Croazia, venti anni di nonviolenza
La società civile croata ricorda il ventennale dell’inizio della campagna contro la guerra. Gli obiettivi, i principi e i maggiori risultati ottenuti dal movimento croato per la nonviolenza nel ricordo di Vesna Teršelič, oggi direttrice di Documenta
Il 4 luglio 2011 ricorreva il ventesimo anniversario dell’inizio della AntiRatna kampanja Hrvatske (ARK, Campagna croata contro la guerra), iniziativa che ha segnato un punto di svolta fondamentale per la società civile del Paese. Ne abbiamo parlato con Vesna Teršelič, tra le promotrici di ARK e oggi direttrice di Documenta – Centar za suočavanje s prošlošću (Centro per il confronto con il passato)
In che contesto è nata ARK?
La Campagna è nata il 4 luglio, all’inizio della guerra. In quel momento noi, giovani attivisti, avevamo capito che i politici non avrebbero fatto nulla per fermare la guerra né gli intellettuali avrebbero fatto qualcosa per analizzare il conflitto; mancava qualcuno che facesse un passo avanti costruttivo e lo abbiamo fatto noi. Eravamo una combinazione di individui e organizzazioni preesistenti, come Zelena Akcija Zagreb (Azione verde Zagabria) e Društvo za unapređenje kvalitete života (Associazione per il miglioramento della qualità della vita), esistevano sia un nucleo di attivisti che uno di artisti. Poi è venuto il manifesto della ARK, basato sui principi di nonviolenza, tolleranza, solidarietà e rispetto dei diritti umani, per il quale abbiamo raccolto firme di sostegno in Croazia e nelle altre repubbliche della regione nonché all’estero.
Quali erano le linee guida attorno alle quali vi siete riuniti?
La prima era l’affermazione del diritto all’obiezione di coscienza, sulla scia di quanto avevamo già fatto prima della guerra, quando abbiamo insistito sulla necessità di creare un servizio civile alternativo a quello militare nell’esercito jugoslavo. Sapevamo che ci sarebbero stati coloro che non avrebbero voluto o potuto portare le armi e che a loro sarebbe servito un sostegno. Mentre erano in corso le discussioni sulla Costituzione croata abbiamo proposto che venisse inserito nel testo il diritto all’obiezione di coscienza, che è stato accettato come articolo 47, al quale abbiamo fatto riferimento per tutta la durata della guerra (ndr: il lavoro del "Gruppo per l’obiezione di coscienza" prenderà dal 1995 il nome di Unija 47). Non intendo dire che abbiamo attivamente invitato i soldati a farvi riferimento, perché la situazione era specifica e la Croazia era sotto attacco, ma abbiamo insistito sul fatto che fosse importante il diritto dell’individuo a poter scegliere in che modo contribuire e che la via nonviolenta avesse la stessa legittimità.
La seconda linea era quella della comprensione e risoluzione dei conflitti, della quale non sapevamo nulla. Abbiamo cercato di imparare da personalità e centri che già se ne occupavano, e abbiamo iniziato a organizzare laboratori e progetti nelle scuole.
La terza linea era la protezione diretta dei diritti umani, perché era chiaro fin da subito che il diritto umanitario internazionale sarebbe stato violato. Abbiamo tradotto le relazioni di Amnesty International – noi allora non avevamo le capacità di raccogliere quei dati sul campo – e le abbiamo pubblicate rispettivamente nel 1992 e nel 1993 in due libri, uno dedicato ai crimini in Croazia, l’altro a quelli in Bosnia Erzegovina, molti dei quali tuttora non sono mai stati processati. Quindi non è possibile dire che allora non si sapesse di quei crimini.
Sapendo che i media non avrebbero trasmesso determinate informazioni, nel settembre 1991 abbiamo deciso di far uscire il primo numero della nostra rivista Arkzin (ndr: il numero 0 uscirà il 25 settembre 1991 con la pubblicazione in prima pagina della "Carta della Campagna contro la guerra" in lingua croata e inglese), offrendo uno spazio a coloro che credevano che la non violenza fosse un’opzione.
Da quali centri provenivano gli attivisti promotori del progetto?
Il primo nucleo era zagabrese, ma nel giro di qualche giorno siamo subito entrati in contatto con associazioni di altre città, come Rijeka e Karlovac. Poco più tardi si è unito il Centar za mir, nenasilje i ljudska prava (Centro per la pace, la non violenza e i diritti umani) di Osijek. Fu una cosa molto importante, dal momento che noi eravamo spesso accusati di avere una prospettiva distorta perché ci trovavamo in una città dove non cadevano granate. La loro presenza, invece, dimostrava che anche in una città in guerra si può scegliere la non violenza. E’ stato molto importante per noi allargare il raggio d’azione anche ai territori più colpiti dalla guerra, come Pakrac, dove abbiamo organizzato un importante progetto di volontariato, con volontari provenienti dalla Croazia, dalla Serbia attraverso il Centar za antiratnu akciju (Centro per l’azione contro la guerra) di Belgrado e dall’estero.
Quali sono state le più grandi difficoltà che avete incontrato?
Una grande opposizione. Siamo stati percepiti come traditori, credo che l’unica cosa che ci abbia protetti sia stato il fatto che allora nessuno di noi era una personalità in vista. Ma ci sono stati attacchi verbali diretti e minacce, che per fortuna non si sono concretizzate.
Qual era allora lo stato dei movimenti pacifisti nelle altre repubbliche?
Nel 1991 si parla sempre di piccoli numeri, che si uniscono nel nome dei principi già elencati per ARK (nonviolenza, solidarietà, tolleranza, diritti umani). Sarei scettica nell’usare il termine “movimento”. Tuttavia, guardandole da una prospettiva odierna, quelle azioni simboliche erano molto importanti. L’unico caso in cui si registra un fenomeno di massa sono le proteste in Bosnia all’inizio del 1992, ma è già troppo tardi. In Serbia, quando inizia la chiamata alle armi, un grande numero di giovani si nasconde e poi diserta, più tardi si crea il Centar za antiratnu akciju e cominciano le proteste a Belgrado. Noi abbiamo mantenuto i contatti anche quando le linee telefoniche erano state interrotte (ndr: avviene nell’aprile del 1992), anche grazie ad amici residenti all’estero, e abbiamo viaggiato, attraverso l’Ungheria, in Serbia e Bosnia Erzegovina.
Esiste un archivio di ARK?
Qua, nella Casa dei diritti umani, custodiamo il materiale prodotto da ARK, oltre ad alcune collezioni private di attivisti, e cerchiamo di renderlo quanto più possibile accessibile ai ricercatori. Purtroppo però non abbiamo mai fatto molta attenzione a registrare tutto quello che veniva fatto, siamo sempre stati rivolti più alle azioni concrete. Questo ventennio per noi è inoltre occasione per un’ulteriore riflessione, che è ancora in corso, e alla fine di quest’anno uscirà una pubblicazione. Esiste anche il progetto, in fieri, di rendere consultabile la documentazione on line.
In che modo ARK ha contribuito allo sviluppo della società civile in Croazia?
Io direi che è all’inizio si è trattato soprattutto di un uscire allo scoperto, come un gruppo di persone secondo le quali la nonviolenza è possibile. È stato un messaggio importante, anche per le persone con le quali non eravamo in contatto. Nel momento di più intensa attività ARK comprendeva più di 20 organizzazioni, che a loro volta hanno avuto diverse filiazioni. Anche oggi in Croazia esiste una tradizione di collaborazione tra diverse associazioni della società civile, e credo che in parte questa sia anche un’eredità di ARK.
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