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Città in cerca d’autore II

Eclettico studioso delle città moderne, Kai Vöckler, curatore di Balkanology. New Architecture and Urban Phenomena in South Eastern Europe si è proposto una missione impossibile: dimostrare che nel sud-est Europa c’è spazio per una vita urbana sostenibile e condivisa. Seconda parte di una nostra intervista

18/03/2009, Chiara Sighele -

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La mostra Balkanology. New Architecture and Urban Phenomena in South Eastern Europe espone diverse ricerche e iniziative urbane. Quali sono e perché li avete scelti?

I quattro progetti di ricerca e le quattro iniziative che ho selezionato per Basilea erano semplicemente quelli che mi sembravano più interessanti, specialmente quelli da Montenegro e Albania. Entrambi sono praticamente casi sconosciuti, ma estremamente importanti nel loro paese e hanno una storia molto simile: negli anni novanta, giovani studenti avviarono queste iniziative subito dopo aver terminato gli studi e ora sono coinvolti nella pianificazione su tutti i fronti. Rappresentano esempi di successo e, cosa per me piuttosto sconcertante, non si conoscevano tra loro, sebbene tra Kotor (Montenegro) e Tirana distino appena 200 km. Ancora una volta, il punto è di richiamare l’attenzione pubblica su quanto stanno facendo.

Questo è comunque solo una piccola parte di quanto si sta realizzando, perché ovviamente limiti di spazio impongono delle scelte e ti costringono a mostrare solo quello che puoi mostrare. Amplieremo il discorso nelle prossime edizioni: in ottobre Balkanology sarà esposta presso l’Architekturzentrum di Vienna e lì ci saranno anche ricerche su Bucarest, Sofia, Pola e Nuova Belgrado.

È possibile parlare di una ”città balcanica”?

Beh, è difficile parlare di ”città balcanica”. Guardiamo per esempio Bucarest, in Romania: è una città così tipicamente europea! Certo, hanno avuto il problema di quarant’anni di comunismo, ma hanno la loro università di architettura e pianificazione urbana che è stata fondata nel 1892. Hanno una lunga tradizione alle spalle e iniziano a esserci nuovamente segnali di miglioramento. Diversamente, Pristina era una piccola città di provincia prima di diventare la capitale di uno stato inventato dal nulla. È impossibile paragonare Bucarest con Pristina: il contesto politico e sociale è troppo diverso.
Allo stesso tempo però, tutte queste città sono in Europa, sono abitate da cittadini europei il cui sistema di valori culturali è estremamente europeo. Il tipo di urbanismo non regolato descritto in precedenza non è affatto inusuale nel sud-est Europa: in Grecia l’intera Atene è stata costruita in questo modo. Parlando di pianificazione a Tirana, a Pristina eccetera bisogna avere un occhio su Atene: lì tutto avviene tramite una regolazione ex post, legalizzando e migliorando la struttura urbana dopo la sua costruzione. In Grecia tutto questo è la norma. Quindi, io credo sia molto meglio osservare come si organizzano in quell’area piuttosto che portare in Kosovo i principi di pianificazione urbana usati in Germania, che difficilmente troveranno applicazione. Le regole sono una questione anche politica e sociale, perciò ogni società deve trovare il suo principio di regolazione.

Inoltre, questo tipo di urbanismo non ha nulla a che vedere con quanto avviene in paesi extra-europei. Non si può paragonare con le favelas, i barrios…o con quanto osserviamo in India, Cina o altrove. Lì le città si sviluppano con modalità completamente diverse. Perciò il turbo-urbanismo può essere visto come il prototipo di sviluppo urbano in questa regione europea, ma poi di nuovo da caso a caso ci sono differenze che vanno tenute presenti.

Che differenze si possono notare tra lo sviluppo urbano di paesi che hanno vissuto la transizione, diciamo l’Europa dell’est, e i paesi come la ex Jugoslavia o il Kosovo, che oltre al collasso del sistema socialista hanno subito anche la guerra?

copyright: Kai Vöckler

I paesi più colpiti dalle guerre balcaniche, ad esempio la Bosnia Erzegovina, hanno sicuramente subito le conseguenze più pesanti, non solo a causa dei danni di guerra, ma anche per via di tutti i problemi che ne sono derivati: sul piano politico tutto è bloccato e bisogna fare i conti con migrazioni ingenti. A dire il vero, tutte le città in ex Jugoslavia sono state toccate da flussi migratori pesanti causati dalla guerra, che si sono aggiunti alla fuoriuscita dalle campagne e ai moltissimi rifugiati rispediti indietro dai paesi occidentali. L’impatto di queste dinamiche demografiche sulla trasformazione urbana è enorme, e rappresenta una grande differenza da quanto è avvenuto nelle città che non hanno avuto danni di guerra né hanno vissuto tali fenomeni migratori.

Nell’introduzione di Balkanology si parla di ”un nuovo tipo di forma urbana … i cui caratteri specifici risultano da un nuovo intreccio di spazi attraverso mondi visuali comunicati da media, movimenti migratori e flussi di denaro”. Può farci qualche esempio?

Una prima forte interconnessione è a livello finanziario. Specialmente nel caso di stati economicamente deboli come l’Albania, il Kosovo, la Bosnia Erzegovina, un’alta percentuale della popolazione non è all’interno del paese, ma vive all’estero e manda denaro in patria: il 50% del reddito interno del Kosovo dipende dalle rimesse degli emigranti. Tutte le case costruite, sono per lo più edificate con il denaro dei lavoratori emigrati, con denaro guadagnato in Europa occidentale. Anche se la gente non ci pensa, quello che è accaduto nei Balcani è in realtà molto collegato con quanto accade negli stati europei.

In secondo luogo, nei Balcani, quando le persone costruiscono una casa, costruiscono una vera e propria casa – ecco perché dico che tale struttura urbana non ha nulla a che spartire con slums o barrios. Rinunciando agli architetti, risolvono la questione di come dovrebbe apparire la casa semplicemente copiando quanto hanno visto nei media o attorno a loro. Se chiedi, ti risponderanno ”Mi piacevano quelle colonne, volevo un giardino come quello…”: hanno sfogliato giornali di tendenza o si sono ispirati all’appartamento del vicino, a quello show televisivo o alla tal soap-opera. Non c’è nulla delle tradizioni locali, perché essere tradizionale significa essere fuori moda. Ugualmente, cercano di evitare lo stile che noi architetti consideriamo moderno, perché questo tipo di linguaggio architettonico ricorda loro il periodo comunista appena superato. Questo spiega perché ci ritroviamo questa sorta di edifici ”fantastici”.

Parlava dei lavoratori migranti come i principali investitori in questo mercato edilizio. Ci sono altri investitori internazionali?

In una situazione di dopoguerra, l’arena è soprattutto locale perché il mercato è considerato non sicuro e gli investitori stranieri sono molto pochi. Successivamente, i grandi investitori tentano di invadere lo sviluppo urbanistico, come sta succedendo per esempio a Zagabria o a Sofia, dove investitori russi stanno comprando il centro città; oppure in Montenegro, dove stanno comprando la baia di Kotor. Anche questo fenomeno è molto problematico ed è molto importante che gli architetti e gli urbanisti locali convincano i politici che questi investimenti vanno fatti in un modo adeguato, adatto allo sviluppo urbano.

Se ”Pristina è ovunque”, come suggerisce nel suo titolo del libro che recentemente ha curato, è possibile in qualche modo vedere nelle trasformazioni urbane in atto nel sud-est Europa una prospettiva sullo sviluppo urbano del resto d’Europa?

La mia prima risposta è senz’altro negativa: è un punto di vista molto provocatorio, ma in paesi molto regolamentati, come la Germania ad esempio, è impossibile che avvengano fenomeni come quelli a Pristina. Tuttavia si può prendere il turbo-urbanismo come un esempio di cosa accadrebbe se prendesse il via la deregolamentazione. Mostra agli architetti, ai politici, ai funzionari anche della Svizzera, della Germania eccetera, che sì, si può deregolamentare, ma oltre un certo punto le cose vanno come a Pristina. Dopo decenni d’esperienza in questi paesi, sono convinto che la regolamentazione e la pianificazione siano elementi positivi e sono piuttosto soddisfatto del sistema in Germania. Non mi lamento quanto altri miei colleghi.

D’altro canto ”Pristina è ovunque” anche nel senso che gran parte della popolazione di questi paesi vivono oltre confine: questo urbanismo è trainato dagli emigranti e dunque questo problema riguarda anche i paesi ospitanti come la Germania. Infine ”Pristina è ovunque” perché possiamo genericamente sostenere che questo tipo di fenomeni emerge in ogni contesto di post conflitto: da un punto di vista strutturale, lo si incontra anche a Kabul.

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