Crisi europea, rischi ed opportunità per la Turchia
Oggi la prospettiva di integrazione europea, così come l’Unione europea in generale, sono sempre meno presenti nel dibattito in Turchia. Crisi economica in UE, mancanza di una road-map credibile verso la piena membership, sfide aperte in Siria, Iran e Iraq distolgono sempre di più gli occhi di Ankara dall’Europa. OBC ne ha parlato col noto politologo e analista Sinan Ülgen
Secondo recenti sondaggi, in Turchia il sostegno per l’ingresso del paese nell’Unione europea è diminuito drasticamente, soprattutto tra i giovani. L’UE ha smesso di essere un punto di riferimento per la Turchia?
Non sarei così categorico. Di certo, però, rispetto a cinque anni fa l’entusiasmo verso l’UE è molto calato. Due le ragioni principali: la prima ha a che fare con l’atteggiamento europeo. I turchi sentono che, a prescindere dai progressi fatti, le barriere politiche poste dai principali attori dell’UE restano insormontabili, e che la piena membership non arriverà mai. La seconda deriva dall’attuale crisi economica, che ha appannato agli occhi dei turchi il prestigio dell’Unione, anche grazie al contemporaneo successo economico turco di questi anni. Molti iniziano a chiedersi: “Perché fare sacrifici per entrare in un club in crisi strutturale, magari mettendo a repentaglio il nostro modello di crescita economica?”
“Non abbiamo più bisogno dell’UE. Ora è l’Unione che ha bisogno di noi”. Questa frase, spesso attribuita a settori importanti dell’establishment di Ankara, nasconde un sentimento reale? O è solo uno slogan?
Naturalmente è soprattutto uno slogan. Alcuni politici utilizzano questo tipo di retorica, ma rimane una rappresentazione ingenua della realtà. L’UE resta una grande realtà economica , e nemmeno l’attuale “tigre” turca ha la forza per risolvere i problemi dell’Unione. Potrebbe però certo dare un contributo importante.
Per il premier Recep Erdoğan, la prospettiva di integrazione europea è stata, almeno in una fase iniziale, un elemento centrale della propria offerta politica. Quanto rimane di quell’impostazione?
Non molto. L’UE è quasi scomparsa dall’agenda politica e dalla discussione pubblica in Turchia. Oggi parlare di Unione non porta più consensi, proprio a causa della perdita di fiducia cui accennavo in precedenza. Oggi è molto difficile convincere e mobilitare l’opinione pubblica turca su temi legati all’UE: si corre come minimo il rischio di essere accusati di ingenuità.
Tornando alla crisi europea, pensa che in Turchia questa venga percepita esclusivamente come pericolo oppure anche come opportunità?
Entrambi, credo. E’ un pericolo, in quanto provoca instabilità non solo all’interno dell’Unione, ma anche alla sua periferia e nelle regioni vicine. La Turchia, ad esempio, è molto preoccupata da quanto accade in Grecia. D’altro lato è anche, indiscutibilmente, un’opportunità. Con la sua economia in crescita, e il contemporaneo stallo in Europa, la posizione della Turchia, anche come fattore regionale, emerge rafforzata. La Turchia ha oggi più da offrire all’Unione rispetto a ieri, questo col tempo potrebbe rivelarsi un vantaggio importante.
Il secondo semestre del 2012 vede la presidenza UE della Repubblica di Cipro. Questo influirà sui rapporti tra Ankara e Bruxelles?
No. La posizione del governo turco è chiara: non ci saranno rapporti con la presidenza cipriota, anche se resta aperto il dialogo con le altre istituzioni comunitarie. Tenuto conto che il processo di allargamento per la Turchia è quasi bloccato, e che nessun nuovo capitolo negoziale è stato aperto dal giugno 2010, il congelamento dei rapporti durante il semestre di presidenza di Nicosia non rappresenta un problema particolare.
La Francia di Nicolas Sarkozy si era distinta negli anni passati come principale avversario al possibile ingresso della Turchia in UE. Crede che la vittoria di François Hollande porterà a cambiamenti importanti?
Hollande ha certamente introdotto un elemento di ottimismo, anche perché il nuovo presidente non si è mai espresso esplicitamente contro il possibile ingresso di Ankara nell’UE. In realtà in Turchia nessuno si aspetta che la politica ostruzionista di Sarkozy verrà improvvisamente ribaltata. La speranza, però, è che Parigi divenga, se non favorevole, almeno neutrale nei confronti della Turchia, e che i cinque capitoli negoziali sospesi unilateralmente dalla Francia possano essere nuovamente aperti ed esaminati.
Oggi la Turchia deve fronteggiare sfide importanti nel proprio vicinato mediorientale (con la questione siriana in primo piano) e caucasico. Quanto questi sviluppi stanno spingendo in basso l’UE nell’agenda politica turca?
Lo stanno facendo, e in modo significativo. Quello che succede oggi in Siria, ma anche in Iran e Iraq, rappresenta la sfida principale alla politica estera di Ankara: a testimoniarlo, c’è il grandissimo impegno anche personale del ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu nella regione. E questo, naturalmente, distoglie energia politica, capitale diplomatico e attenzione dalla questione europea.
Dal punto di vista di Ankara, l’UE è un partner importante nell’area mediorientale?
C’è un rapporto molto positivo tra Davutoğlu e Catherine Ashton, e contatti regolari tra Ankara e Bruxelles sia sulla Siria che sull’Iran. Il problema, però, è che la Turchia non percepisce l’UE come un reale ed efficace soggetto in politica estera. L’UE si sta dotando di meccanismi comuni in politica estera, ma questa è ancora embrionale. Ecco perché Ankara guarda piuttosto a Washington come partner privilegiato nell’area.
C’è chi sostiene che la Siria sia la prima vera sfida al tentativo della Turchia di emergere come potenza regionale e che, fino ad oggi, Ankara abbia fallito nella sua gestione della crisi siriana…
Non sono d’accordo. La Siria non è l’unica sfida di fronte alla politica estera turca e credo sarebbe comunque ingiusto attribuire ad Ankara l’incapacità di mutare il corso degli eventi a Damasco. Il regime di Assad si è dimostrato estremamente resistente a qualsiasi tipo di pressione dall’esterno, Turchia compresa. Ankara ha tentato di convincere Assad a intraprendere riforme vere, e ha fallito. Anche perché, soprattutto all’inizio della crisi, i policy maker turchi hanno utilizzato una retorica che ha fatto sorgere aspettative troppo alte sulle reali capacità della Turchia di cambiare le carte in tavola. D’altra parte, però, è uno dei pochi paesi che ha tentato di dare vita ad un cambiamento positivo in Siria.
Oggi le relazioni della Turchia con buona parte dei propri vicini sta diventando più problematica. Cosa resta della politica degli “zero problemi con i vicini”?
Non molto, direi. Anche se il peggioramento dei rapporti con paesi come Siria e Iraq e Iran non dipende dall’atteggiamento di Ankara, ma dai regimi di questi paesi. Basta allargare la prospettiva, guardando ad esempio al nord Africa, per vedere un profondo miglioramento delle relazioni con paesi come Egitto e Tunisia, dove la transizione democratica è in atto. Questo rivela un cambiamento nella mentalità turca: se prima l’approccio era freddamente pragmatico, oggi i valori sono un elemento importante nella definizione della politica estera. In questo senso, la Turchia ha oggi un’impostazione più “europea”.
La Turchia è oggi molto attiva nei Balcani. Esiste il rischio di una rivalità nell’area tra Ankara e l’UE?
Politicamente, no. La Turchia non ha alcuna aspirazione ad offrire ai Balcani un’alternativa all’integrazione europea. Anzi, supporta attivamente l’allargamento dell’UE nell’area. La rivalità è invece visibile, e forse inevitabile, in campo economico. La Turchia è un’economia in espansione: è quindi normale che entri sempre di più in competizione con sistemi fino ad oggi dominanti. Questo succede anche nei Balcani, dove le aziende turche competono e competeranno sempre di più con le aziende europee.
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