Ali Öz è lo sguardo del fotografo che forse più di ogni altro ha saputo raccontare la trasformazione della sua città attraverso i volti delle persone e il mutare dei luoghi della vita quotidiana, fra degrado e rinascita. «Senza perdere la propria umanità» ci dice Ali, come a sottolineare una sorta di discrimine anche nel suo mondo. E ci racconta di quando, di fronte ad un uomo che intendeva gettarsi dall’alto di una moschea in costruzione nei pressi di piazza Taksim, a fronte di una moltitudine di turisti che fotografavano la scena, lui scelse di riporre lo strumento del suo lavoro per andare a parlare con quella persona, evitando in questo modo una tragica fine.

Ali ha esposto le sue opere in diverse città europee, facendo conoscere il suo sguardo curioso a Berlino e a Parigi. Ma non mi nasconde che gli piacerebbe conoscere e raccontare Napoli, senza sapere che sfiora una corda sensibile. Chissà che non ne venga qualcosa e così, mentre Ali ci offre del buon vino nel suo studio, parliamo delle relazioni che da questo incontro potrebbero nascere.

In quelle ore…

Mentre siamo a Istanbul, Erdoğan sta decidendo un nuovo capitolo della guerra infinita nel vicino Oriente. Quei confini tracciati dalle forze coloniali all’inizio del Novecento nella Mezzaluna Fertile del Mediterraneo, come ha acutamente osservato nei giorni scorsi l’amico Ali Rashid , continuano a generare effetti perversi e disastrosi.

Non si trattò semplicemente di linee di inchiostro su carte geografiche militari. A monte c’erano i paradigmi che segnarono tutto il Novecento e dai quali non siamo ancora usciti. Tanto che ora il secondo esercito dell’Alleanza Atlantica scatena una nuova guerra contro la popolazione curda che quelle terre abita da sempre. Con il beneplacito di Donald Trump, un asino in cima al minareto direbbero a Gerusalemme.

Quella regione non aveva di certo bisogno di nuove guerre.

Scrive Samir Kassir: «E’ probabilmente troppo ambizioso pensare che le catene dell’infelicità stiano per spezzarsi. Il malo-sviluppo arabo si è troppo aggravato perché la felicità possa essere a portata di mano. E il persistere dell’egemonia occidentale, resa più pesante dall’occupazione americana in Iraq e dalla sempre maggiore supremazia di Israele, non consente di postulare un risveglio arabo in tempi stretti. Ma nulla – né la dominazione straniera, né i vizi strutturali delle economie, ancor meno l’eredità della cultura araba – impedisce il ricercare, malgrado le pessime condizioni attuali, la possibilità di un equilibrio. Per raggiungerlo, molte sono le condizioni necessarie, e non tutte dipendono dagli arabi. Ma anche se non si può realizzarle tutte, resta sempre possibile forzare il destino, iniz

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