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Contro le SLAPP, querele bavaglio, servono sinergie e formazione

L’avvocato esperto di media Andrea Di Pietro commenta positivamente il pacchetto anti-SLAPP della Commissione Europea e sostiene la necessità di promuovere eventuali iniziative di formazione destinate agli operatori della giustizia, per riconoscere e combattere le cause vessatorie che minaccino la libertà di espressione e il diritto dei cittadini a partecipare al dibattito pubblico

08/07/2022, Paola Rosà -

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Tempestiva, anticipata, rapida: così per la Commissione Europea dovrà essere la risposta dei giudici ad ogni causa che abbia le caratteristiche della pretestuosità, che sia in malafede e che miri a zittire e intimidire la parte avversa, colpendola nel suo diritto a partecipare al dibattito pubblico. Questa l’indicazione centrale del pacchetto anti-SLAPP della Commissione, che lo scorso aprile ha proposto una direttiva applicabile alle cause civili transnazionali, e una raccomandazione, valida da subito per tutti gli stati membri e per tutte le tipologie di cause pretestuose, civili e penali.

“Perché una democrazia sia sana e prospera è necessario che le persone possano partecipare attivamente al dibattito pubblico”: così si legge nei testi che, per la parte relativa alla direttiva, dovranno passare al vaglio del Consiglio Europeo e dell’Europarlamento.

Si chiami “rigetto anticipato” o “archiviazione tempestiva”, la richiesta di Bruxelles ai 27 è quella di muoversi in fretta ogni volta che ad esempio una causa civile per risarcimento danni o una querela per diffamazione, penale per la maggior parte degli stati, o qualsiasi altro procedimento giudiziario intentato in malafede, arrivino all’esame di un giudice: il magistrato è invitato a valutarne – da subito – la pretestuosità e la rilevanza sotto il profilo della partecipazione dei cittadini alla vita democratica. Non perché questa valutazione non avvenga, ma perché di solito avviene troppo tardi.

Nel sistema giuridico italiano ad esempio esiste già la definizione di lite temeraria, e il codice di procedura civile prevede già che si possano accertare e sanzionare comportamenti in malafede o per colpa grave; ma tale accertamento può avvenire solo al momento della sentenza. E quando siano in gioco informazioni di interesse pubblico, notizie rilevanti per la salute, per la democrazia, sulla corruzione o sull’ambiente, aspettare una sentenza in processi che in media durano sei anni, implica un vuoto informativo, un oscuramento del diritto di sapere, che si traduce in un prezzo troppo alto per la collettività, per l’equilibrio democratico.

Intervenire a monte e non a valle

“Questo pacchetto della Commissione presenta la prima vera soluzione alle querele bavaglio”, conferma Andrea Di Pietro, avvocato cassazionista con esperienza in materia di diritto dell’informazione e della comunicazione; difensore tra gli altri del giornalista Lorenzo Tondo (corrispondente del Guardian querelato da un magistrato italiano), Di Pietro si occupa da anni di SLAPP, ancora prima che l’acronimo diventasse di uso comune in Europa. “Il tempo è sicuramente il fattore determinante, ed è importante che la Commissione l’abbia compreso e abbia deciso di intervenire a monte e non a valle”.

Già attivo nello sportello anti-querele della FNSI fondato da Roberto Morrione, da tempo consulente di Ossigeno per l’Informazione, l’avvocato ha difeso negli anni decine di giornalisti e testate colpiti da querele temerarie, ed ha partecipato all’elaborazione della bozza di direttiva che la coalizione CASE ha fornito alla Commissione come spunto per arrivare al pacchetto approvato due mesi fa. “Nei limiti delle competenze dell’Unione, credo che queste misure siano un importante segnale dato ai governi e ai parlamenti nazionali: finalmente si chiede agli stati membri di fare qualcosa, e ai giudici di tener conto dell’interesse pubblico e della libertà di espressione”.

Ogni volta che ci si occupa di SLAPP, di cause temerarie che interferiscono con il diritto dei cittadini a partecipare al dibattito democratico, di querele che ostacolano la presa di coscienza dell’opinione pubblica su questioni ambientali, di salute, di corruzione, si dovrebbe infatti tener sempre in considerazione la mole di informazioni andate perdute, taciute, sepolte negli hard disk di giornalisti e attivisti intimoriti, minacciati, ricattati, tenuti in sospeso. Nel limbo, nell’attesa, ecco dove inizia l’agonia della partecipazione democratica.

Altre misure previste dal pacchetto dell’UE incidono in modo significativo sulla procedura: in caso di rigetto anticipato della causa, sarà il querelante ad avere l’onere della prova, a dover dimostrare la fondatezza della sua causa. E c’è pure l’obbligo per il giudice di far pagare alla parte soccombente tutte le spese legali, comprese quelle sostenute dal querelato, che può anche chiedere il risarcimento dei danni, materiali e immateriali.

Qualche inspiegabile “svista” nella traduzione

I testi della Commissione, che insieme alla rete CASE siamo abituati a leggere in inglese, presentano in italiano qualche incongruenza lessicale, che val la pena segnalare, e che ci si augura le autorità italiane sappiano interpretare nel modo corretto.

In particolare, ad essere problematica è la traduzione stessa di SLAPP, strategic lawsuits against public participation, che – sia nella direttiva sia nella raccomandazione – sono indicate come “procedimenti giudiziari abusivi tesi a bloccare la partecipazione pubblica” (il corsivo è nostro). La definizione e la descrizione nel testo corrispondono perfettamente al concetto sviluppato anche da OBCT in diversi materiali di ricerca, approfondimento e studio: anche la Commissione parla di procedimenti giudiziari “completamente o parzialmente infondati”, che mirano “in via principale a prevenire, restringere o penalizzare la partecipazione pubblica”, citando l’uso “in malafede di tattiche”, “spese sproporzionate”, e varie forme di intimidazione. Appunto per questo, il termine italiano “abusivo” – “procedimenti giudiziari abusivi” – pare del tutto fuorviante, dato che con questo significato ("esercitante abuso") ha un uso molto settoriale e limitato.

Che le SLAPP abusino dei meccanismi giudiziari è fuori dubbio, e che il loro intento sia quello di abusare di una disparità di potere ed esercitare un abuso, è chiaro; e questo le rende “abusive” (pron. əˈbjuːsɪv, in inglese), ma non certo “abusive” (in italiano) nel significato corrente e più diffuso. Che si tratti della classica trappola dei “false friends”, dei falsi amici, ovvero dei termini che pur assomigliandosi tra le due lingue, differiscono per significato? E così “abusive”, che in inglese significa “violento, relativo ad un abuso, molesto, vessatorio, che se ne approfitta”, è stato tradotto con “abusivo”, che in italiano rimanda ad un contesto di irregolarità formale, non certo di abusi e cattive intenzioni. Cause moleste o vessatorie sarebbe stata una traduzione più adeguata.

Lo stesso forse si potrebbe dire per l’utilizzo del termine partecipazione pubblica, anche qui un semplice calco dell’inglese public participation. In tutti i testi di OBCT, in tutte le nostre ricerche, interviste, dossier e approfondimenti, abbiamo sempre preferito utilizzare “partecipazione democratica”, oppure optare per “partecipazione dei cittadini al dibattito pubblico”.

“La dimostrazione plastica che la direttiva serve”

L’avvocato Di Pietro si compiace delle novità che arrivano dall’Europa: dopo anni di rinvii e false promesse da parte delle autorità italiane, ci si troverà a dover adottare uno strumento che è superiore appunto perché risolve il problema a monte e non a valle.

“Non stiamo mettendo alla berlina le persone offese – chiarisce Di Pietro – e non si vuole interferire con il diritto costituzionale di difendere la propria reputazione. Qui parliamo di una patologia dello strumento giudiziario, quando viene usato come una clava contro tutte quelle persone che esprimono la propria opinione, fanno ricerche, forniscono risultati all’opinione pubblica. E non parliamo soltanto di giornalisti”.

Secondo l’avvocato, “la possibilità per il giudice di un proscioglimento anticipato anche in sede civile è qualcosa che risolve il problema a monte”: si ricalca il modello del sistema penale, con il vaglio del giudice per le indagini preliminari che può archiviare la querela anche prima che la vittima ne sia informata. “Proprio per questo, l’intervento della Commissione è atteso con grande urgenza. Gli avvocati da noi hanno capito che se c’è un cliente che si duole di una diffamazione, è meglio avviare una causa civile, proprio per aggirare le garanzie che abbiamo nel penale. Hanno capito che questo filtro funziona e si stanno spostando tutti in sede civile”.

Il pacchetto della Commissione propone che le stesse garanzie siano inserite anche nel civile. “Il fatto che in Italia le cause pretestuose si stiano spostando nel civile – argomenta Andrea Di Pietro – è la dimostrazione plastica che la direttiva serve”.

L’obbligo di condannare il querelante molesto a coprire le spese legali inoltre funzionerebbe da reale deterrente, anche per i più abbienti. Più molesto e vessatorio è il caso, con richieste danni più alte, più alte sono le parcelle, visto che le spese legali sono parametrate alla gravità dell’illecito. E la prospettiva di dover pagare anche le ingenti parcelle della vittima dovrebbe in ogni caso scoraggiare chi invece al momento può permettersi di promuovere cause vessatorie senza il timore, in caso di sconfitta, di avere spese ulteriori.

Il bisogno di formazione

Un corposo capitolo della raccomandazione pubblicata insieme alla direttiva a fine aprile è costituito dall’invito a curare la formazione: formazione destinata ai professionisti del diritto, a magistrati e avvocati, ma anche a potenziali vittime, giornalisti, professionisti dei media e difensori dei diritti umani. Alla base della formazione, oltre alle norme procedurali, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a sottolineare il fatto che l’oggetto da difendere, il bene da tutelare, è il diritto dei cittadini ad essere informati, il diritto dei cittadini ad essere inclusi nel dibattito pubblico, il diritto delle persone a potersi esprimere su questioni di pubblico interesse.

Gli stati membri sono invitati a “sostenere le opportunità di formazione”, che permettano a giudici, avvocati, giornalisti e attivisti di “sviluppare competenze per individuare le cause moleste e reagire in modo adeguato”: le vittime devono imparare come difendersi, e la questione non deve restare al chiuso delle aule giudiziarie, ma entrare nelle università, dove le vittime saranno chiamate a dare la loro testimonianza, e diventare tema di discussione pubblica, tramite campagne e attività di sensibilizzazione che “dovrebbero mirare a spiegare in modo semplice e comprensibile” che cosa sono le SLAPP, come prevenirle, come contrastarle, come affrontarle.

“La formazione è qualcosa che gli avvocati italiani accoglieranno con favore”, precisa l’avvocato Di Pietro, che già cura corsi di formazione destinati ai giornalisti.

“C’è sicuramente molto da fare, e l’invito della Commissione è proprio quello di agire su più versanti”, conferma Di Pietro. Un grande impegno è richiesto anche alle organizzazioni della società civile, perché il tema non resti materia strettamente giuridica o legislativa.

“Anche perché aspettarsi grandi riforme dai membri del parlamento è ormai chiaro che non è plausibile. In tutte le legislature, in tutte le riforme che sono state proposte in passato, gli emendamenti peggiorativi sono arrivati da ogni parte politica, senza distinzione”, conclude l’avvocato Di Pietro, che con OBCT condivide l’impegno a fare in modo che il pacchetto UE anti-SLAPP trovi applicazioni diversificate e concrete anche in Italia. Per il bene della libertà di espressione e della partecipazione dei cittadini.

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