Crisi, corsa ad ostacoli
L’economia romena probabilmente rimarrà in recessione per buona parte del 2010. Un pacchetto di aiuti del valore di 20 miliardi di dollari da FMI, Banca Mondiale e Ue servirà più da stabilizzatore macroeconomico che da stimolo per l’economia della Romania. Un’analisi
Con le facce livide, e un linguaggio insolitamente accorato, i dirigenti della Banca centrale romena hanno recentemente confermato i timori che, dopo un 2009 segnato da una recessione del 7%, l’economia del paese resterà al palo anche per gran parte del 2010. Entrate fiscali e rimesse degli immigranti continuano ad essere in calo. L’anno scorso, il flusso di investimenti dall’estero è precipitato a circa la metà di quanto avvenuto nel 2008. I tagli di stipendio sono divenuti la norma nel settore privato, e il disastro della bolla immobiliare spagnola ha reso evidente a chi è rimasto senza lavoro che la via d’uscita non è più un autobus diretto a Barcellona o Madrid.
Alcuni settori, comunque, continuano a tenere. Le banche romene (quasi tutte di proprietà estera) non solo hanno retto senza bisogno di pacchetti salvagente, ma nel 2009 hanno segnato profitti addirittura superiori all’anno precedente. La Romania continua ad essere, nonostante tutto, attraente per gli investitori, soprattutto ora che la manodopera specializzata, a causa della crisi, ha ridotto le proprie aspettative di guadagno. Un recente studio della società di management consulting A.T.Kearney ha posizionato la Romania al sedicesimo posto nella sua classifica mondiale di paesi interessanti per gli investimenti. Le esportazioni della Dacia, poi, anche grazie ai contributi di rottamazione in Francia e Germania, hanno conosciuto una forte espansione, coinvolgendo anche l’indotto.
La recessione che ha colpito a fondo la Romania nel 2008 ha colto in gran parte impreparato il paese. L’adozione di misure pro-cicliche, come la flat tax al 16% introdotta nel 2005 (in effetti, un taglio d’imposta per le classi medio-alte) ha spronato all’acquisto di prodotti d’importazione, aprendo una voragine nella bilancia dei pagamenti e lasciando a disposizione poche risorse per proteggere l’economia dalla tempesta che si stava addensando all’orizzonte.
Il calo dalla domanda in Europa occidentale ha provocato una rapida diminuzione delle esportazioni romene. La bolla degli immobili (trattati soprattutto in euro) è implosa, e si è presto scatenato il timore di un crollo sistemico delle banche di proprietà austriaca presenti nel paese. Le minacce che le centrali bancarie ritirassero i propri fondi dalle controllate romene e i timori di un possibile calo nei ratings dei buoni pubblici, uniti al crescente deficit pubblico e a ingenti debiti esteri da rifondere nel 2009 hanno quindi portato il governo di Bucarest a cercare l’aiuto finanziario di Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e Unione europea.
Il pacchetto di salvataggio di 20 miliardi di dollari ha rassicurato i mercati, ma ha legato il governo romeno a impegni tassativi e gravosi. A Bucarest è stata richiesta una politica di austerità, fino al taglio del deficit al 3%. Meno "falchi" rispetto agli anni ’90, Fmi e Commissione europea hanno optato per un approccio più morbido, chiedendo un deficit al 7% nel 2009 e del 5,9% nel 2010, posticipando l’obiettivo del 3% al 2012.
Entrambe le istituzioni, però, hanno intimato al governo di Bucarest che, nel caso in cui questi obiettivi non venissero raggiunti, il paese verrà lasciato in balia dei mercati. La Romania ha quindi assaggiato il peggio dei due estremi: misure di stimolo al consumo in tempi di boom e tagli draconiani in tempi di crisi.
I fondi allocati dall’Ue sono i primi ad essere stati recapitati: 1,5 miliardi arrivati nelle casse di Bucarest lo scorso luglio. La crisi politica che ha portato a ottobre alle dimissioni del governo ha però congelato la procedura di salvataggio. Nel mezzo di una crisi tempestosa, la litigiosità delle élite romene ha lasciato il paese senza un governo effettivo, e senza una seria politica anti-crisi.
Riservato ai ricchi
Dopo le elezioni di novembre e la formazione di un nuovo governo, il parlamento romeno ha approvato i termini del pacchetto di salvataggio, e il Fmi ha provveduto a sbloccare la propria parte dei pagamenti. Questo è avvenuto nel febbraio 2010, con una prima tranche di 2,3 miliardi di euro. Metà di questa cifra verrà utilizzata per ripianare il deficit di bilancio, l’altra metà a rafforzare la liquidità della Banca centrale. Di conseguenza, la massa monetaria in arrivo quest’anno verrà utilizzata come stabilizzatore macroeconomico, più che come stimolo per aiutare la Romania ad uscire dal circolo vizioso economico in cui sembra essersi cacciata.
Pacchetti come quello romeno sono stati utilizzati largamente in Europa, Nord America e nei paesi emergenti per arginare l’allargarsi della crisi. Basando la propria economia soprattutto sulle esportazioni verso l’Europa occidentale, che l’anno scorso ha conosciuto una forte apatia nei consumi, la Romania avrebbe potuto però seguire un modello più “europeo”, stimolando soprattutto la domanda interna. Per farlo si sarebbe potuto scegliere di investire per migliorare la carente infrastruttura dei trasporti, oppure assicurando forme di assistenza verso le fasce più vulnerabili della società
Superfluo dire che il paese avrebbe estremo bisogno di tali iniziative. Più di metà della rete ferroviaria (la quarta per estensione in Europa) è a mezzo servizio, due terzi della rete stradale aspetta riparazioni di varia entità, mentre solo il 60% della popolazione rurale ha accesso ad acqua corrente e rete fognaria.
Anche se forme di sostegno economico per i più poveri sono state utilizzate con successo per aumentare la domanda dal basso, quasi il 40% dei disoccupati in Romania non ne riceve alcuna. Disoccupazione o pensionamento, in un paese dove le spese per il sociale raggiungono a malapena il 12% del budget, rappresentano la porta d’entrata verso la povertà estrema.
I termini del "pacchetto" accordato, però, escludono in modo esplicito forme di spesa anti-ciclica di keynesiana memoria. Anche se il livello del debito in Romania è metà di quello richiesto per l’ingresso all’Unione, e rimane a livelli bassi record per gli standard europei, il Fmi impedisce al paese di cercare fondi sui mercati internazionali per investimenti pubblici anti-crisi, proprio mentre la domanda nel settore privato è crollata.
Come ha dichiarato recentemente il ministro delle Finanze romeno, per tali investimenti in realtà non servirebbero nuovi fondi, visto che sono già a disposizione prestiti preferenziali per 3,5 miliardi di euro erogati dalla Banca mondiale e dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo. Anche se questi prestiti erano stati erogati per progetti di immediata attuazione e con forte ricaduta occupazionale, i termini di contenimento del deficit fanno sì che Bucarest non possa utilizzarli.
Uno stato debole
Al di là delle richieste che provengono dall’esterno, la Romania può sommare non poche resistenze interne alla strada della ripresa a trazione pubblica. Il primo ostacolo è ideologico: le élite non credono in misure keynesiane, e hanno più volte criticato rumorosamente la politica economica “socialista” abbracciata dagli Usa e dall’Europa occidentale durante l’anno e mezzo passato. E se gli investimenti infrastrutturali sono accettati in principio come una misura anti-crisi legittima, nessun esponente del governo ha ritenuto l’aumento di aiuti a disoccupati e pensionati come un strategia valida.
Alla scarsa propensione delle élite ad adottare tali misure, si deve poi aggiungere l’impreparazione dell’amministrazione, sia a livello centrale che locale, a gestire progetti pubblici complessi e ambiziosi.
Questo è evidente soprattutto nell’uso dei fondi europei, che potrebbero essere utilizzati per compensare almeno in parte l’austerità economica del governo. L’economista Cristian Socol ha argomentato che l’assenza di una strategia di sviluppo di largo respiro e l’incompetenza nell’amministrazione pubblica sono responsabili del fatto che, nei primi tre anni come membro a tutti gli effetti dell’Ue, la Romania ha assorbito appena il 10% dei fondi strutturali ad essa destinati. Altri nuovi membri dell’ex blocco orientale hanno raggiunto cifre che vanno dal 25 al 34%. Il prezzo delle opportunità perdute è impressionante: circa 30mila posti di lavoro l’anno.
La debolezza dello stato romeno non può più essere spiegata dai ritornelli dell’“eredità comunista” e della “cattiva istruzione”. I ranghi dei funzionari di epoca comunista si sono decisamente assottigliati negli ultimi dieci anni e il paese ha addirittura un surplus di specialisti formatisi all’estero.
Ma invece di puntare ad una strategia complessiva, governo e municipalità hanno integrato col contagocce giovani talenti nell’amministrazione. Le istituzioni hanno poi continuato ad affiancare alle “quote” per merito quelle riservate a raccomandazioni e pressioni politiche. Stipendi bassi e sicurezza decrescente nell’amministrazione pubblica hanno spinto buona parte dei talenti nelle braccia del settore privato.
Per finire, nonostante la retorica onnipresente dell’“amministrazione sovradimensionata” come causa di tutti i mali, le agenzie romene preposte a vagliare le richieste per i fondi strutturali europei rimangono a tutt’oggi largamente sottodimensionate, fatto che risulta in inefficienze e ritardi che costano cari al paese.
Nemmeno la debolezza dello stato può però spiegare da sola perché tanti progetti infrastrutturali procedono con tale esasperante lentezza (e a costi spropositati). Si potrebbero avanzare varie spiegazioni. Funzionari e investitori stranieri attivi nei bandi per i lavori pubblici hanno più volte enfatizzato che uno degli effetti perversi delle crociate giudiziarie anti corruzione, che hanno avuto ampia eco sui media in questi anni, è l’adozione di un comportamento iper-prudente da parte dei funzionari e delle ditte coinvolte.
Piuttosto che rischiare la gogna mediatica o una visita agli uffici della procura, manager e funzionari preferiscono lavorare lentamente ed essere estremamente zelanti nella raccolta di tutte le firme necessarie, prima di dare inizio alla costruzione di autostrade, scuole e ospedali. Questo atteggiamento sembra presente anche nel campo delle spese sociali. Il ministro del Lavoro ha dichiarato recentemente che una delle ragioni per cui la Romania ha utilizzato solo il 4,8% dei 4,3 miliardi di euro allocati dall’Ue per le politiche occupazionali a partire dal 2007, è che i funzionari pubblici temono l’attenzione del sistema giudiziario una volta che i progetti vengono approvati.
Plus ça change…
Almeno per un po’, la recessione sembrava aver generato a livello mondiale un serio dibattito sul futuro delle economie di mercato, e soprattutto sulla validità dell’ortodossia macroeconomica neoliberale.
Ora sembra che, almeno in Europa, il dibattito sia andato scemando, e che non ci aspettano grandi novità nel prossimo futuro. Anche se il governo romeno non fosse stato vincolato dai parametri del Fmi, e avesse avuto volontà e possibilità di spendere per uscire dalla crisi, è molto probabile che i mercati finanziari avrebbero reso un aumento dei livelli di deficit molto costoso.
La recente vicenda della Spagna mostra che i mercati internazionali possono affossare anche un pacchetto di stimolo ben amministrato, proposto da un paese con bassi livelli di indebitamento, se l’aumento di deficit raggiunge livelli ritenuti eccessivi dai creditori.
In assenza di una rivisitazione dell’ortodossia economica in Europa, le scelte politiche di paesi in crisi, a quanto sembra, continueranno ad essere prese a seconda degli interessi degli stessi attori responsabili di aver stravolto l’economia mondiale.
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