Crisi armeno-azera, le implicazioni in Nagorno Karabakh
I recenti scontri armeno-azeri del 13-14 settembre non hanno riguardato il territorio del Nagorno Karabakh. Ma le conseguenze si faranno sentire anche – e soprattutto – lì. Un’analisi
Dopo un’estate difficile con gli incidenti di inizio agosto, il Nagorno Karabakh si è trovato solo lambito dalla battaglia armeno-azera del 13 e 14 settembre. La piccola repubblica secessionista non è stata interessata da scontri ma ne subisce le conseguenze. E anche senza combattimenti il territorio del Karabakh armeno ha subito a fine agosto una nuova erosione.
Il Karabakh allo scoppio della battaglia di settembre
Attualmente in Karabakh c’è ancora l’esercito regolare armeno oltre all’esercito secessionista, che per Baku sono milizie irregolari. Baku chiede insistentemente la demilitarizazione del Karabakh e l’uscita di tutte le truppe armene dal suo territorio, che i peacekeeper le disarmino e vengano sciolte. Il futuro delle milizie karabakhi non è stato definito nelle dichiarazioni trilaterali, ma è chiaro che per l’Azerbaijan sia una questione non negoziabile e una delle cause degli attacchi all’Armenia è proprio la sua presenza militare persistente in Karabakh e la presenza delle milizie. Yerevan ha reso noto che dal 2023 i coscritti armeni non faranno più il servizio militare in Karabakh.
A partire dal 2023 doveva inoltre essere implementata una nuova viabilità Stepanakert/Khankedi – Yerevan: uno dei punti della dichiarazione concordata prevedeva che entro 3 anni si delineasse una nuova strada che congiungesse quanto rimaneva del Nagorno Karabakh armeno con l’Armenia. La strada che da decenni viene usata è infatti quella che passa dal distretto di Lachin, dove, dal 2020, sono schierati i peacekeepers russi e che il 26 agosto è passato sotto il controllo dell’Azerbaijan, dopo una forzatura di questi ultimi a cui la zona doveva passare solo nel 2023. Agli abitanti dei paesi di Berdzor, Aghavno e Sus è stato comunicato 20 giorni prima che dovevano abbandonare le loro case. Il passaggio di Lachin in mano azera ha importanti implicazioni. Non si parla solo della strada e dei paesi lungo quest’ultima, ma anche di tutte le infrastrutture e i servizi ad essa legati. Lachin è sempre stato il cordone ombelicale fra Karabakh e Armenia, ha una rete di distributori di benzina, ci passano i cavi di internet, l’elettricità, i tubi del gas. La sua importanza è aumentata dopo il 2020 perché a differenza del periodo 1994-2020 Armenia a Karabakh non sono più contigui territorialmente. Il nuovo tracciato che gli armeni potranno usare ancora non esiste come strada, e da qui molte critiche al primo ministro armeno Pashinyan perché Lachin è passato di mano senza una valida alternativa carrabile, lungo la quale siano stati traslati più servizi possibili. La garanzia di accesso a internet, al gas, servizi fondamentali per il Karabakh diventa ora più aleatoria, e gli armeni che transitano dall’Armenia al Karabakh lo faranno su una strada provvisoria e in parte sterrata.
Agli abitanti di Berdzor, Aghavno e Sus è stato vietato di dare fuoco alle case – che passano agli azeri – come era invece accaduto con l’esodo del 2020-21 quando gli armeni che abbandonavano i territori riconquistati dall’Azerbaijan facevano terra bruciata dietro di loro pur di non lasciare nulla a chi sarebbe succeduto. Per la loro ricollocazione l’Armenia promette una cifra che oscilla intorno ai 20.000 euro per l’acquisto di una nuova casa in Armenia e circa 100 euro a testa. Ma al momento dell’evacuazione le cifre non erano disponibili, quindi ci saranno delle soluzioni transitorie fino a che questi nuovi sfollati possano trovare un immobile da acquistare.
La battaglia di settembre
Dovevano ancora placarsi le polemiche per la questione di Lachin, che l’Armenia è stata investita dalla battagli di settembre, il cui eco ha scosso il Karabakh.
Quando il cessate il fuoco del 14 settembre è entrato finalmente in vigore, sia l’opinione pubblica armena che quella karabakha hanno temuto che come nel novembre 2020 il cessate il fuoco sarebbe stato accompagnato da un accordo non sottoposto prima a pubblica discussione. Come a Yerevan, i karabakhi sono scesi in piazza e hanno dichiarato che non si poteva firmare nulla senza il loro consenso. Il giorno dopo il presidente de facto Arayik Harutyunyan si è recato a Yerevan dove ha preso parte a un Consiglio di Sicurezza armeno presieduto da Nikol Pashinyan, mentre ancora 4000 persone a Stepanakert manifestavano contro la, seppur remota, ipotesi di venire annessi all’Azerbaijan, di cui de jure il Karabakh continua a fare parte.
Il 16 settembre il governo karabakhi ha pubblicato un manifesto in 7 punti che riassume la reazione a quanto è successo e i timori rispetto a una erosione di sovranità che si concretizza sia nella perdita di territorio che nel mancato controllo sui servizi fondamentali, mentre tutt’attorno infuria ora la battaglia, ora l’incertezza.
I punti evidenziati nel documento sono: le questioni chiave riguardanti il futuro del Karabakh devono essere decise dai suoi abitanti; il conflitto con l’Azerbaijan deve essere risolto sulla base del diritto all’autodeterminazione e dell’indipendenza; qualsiasi status all’interno dell’Azerbaijan è inaccettabile; i territori karabakhi occupati dall’Azerbaijan devono essere restituiti e gli sfollati devono tornare alle loro case; il Karabakh e l’Armenia devono avere un legame terrestre diretto; il Karabakh difenderà la sua statualità; il Karabakh vuole una soluzione pacifica.
A due anni dalla guerra armena-karabakhi-azera e a pochi giorni da una nuova battaglia armena-azera le posizioni rimangono quindi lontanissime. Nessuno di questi punti può trovare sponda a Baku, ed evidentemente nemmeno l’ultimo, poiché l’opzione militare non sta uscendo dal ventaglio delle perseguibili.
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