Condanna dell’ex sindaco di Prijedor, un’occasione per riflettere
Un commento di Michele Nardelli alla recente condanna all’ergastolo del sindaco di Prijedor, Milomir Stakic. Un invito alla riflessione collettiva sui crimini commessi negli anni ’90
Milomir Stakic, già sindaco di Prijedor, è stato condannato a vita per crimini contro l’umanità (persecuzione, omicidio e sterminio). Quando l’ho conosciuto era il marzo 1996, tre mesi dopo gli accordi di Dayton che mettevano fine a quasi quattro anni di guerra nella Bosnia Erzegovina. Arrivare in quella parte di Bosnia non era facile, i ponti abbattuti, le strade ridotte ad un colabrodo e talvolta controllate da squadre armate di sbandati. Ma soprattutto non era facile arrivare a Prijedor, la capitale inaccessibile della Bosnia nord occidentale, città simbolo della pulizia etnica e del riapparire dei campi di concentramento nel cuore dell’Europa. E ancora più difficile pensare di avviare in quella città progetti di aiuto umanitario, di pace e di riconciliazione. Anche perché gli interlocutori con i quali dovevi almeno inizialmente fare i conti erano quegli stessi personaggi che la pulizia etnica e i campi li avevano organizzati. Fra loro, il sindaco di Prijedor Milomir Stakic, che oggi vanta la condanna più pesante inflitta dal Tribunale de L’Aja per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia, nonostante non sia stata confermata l’accusa di genocidio. Eppure, la Commissione di indagine sui crimini di guerra delle Nazioni Unite presieduta da Tadeusz Mazowiecki, in un suo rapporto del 1994, dichiarò che la distruzione sistematica della comunità bosniaca nell’area di Prijedor meritava il nome di "genocidio".
Nel ’92 Stakic è un giovane trentenne laureato in medicina, un duro dell’SDS e braccio destro di Simo Drljaca, capo della polizia e successivamente viceministro degli interni della Republika Srpska prima di essere ucciso in un conflitto a fuoco con le forze dell’IFOR che lo vogliono portare a L’Aja. Sono fra i capi del Comitato di crisi che nell’aprile di quello stesso anno destituiscono il sindaco regolarmente eletto di Prijedor Muhamed Cehaijc, mussulmano (che verrà arrestato e poi dichiarato scomparso), e danno il via a quel connubio di criminalità ed affari che va sotto il nome di pulizia etnica. Tranne una breve parentesi nel ’93, Stakic svolge il ruolo di Sindaco di Prijedor dal ’92 al ’97. E’ proprio in quella veste che agli inizi del ’96 lo incontriamo nel ristorante della nomenklatura nel centro di Prijedor, insieme agli altri boss della municipalità, ovvero i signori della guerra che avevano organizzato la mattanza e l’espulsione di oltre cinquantamila persone di nazionalità non serba.
Un incontro per molti aspetti allucinante, nel delirio nazionalista di una nomenklatura post comunista che faceva risalire l’amicizia fra l’Italia e la Serbia alla terra natale (Montenegro) della regina Elena di Savoia, per altri chiarificatore nella lucida e moderna prospettiva di voler fare della loro entità etnica uno stato offshore, ovvero uno spazio senza regole dentro l’economia mondo, un paradiso fiscale per investitori senza scrupoli e per quell’economia criminale già all’opera durante la guerra e che poi diverrà un tratto distintivo dell’economia di mercato in questi paesi.
Personaggi inquietanti nella loro normalità, che non esitano a farti ammirare l’immagine del loro leader Radovan Karadzic: "Guardi che bell’uomo" mi dice la signora Srdic, moglie del presidente della Croce Rossa di Prijedor, profittatore di guerra ed accusato di aver utilizzato le insegne della Croce Rossa per la pulizia etnica, anch’egli ricercato per crimini di guerra. Tutt’intorno le macerie dei villaggi bosniaci rasi al suolo. Ti dicono di essere le vittime di un complotto internazionale ma di ciò che è accaduto in quella città ridotta ad incubo non una parola. Ho ancora negli occhi l’immagine di quei personaggi che faticano a capire perché noi portatori di pace siamo arrivati fin lì, fuori cioè da ogni legame di sangue e di suolo (e di business).
Per certi versi, la stessa difficoltà che abbiamo noi a stringere quelle mani. Ma la scelta di abitare il conflitto significa anche questo, così mettiamo alla prova noi stessi, il nostro pacifismo, la nostra capacità di relazionarsi all’altro da te.
Nella gerarchia della pulizia etnica di Prijedor, Stakic non era un semplice esecutore di ordini, anche perché in realtà non lo si è mai. Era certamente uno dei capi, ma non il solo. Molti dei responsabili sono ora alla macchia, altri – quelli che avevano responsabilità più politiche – li incontri ancor oggi per strada a Prijedor, persone normali, abitanti di quella banalità del male che Hannah Arendt ci descrisse con straordinaria forza nei suoi scritti sul processo Eichmann.
Personaggi affatto pentiti, che influenzano ancora le scelte politiche della città quando ad esempio riescono ad imporre la non cancellazione della data della festa della città (che chiamano della liberazione) nel giorno, il 29 aprile, in cui ebbe inizio il massacro; che riescono a far disertare il funerale dei poveri corpi riesumati in una delle fosse comuni ritrovate nella miniera di Ljubija, dove entravano pullman carichi di prigionieri con le mani legate dietro la testa uscendone vuoti. Sono trincerati dietro la loro verità, che diventa storia per i loro figli, che si trasforma in rancore verso quelli che ritornano e che all’estero hanno messo da parte un po’ di denaro tanto da farli sembrare ricchi (e lo sono se confrontati con le persone di nazionalità serba, per lo più anziani della Kraijna, profughi a Prijedor che ancora vivono nei centri collettivi). "La prossima volta andiamo via noi" recita una scritta murale a Prijedor e la dice lunga, sul fatto che ci sarà una prossima volta, che i bosniaci e i croati se ne siano andati e non cacciati (o assassinati), sul rancore che cova sotto la cenere. C’è una rimozione collettiva, un vuoto di memoria, una sorta di autismo collettivo, dove la guerra diventa quasi una giustificazione di tutto. Un’assenza di elaborazione del conflitto che riguarda la comunità serba nel suo insieme e che vive con fastidio ogni tentativo di rileggere anche pacatamente ciò che è accaduto negli anni ’90.
Così, una signora di nazionalità bosniaco mussulmana profuga per dieci anni, rientrata a Prijedor qualche tempo fa, incontrando una vecchia conoscente si sente rivolgere questa domanda: "quanto tempo, dov’è stata?".
Sì, per molta gente, gli altri se ne sono andati. Delle fosse comuni, dei morti e delle torture nel campo di Omarska, non si fa parola.
Stakic è un criminale di guerra ed è giusto che paghi. C’è da augurarsi che questa condanna possa diventare oggetto di riflessione collettiva. Se invece sarà un capro espiatorio, se la comunità locale non troverà le forme per parlare e ragionare su quanto è accaduto, il carcere di una persona non servirà a mettere alle spalle per davvero gli orrori di Prijedor e della Bosnia.
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