Come le mafie sono arrivate in Slovacchia
Prima la mafia balcanica e poi la ‘Ndrangheta. La Slovacchia dal 1993 è diventata un luogo ambito dalla criminalità internazionale. Di questo si occupava il giornalista Ján Kuciak assassinato un anno fa insieme alla fidanzata Martina Kušnírová
(Originariamente pubblicato dal portale di giornalismo investigativo OCCRP per la serie "Unfinished Lives, Unfinished Justice")
Le mafie dei Balcani sono state le prime grandi organizzazioni criminali ad approdare in Slovacchia, a seguito di corregionali che erano stati invitati a lavorare e studiare lì durante il periodo comunista. Mentre i loro affari si diffondevano nella nuova patria, anche la loro influenza ha iniziato ad imporsi in quegli unici settori criminali possibili sotto il regime comunista: la prostituzione, il gioco d’azzardo e il riciclaggio di denaro sporco. Quando la Slovacchia ha conquistato l’indipendenza nel 1993, i gruppi di criminalità organizzata sono rimasti e hanno iniziato a prosperare. Molto presto, la mafia italiana ha raggiunto le sue controparti (ex)jugoslava e albanese.
Oggi – nonostante sia conosciuta per la sua transizione indolore dal regime comunista e per i suoi paesaggi pittoreschi – la Slovacchia pullula di gruppi di criminalità organizzata da tutto il continente. Non solo perché i corpi di polizia ed il sistema giudiziario sono mal preparati ad affrontare questa affluenza; in molti casi, i criminali sono coinvolti negli affari politici e hanno accordi con i potenti, tra cui l’ex Primo Ministro e un giudice della Corte Suprema. Il risultante legame tra crimine organizzato e corruzione politica è notoriamente difficile da eradicare. Ed è anche letale: diversi anni fa, il giornalista slovacco Ján Kuciak aveva iniziato un’inchiesta sul crimine organizzato nel suo paese, collaborando con i reporter internazionali dell’OCCRP; si era concentrato prevalentemente sulle operazioni della mafia italiana ‘Ndrangheta , uno dei gruppi più noti e temuti al mondo. Mentre i giornalisti si avvicinavano lentamente alla pubblicazione delle loro scoperte, il 21 febbraio 2018 Kuciak e la sua fidanzata Martina Kušnírová – entrambi di 27 anni – sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco nella loro nuova casa appena fuori Bratislava, la capitale slovacca.
Nelle settimane seguenti, migliaia di persone sono scese nelle strade della capitale per chiedere giustizia. Il Primo Ministro Robert Fico e tre dei suoi ministri hanno dato le dimissioni, a causa delle accuse pubbliche sul fatto che lo stato mostrasse negligenza o fosse complice negli omicidi. OCCRP ha così denunciato che l’assistente di Robert Fico, Mária Trošková, era la socia d’affari di un uomo che era stato indagato per contatti con la ‘Ndrangheta. L’ufficio delle pubbliche relazioni del partito di Fico (Smer) non ha risposto alle richieste di un commento. Quattro persone sono state accusate degli assassinii, ma i mandanti non sono ancora stati trovati. Rimangono alcune domande chiave: come ha fatto la mafia a diventare così potente in Slovacchia? Quanto in profondità è penetrata nella politica, nell’economia e nel futuro del paese? E più importante, ci sarà giustizia per Ján e Martina?
Una cattiva reputazione
Dopo la caduta del comunismo e la simultanea scissione della Slovacchia dalla Repubblica Ceca nel 1993, il paese si trovò impreparato ad affrontare il crimine organizzato. La maggior parte dei suoi ufficiali di polizia, procuratori e giudici non avevano esperienza nell’investigare, condannare o accusare questo tipo di criminali. Molti ufficiali non conoscevano neanche i capi delle operazioni criminali nelle loro comunità – o erano troppo corrotti per interessarsene. Un poliziotto italiano che ha parlato sotto anonimato ha riferito all’OCCRP che la polizia slovacca non godeva di una buona reputazione al tempo: le autorità italiane non ne avevano fiducia e non condividevano dati sensibili per paura che le controparti slovacche li avrebbero fatti trapelare. Più di due decenni dopo, i problemi non sono stati risolti.
Nel 2015, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America ha riconosciuto la giurisdizione slovacca come "di primaria importanza" nel suo International Narcotics Control Strategy Report (Rapporto strategico sul controllo internazionale degli stupefacenti). Il paese è stato indicato come avente "un alto livello di crimine organizzato interno e internazionale, originario soprattutto del Sud e dell’Est Europa". "La Slovacchia è un paese di transito e un paese destinatario per beni contraffatti e di contrabbando, automobili rubate, frodi in materia di imposta sul valore aggiunto e traffico di persone, armi e droghe illegali", recita il rapporto. "Molti dei gruppi criminali organizzati sono coinvolti nel riciclaggio di denaro sporco proveniente da queste attività illecite". "Know Your Country", un sito focalizzato sui flussi finanziari illeciti internazionali, ha etichettato la Slovacchia come un paese di medio rischio , una denominazione che denota dubbi riguardo la sua abilità di indagare in modo indipendente i crimini finanziari e di assistere altri paesi nel congelamento dei beni di possibili criminali.
I ruggenti anni ’90
Una nuova ondata di gruppi criminali, soprattutto dall’Albania, è giunta in Slovacchia dopo la caduta del comunismo. Ancora isolati sotto il loro paranoico leader comunista, Enver Hoxha, gli albanesi sono stati costretti a fare affidamento a legami familiari e sotterfugi nella vita privata e negli affari. Allora, durante la sua transizione confusionaria verso il capitalismo, l’economia del paese è collassata sotto il peso di schemi piramidali enormi. Nel 1997 il governo albanese venne deposto e più di 2000 persone furono uccise in una serie di azioni che degenerarono in una guerra civile. Dopo aver perso tutto, molti albanesi hanno puntato all’estero per ricominciare da capo. Alcuni gruppi criminali si sono diffusi nel resto del mondo e molti di questi hanno trovato un porto sicuro in Slovacchia. Così sicuro, infatti, che il boss (di origini albanesi) di un traffico di eroina era in buoni rapporti con il giudice della Corte Suprema slovacca Stefan Harabin, che in seguito è diventato il ministro della Difesa e, infine, presidente della Corte Suprema. Attualmente è candidato alla presidenza.
Nel 1994, una chiamata amichevole tra Harabin e il trafficante di eroina, Baki Sadiki, fu registrata tramite un’intercettazione. Quando il verbale della conversazione fu rilasciato alla stampa nel 2008, la rivelazione che i due si erano incontrati di persona e che erano in rapporti confidenziali causò uno scandalo.
Nonostante la registrazione, Harabin ha dichiarato che non conosceva Sadiki e che il loro unico collegamento era attraverso la moglie di Sadiki, che Harabin conosceva prima che questi si sposassero. Sadiki fu arrestato nel suo paese, il Kosovo, e nel 2012 fu estradato in Slovacchia, dove sta attualmente scontando una condanna di 22 anni per accuse di spaccio, che includono aver contrabbandato eroina dalla Turchia in Slovacchia. Dopo la sua conferma alla presidenza della Corte Suprema, Harabin ha fatto causa all’ufficio del Procuratore generale per aver confermato pubblicamente la veridicità della chiamata privata, danneggiando così la sua reputazione. A Harabin, vincendo la causa, è stata concessa un’indennità di 150.000 euro di danni per quella che è stata giudicata come un’erronea procedura ufficiale; il caso è ancora in appello. Harabin ha anche minacciato di far causa agli organi di stampa che hanno riportato lo scandalo.
In base a cablogrammi diplomatici statunitensi trapelati su WikiLeaks, Harabin era altresì dietro il tentativo di chiudere la corte speciale creata per processare i casi di corruzione e di criminalità organizzata. Il cablo rileva inoltre che "ha proposto la revisione del codice penale, riducendo gli strumenti della pubblica accusa e diminuendo le sentenze per i delinquenti recidivi". Harabin ha perso la sua posizione come presidente della Corte Suprema nelle elezioni del 2015 ed è candidato attualmente per guidare il paese. Il primo round di elezioni è il 16 marzo (2019). Harabin non risponde a telefonate o email che chiedono commenti al riguardo.
Cittadinanza in vendita?
Un passaporto slovacco, che rilascia un accesso facile all’intera Unione Europea, è un oggetto di valore per qualsiasi aspirante trafficante di droga. Nonostante per acquisirne uno sia richiesta una fedina pulita, dei giornalisti hanno riportato che almeno due importanti criminali serbi sono riusciti nell’impresa.
Dragoslav Kosmajac, il presunto creatore di un’importante "via della droga" nei Balcani, ha ricevuto la cittadinanza slovacca nella capitale, Bratislava, nel 2004. Il suo ruolo non è stato reso pubblico fino al 2014, quando il Primo Ministro serbo Aleksandar Vučić ha denunciato come Kosmajac – descritto come il più importante narco-trafficante nei Balcani – sia riuscito a fuggire dalla giustizia serba con un passaporto slovacco. Successivamente è tornato nella sua patria natia, senza però essere posto di fronte all’accusa di spaccio. Il suo avvocato, Đorđe Simić, ha sottolineato come ogni causa contro il suo cliente sia stata ritirata. Il governo slovacco ha iniziato ad irrigidire le sue leggi sull’immigrazione dal 2005; solamente un anno dopo, tuttavia, Darko Šarić (un narco-trafficante di spicco nella scena illegale serba) è riuscito ad ottenere la cittadinanza slovacca. Otto anni dopo, sarebbe stato arrestato in Sud America, con accuse di contrabbando di cocaina e riciclaggio di denaro sporco, e portato in Serbia. Dopo un processo piuttosto lungo, Šarič è stato condannato a 20 anni di prigione; sentenza che è stata poi ribaltata dalla corte d’appello e un secondo processo gli ha infine comminato 15 anni di reclusione. L’avvocato di Šarič non ha ancora risposto a nessuna chiamata o email alla ricerca di un commento. "Qualcuno deve aver ricevuto molti soldi per aver venduto la cittadinanza slovacca a un boss della droga" ha affermato nel 2014 Miroslav Lajčák, ministro slovacco per gli Affari Esteri, dopo aver discusso dell’argomento con il Presidente.
"Compra! Compra! Compra!"
Non sono stati solo i criminali provenienti dall’ex Jugoslavia a trasferirsi in Slovacchia. "La caduta del muro di Berlino e il collasso dell’Unione Sovietica negli anni ’90 sono risultati nell’apertura dei confini Est europei", ha detto il criminologo ceco Petr Kupka. "Questo ha portato alla creazione di nuove opportunità per i gruppi criminali organizzati". Tra questi, hanno avuto una certa importanza quelli italiani. Il giorno stesso in cui è caduto il muro di Berlino, un’intercettazione tedesca ha rivelato che la ‘Ndrangheta calabrese era pronta per muoversi più ad Est. Un membro del gruppo è stato sentito ordinare ad un suo collaboratore tedesco: "Kaufen! Kaufen! Kaufen" ("Compra! Compra! Compra!"). La ‘Ndrangheta ha cercato di investire buona parte del denaro acquisito con riscatti e sequestri di ricchi imprenditori italiani provenienti dalle regioni settentrionali. I fatiscenti palazzi della Berlino Est erano un buon punto di partenza. Questo era solo l’inizio: le porte dell’Est Europa, tra cui la Slovacchia, stavano per aprirsi.
Fuori dalla Calabria
La ‘Ndrangheta è l’unica mafia italiana che si basa su una ristretta struttura familiare, ed anche se il centro nevralgico è situato in Calabria, molti membri sono spesso mandati all’estero per espandere le operazioni del gruppo. In questi casi, il lavoro è ancora seguito, benché in maniera sempre più sporadica, dal Sud Italia. "La mente della ‘Ndrangheta risiede in Calabria, dove si cerca di organizzare la conquista del mondo" dice Giuseppe Lombardo, un importante procuratore anti-mafia di Reggio Calabria. "Ha molte cellule, che si estendono internazionalmente, e ognuna di esse ha un compito: infiltrarsi, investigare, crescere in potenza… L’idea è di continuare ad essere operativi anche senza i continui controlli del direttorato della ‘Ndrangheta". Inoltre, afferma il procuratore, "le cellule operative della ‘Ndrangheta all’estero si comporteranno come investitori di capitale, sembreranno degli imprenditori e investiranno in diverse aree di profitto: dall’agricoltura ai ristoranti, dall’energia rinnovabile alla finanza, dall’educazione alla consulenza."
Alla fine degli anni ’80 membri di una famiglia della ‘Ndrangheta, i Gallicianò, si sono spostati vicino a Visp, una città nel sud della Svizzera. Un’altra famiglia, storicamente connessa a quella sopracitata, i Rodà, vi si sono trasferiti a loro volta. Il loro obbiettivo era scappare dalle faide sanguinose che avevano luogo a casa e costruire nuove opportunità in terre più ricche di quelle prettamente rurali della Calabria, che in ogni caso era già sotto il controllo di famiglie più abbienti. Un membro dei Rodà, un esperto allevatore chiamato Diego, si è trasferito a sua volta dalla Svizzera alla Slovacchia negli anni ’90. Lì ha comprato una proprietà e ha continuato a fare l’allevatore, riuscendo finalmente a stabilire l’impresa di successo di allevamenti che lo ha reso ricco. (Diego Rodà non è mai stato condannato per nessuna accusa legata alla criminalità organizzata.) La famiglia Rodà è ora ben stabilita in Slovacchia e controlla ampie parti del settore agricolo nell’Est del paese. Un investigatore proveniente dal paese dei Rodà in Calabria, che ha richiesto di rimanere anonimo in quanto non autorizzato a parlare dell’argomento, ha detto all’OCCRP che la famiglia è localmente conosciuta per essere diventata ricca e potente in Slovacchia senza aver destato nessun sospetto di collegamento con il crimine organizzato.
"Mentre alcuni membri della famiglia Rodà in Calabria li abbiamo indagati in due diverse operazioni – Ramo Spezzato e El Dorado – i loro parenti che si sono trasferiti in Slovacchia sono usciti dai nostri radar," ha sottolineato Antonio De Bernardo, procuratore in Calabria per la lotta contro la mafia. "E questo perchè quando degli italiani si trasferiscono all’estero, è per noi complesso seguirne le tracce. In generale, come Procura Antimafia, abbiamo il problema di doverci confrontare con controparti che non riconoscono il tipo di reato, l’associazione mafiosa. Avremmo bisogno di istituire una procura internazionale antimafia, o ancora meglio un sistema di norme condiviso che permetta di inseguire gli stessi reati – per esempio quello di mafia – anche fuori dall’Italia." Ha ribadito De Bernardo, aggiungendo che l’accusa per crimini di tipo mafioso esiste in Italia e in pochi altri paesi.
Mentre Diego Rodà continuava a costruire il suo impero in Slovacchia, è riuscito anche ad attingere alle risorse e alle abilità di un’altra famiglia calabrese, i Vadalà. Antonino Vadalà, un allevatore calabrese, ha sposato la figlia dei Rodà, Elisabetta, e la coppia si è anch’essa trasferita in Slovacchia.
Antonino Vadalà è diventato un protagonista centrale nella storia di Ján Kuciak. Il giornalista slovacco ucciso stava investigando la famiglia calabrese e le sue connessioni con il Primo Ministro Fico quando fu assassinato. Appena dopo la morte, Vadalà fu accusato da procuratori italiani di traffico di stupefacenti per la ‘Ndrangheta. Lui e Rodà sono stati entrambi detenuti in Slovacchia dopo gli omicidi, ma sono stati successivamente rilasciati senza accuse. Raggiunto dai giornalisti, l’avvocato di Rodà, Antonino Curatola, ha ribadito che il suo cliente non "è coinvolto in nessuno dei fatti di cui è stato sospettato" e che "le accuse del suo coinvolgimento o della sua famiglia nell’omicidio del povero giornalista sono del tutto infondate."
"Ancora più infondate sono le accuse di un presunto legame tra il signor Rodà e la mafia calabrese", ha specificato l’avvocato Curatola. Il legale del signor Vadalà invece non ha risposto alle email che chiedevano un commento.
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