Da Katmandu a Bucarest, per un futuro migliore
Negli ultimi trent’anni milioni di rumeni sono emigrati all’estero. Ma per far girare l’economia la Romania ha ora bisogno di manodopera, che sta drenando da paesi orientali. Un reportage
(Pubblicato originariamente da Recorder , selezionato e riadattato da Le Courrier des Balkans )
Nel ristorante Pescăruș, a Bucarest, Sagar Chhetri sguscia tra i tavoli portando dei piatti. Poi si ferma e si rivolge ad alcuni clienti con un rumeno essenziale. Li serve e poi riparte verso la cucina. Sagar ha 30 anni. “Lavoro come cameriere per avere un futuro migliore, ed è per questo che ho scelto la Romania. Vado verso i clienti e dico loro bună ziua, bună dimineața, bună seara. Loro s’accorgono del mio accento e mi chiedono da dove vengo. Nepal, dico loro. Loro dicono frumos, io rispondo mulțumesc”.
“Sono venuto in Romania per un futuro migliore”. Parole che possono suonare strane in un paese che ha vissuto l’emigrazione recente di milioni dei suoi abitanti. Ma la dinamica della povertà nel mondo è una storia complicata. Mentre i rumeni emigrano massicciamente verso ovest, nel Sud-est asiatico la Romania è considerata come la terra promessa.
Crisi della manodopera
“Mi chiamo Ramesh Shrestha e lavoro in cucina. Guardo le trasmissioni di cucina alla tv, guardo come lavorano gli chef… Aiutavo mia madre da piccolo. Mi sono detto: andare in Romania è ok, è un paese europeo e c’è molto da imparare da altre culture culinarie. Quindi ho deciso di venire qui e sto facendo buona esperienza. La gente reagisce in modo variegato, alcuni bene altri male. In generale incontrano un nepalese per la prima volta. Alcuni ci accolgono calorosamente, altri in modo molto duro. E’ normale, è nella natura umana, l’accetto. Anch’io penso farei la stessa cosa con persone che non conosco”.
Sagar e Ramesh fanno parte delle centinaia di nepalesi che lavorano in Romania. La mancanza di forza lavoro che caratterizza l’economia rumena spinge le aziende a rivolgersi all’estero e molti lavoratori provengono da paesi lontani come Filippine, Vietnam o Nepal. I nepalesi fanno parte del più recente flusso migratorio di lavoratori asiatici nel paese e trovano occupazione in ristoranti e hotel delle città più grandi, assunti da agenzie interinali.
“I cittadini rumeni non sono pronti a fare alcuni lavori, a volte per motivi psicologici altre fisici”, spiega Daniel Mischie, amministratore delegato di City Grill. “Mentre chi è originario di paesi non europei dimostrano la volontà di fare bene. E’ questa la ragione per cui scegliamo cittadini stranieri. La sola differenza tra un nepalese e un rumeno è che i primi non parlano la nostra stessa lingua, ma col tempo si adattano. Alcuni lavorano anche a contatto con la clientela. Iniziano a parlare rumeno e lavorano altrettanto bene che un qualsiasi cittadino rumeno”.
“Inviano ogni mese circa 100 euro a casa loro, in Nepal, una somma con la quale la loro famiglia vive”, continua. “Per loro i soldi hanno un valore diverso rispetto ad un rumeno per il quale 100 euro non permettono di mantenere una famiglia o pensare di costruire una casa. All’inizio degli anni ’90, quando un rumeno mandava a casa propria 100 marchi guadagnati in Germania, poteva si aiutare la sua famiglia. In breve il Nepal è come la Romania 30 anni fa, o l’Italia 80 anni fa. Queste persone sono venute qui per lavorare e per far vivere la loro famiglia, sono venuti per fare una buona cosa e non per fare del male a qualcuno”.
Il Nepal ha 30 milioni di abitanti, dieci milioni in più della Romania, ed un Pil di 13 volte inferiore. Quindi, un salario di 400-500 euro in un ristorante di Bucarest può essere un motivo sufficiente per lasciare Katmandu e trasferirsi a 5000 chilometri di distanza.
Sagar e Ramesh fanno le loro spese alla Lidl. E’ un anno che sono in Romania. Le ragioni che li hanno spinti a lasciare il Nepal non sono diverse da quelle dei milioni di rumeni partiti per lavorare nell’Europa dell’ovest. I loro appartamenti a Militari, periferia ovest di Bucarest, assomigliano a quelli dei lavoratori rumeni a Madrid, Torino o Londra. A differenza che invece di sentire il timo, le stanze profumano di curry piccante, soprattutto durante i giorni liberi quando i nepalesi cucinano i loro piatti tradizionali.
Rientrando nel loro appartamento i nepalesi incrociano un anziano vicino che si lamenta. “Siete al nono piano? Non lasciate la porta dell’ascensore aperta il mattino. Mi sveglio alle 4 e la porta è aperta”. “E’ qualcun altro, non noi”, risponde Sagar in rumeno. “Non lo so, la porta è aperta alle 4 e mezza del mattino”. “Non c’è nessuno di noi che esce alle 4 e 30 del mattino, non siamo noi”, ribadisce Sagar prima di entrare in ascensore con le borse della spesa.
Sagar e Ramesh vivono assieme ad altri tre nepalesi. L’appartamento è stato affittato loro dal datore di lavoro. E’ quasi vuoto: una vecchia poltrona, letti a castello, valige, sembra più un dormitorio che un appartamento. Almeno la visuale dalle finestre è aperta e entra della luce. Gli amici lavorano tutti nello stesso ristorante di Bucarest. Alla fine del mese inviano la gran parte dello stipendio alle famiglie in Nepal. “Ne conservo un po’ per me ma la maggior parte, il 70%, lo invio alla mia famiglia”, spiega Sagar. “Io spendo il 25% del totale, loro ne spendono il 25% per vivere e il 50% rimanente lo risparmiamo per il futuro”.
“In Nepal è impossibile trovare un buon lavoro e quando se ne trova uno il salario è a malapena sufficiente per pagare le bollette. E’ per questo che molti giovani partono per l’estero. Se trovassi a casa mia un lavoro da funzionario, guadagnerei dai 175 ai 190 euro al mese. Lavorando in un ristorante invece non guadagnerei proprio niente, lavorerei solo in cambio di cibo”.
Famiglie divise
Nei giorni liberi gli uomini cucinano dei piatti nepalesi e parlano al telefono con famiglia ed amici. “Mi ha chiamato mia moglie dicendomi che le manco”, racconta Ramesh. “Ma cosa posso farci? Non ho altre possibilità. Mi manca trascorrere del tempo con lei. Mi chiama ogni volta che ho un po’ di tempo e sono a casa. E’ stata recentemente nel villaggio dove siamo cresciuti entrambi. A volte mi sento male a pensarla tutta sola là. Speriamo a breve di poter ritornare a stare assieme”.
“Mi manca mia figlia, la mia famiglia, i miei amici”, racconta Sagar. “Ho una figlia di un anno e mezzo. Quando vedo bambini al ristorante mi vien voglia di chiamare a casa. Sono partito in modo da dare a loro un futuro migliore. Voglio che mia figlia studi, che rimanga in Nepal. Non voglio che sia obbligata a partire all’estero e per questo che lavoro e che sono tutto solo qui”.
Sagar e Ramesh dicono di essersi abituati alla Romania. Si sono abituati ai loro colleghi, all’inverno e agli inquilini del loro stabile. Considerano questa stagione della loro vita come un sacrificio fatto in nome dei loro figli.
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