Coesione UE: eguaglianza di genere, la grande rimozione
La pandemia ha accentuato le diseguaglianze di genere esistenti negli stati membri dell’UE. Non andava bene nemmeno prima: un’analisi dell’ultimo periodo finanziario 2014-2020 delle politiche di coesione evidenzia come ben poco si sia pensato – e fatto – in questo campo
La crisi del Covid-19 ha avuto un impatto senza precedenti nella nostra società, anche se le sue conseguenze sociali ed economiche sono ancora da valutare appieno. Tra i solchi che sta lasciando la pandemia l’allargamento delle diseguaglianze di genere già esistenti: ragazze e donne sono spesso quelle ad aver subito di più, in particolare nel mondo del lavoro.
Impiegate principalmente in posizioni sottopagate nel settore dei servizi e dell’assistenza, le donne hanno sperimentato in modo drammatico l’impatto della pandemia innanzitutto in termini di calo dell’occupazione. Eurostat mostra che il tasso di disoccupazione femminile è salito all’8,0% nell’UE nell’ottobre 2020 , mentre quello maschile al 7,2%. I dati pubblicati di recente mostrano che la situazione è parzialmente migliorata, ma differenze di genere rimangono ancora marcate.
L’uguaglianza di genere costituisce un valore fondamentale dell’UE ed è interconnessa alle sfide e agli squilibri già esistenti nello spazio europeo. Analizzare il contributo della politica di coesione nella promozione dell’uguaglianza di genere contribuisce a spiegare l’evoluzione della crescita socio-economica dell’Unione nel recente passato. Di per sé, la politica di coesione mira a sostenere lo sviluppo socio-economico e territoriale tra le varie regioni dell’UE, ponendosi quindi l’obiettivo di ridurre le disparità tra regioni ma anche tra uomini e donne. Una prospettiva di genere equilibrata permette una corretta allocazione delle risorse umane, portando quindi alla crescita economica.
Come viene affrontata la parità di genere nella politica di coesione?
Durante il periodo finanziario 2014-2020, la politica di coesione UE ha promosso la parità di genere come obiettivo orizzontale per quasi tutti i suoi fondi, attraverso il cosiddetto “gender mainstreaming”. L’aspetto negativo di questo approccio è stato quello di affiancare la parità di genere ad altri principi – come ad esempio la non discriminazione – finendo così per creare un paniere di principi in cui finisce col prevalere la genericità. Inoltre in questo modo ci si è di fatto preclusi la possibilità di valutare con accuratezza gli sforzi fatti da alcuni stati membri e regioni in termini di progresso nel ridurre le diseguaglianze di genere.
Prendiamo ad esempio il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR): qui non si menziona alcun obiettivo specifico relativo alla parità di genere. Tuttavia i vari report di valutazione mostrano che più della metà degli obiettivi del fondo FESR potrebbero avere un impatto sulla promozione della parità di genere. Dal momento che il FESR sostiene una vasta gamma di misure – si va dall’avviamento di nuove aziende, alle infrastrutture, alla diffusione di tecnologie delle comunicazioni e dell’informazione – garantirebbe opportunità rilevanti per fornire strumenti concreti che contribuiscano alla riduzione delle diseguaglianze di genere a livello europeo. Gli investimenti del FESR nei servizi di assistenza e, per esempio, nelle infrastrutture per la cura dei bambini, sarebbero utili per lo sviluppo della carriera delle donne, affrontando allo stesso tempo anche il rapido declino demografico. Ma pochi beneficiari di questi finanziamenti hanno tradotto, dalla teoria alla pratica, il principio di uguaglianza di genere, lasciando così la promozione di quest’ultima solo sulla carta.
A questo proposito un’analisi approfondita condotta in otto stati membri UE, tra cui l’Italia e la Romania, mostra che l’attuazione del principio di parità di genere nei fondi di coesione nel periodo 2014-2020 è stata scarsa. I settori in cui si è intervenuti con il FESR vi vengono descritti come poco legati alle donne e alla parità di genere. Inoltre, gli accordi di attuazione firmati dall’UE e dagli stati membri sui fondi di coesione non includevano alcuna indicazione su come rendere concreta l’uguaglianza di genere a livello nazionale.
In questo contesto il Fondo sociale europeo (FSE) costituisce invece l’eccezione nella politica di coesione UE per quanto riguarda il genere. Vi si considera infatti la riduzione delle diseguaglianze di genere come una priorità di investimento esplicita, da promuovere attraverso misure concrete che mirino al miglioramento delle condizioni socio-economiche e all’empowerment di ragazze e donne. Durante il periodo 2014-2020, la dotazione finanziaria del FSE è stata pari a circa 5,85 miliardi di euro, e quasi il 92% delle misure del FSE ha affrontato direttamente la questione della parità di genere.
Tuttavia, un recente rapporto pubblicato dalla Corte dei conti europea sottolinea che sono disponibili poche informazioni sull’impatto globale dei fondi strutturali sulla promozione della parità di genere durante il periodo finanziario 2014-2020. Una particolare responsabilità a questo proposito ricade – ad avviso della corte – sulla Commissione e sugli stati membri, direttamente coinvolti nella gestione dei fondi. Il rapporto sostiene che la Commissione non ha promosso sufficientemente l’utilizzo del “gender mainstreaming” nella politica di coesione e che non lo si è sufficientemente considerato nemmeno nell’ultimo ciclo di bilancio. Inoltre, si denota una mancanza di meccanismi in atto a livello UE e nazionale che permetta di garantire l’applicazione del principio di uguaglianza di genere nella pratica.
I principali ostacoli a livello UE
La riduzione delle diseguaglianze di genere rimane una sfida da affrontare nel prossimo ciclo di bilancio dell’UE, che va dal 2021 al 2027. Tra i principali ostacoli in tal senso vi è sicuramente la mancanza di volontà politica, a fronte di ampi spazi di miglioramento che vi sono in molti degli stati membri.
Già nel 2016, un rapporto del Parlamento europeo evidenziava la mancanza di una chiara strategia per affrontare la parità di genere nei fondi europei. Nel rapporto si sottolinea come le questioni di genere siano state trattate principalmente come questioni di politica soft e ad esempio il gender budgeting – cioè l’allocare delle risorse in un budget seguendo un criterio specifico, in questo caso l’uguaglianza di genere – non è mai stato sistematicamente applicato nel bilancio generale dell’UE. Anche se la Commissione Van Der Leyen ha adottato la strategia per l’uguaglianza di genere 2020-2025, resta da valutare il grado di attuazione che quest’ultima avrà in campo.
Un’altra grande barriera rimane la mancanza di competenza sulle possibili politiche che possono essere adottate e la mancanza di consapevolezza, a livello regionale, su come affrontare le questioni di genere all’interno della politica della coesione. In alcuni stati membri sono stati istituiti meccanismi e strutture ad hoc per affiancare su questo le regioni e condividere le buone pratiche, ma sono esperienze ancora sporadiche.
Infine, non esiste alcun obbligo per gli stati membri e per le istituzioni locali di raccogliere dati statistici disaggregati per sesso durante l’implementazione di progetti finanziati da fondi europei, il che rende impossibile il processo di monitoraggio e la valutazione finale dell’impatto sulla parità di genere.
Finché non vi sarà un’azione concertata a livello europeo per affrontare adeguatamente la questione della parità di genere, i risultati rimarranno mediocri anche per il prossimo periodo finanziario 2020-2027 e soggetti all’esclusiva delle varie agende politiche nazionali.
editor's pick
latest video
news via inbox
Nulla turp dis cursus. Integer liberos euismod pretium faucibua