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Città in cerca d’autore

Eclettico studioso delle città moderne, Kai Vöckler, curatore di Balkanology. New Architecture and Urban Phenomena in South Eastern Europe si è proposto una missione impossibile: dimostrare che nel sud-est Europa c’è spazio per una vita urbana sostenibile e condivisa. La prima parte di una nostra intervista

16/03/2009, Chiara Sighele -

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La mostra Balkanology. New Architecture and Urban Phenomena in South Eastern Europe esplora la dimensione urbana delle trasformazioni socio-politiche nel sud-est Europa. Perché concentrarsi su Jugoslavia e Albania e che cosa volete suggerire con il titolo scelto?

In Europa occidentale, ma anche in paesi di recente ingresso nell’UE come Romania o Bulgaria, quando si parla di Balcani occidentali la guerra è l’unica cosa che viene in mente alla maggior parte delle persone. Credo, invece, che sia estremamente interessante guardare più da vicino cosa sta avvenendo in questa regione e ho scelto di farlo concentrandomi sui paesi che conosco meglio, grazie alla mia esperienza di coordinatore per l’area del sud-est Europa per Archis Interventions, una ONG che lavora sullo sviluppo urbano.

Venendo al titolo, abbiamo discusso molto se utilizzare la parola Balcani oppure no, visto che in tedesco ha una connotazione piuttosto negativa. Tuttavia, questo termine salta fuori ogni volta quando si parla di quest’area, dunque abbiamo deciso di usarlo molto provocatoriamente per cercare di rompere il cliché che nasconde e gettare luce sulle vere dinamiche che stanno dietro a questa ”confusione”. Soprattutto, volevo evitare l’approccio ”esotico.” Ho invitato ad esporre molti colleghi della regione – architetti, urbanisti, storici dell’architettura – per mostrare come i professionisti locali stanno rispondendo alle sfide dello sviluppo urbano nell’Europa sud-orientale. Ho pensato che il termine Balkanology potesse aiutare in tal senso, suggerendo un punto di vista più ”scientifico”.

Nell’introdurre la mostra lei spiega di aver cercato di evitare di dare un’immagine unitaria dell’intera regione. Balkanology intende suggerire che è possibile schematizzare diversi processi urbani all’interno di un unico concetto, qualcosa tipo ”un’architettura balcanica”?

La mostra si divide in una sezione dedicata all’architettura e in una sullo sviluppo urbano. Nell’occuparci di architettura ci siamo concentrati esclusivamente sulla Jugoslavia, perché in quel paese c’è stata una scuola di altissimo livello, anche se per lo più sconosciuta e poco documentata in letteratura. D’altro canto la Jugoslavia ha raggiunto standard molto elevati anche nel campo dell’urbanistica e infatti ha esportato modelli urbanistici, come si può vedere nel caso dei cosiddetti ”paesi non allineati” in Africa o in Asia. Ad esempio, l’ampliamento degli anni ’60 di Calcutta (India) è opera di urbanisti jugoslavi. Per permettere agli architetti occidentali di capire quel fenomeno che chiamiamo ”turbo-urbanesimo”, abbiamo ritenuto necessario mostrare loro che in epoca socialista c’era in quei paesi un’architettura molto elaborata. Del resto, adesso c’è una scuola molto avanzata: prendendo ad esempio l’attuale edilizia popolare in Croazia e Slovenia, direi infatti che è migliore di quanto abbiamo costruito in Germania!

Poi è avvenuto il crollo e i paesi jugoslavi hanno subito contemporaneamente due trasformazioni: la guerra e il collasso del sistema socialista. Questo ha significato enormi flussi di rifugiati e il completo venir meno della sovranità statale. È qui che ha inizio il ”turbo-urbanesimo”. Nella mostra abbiamo cercato di spiegare perché questo tipo di sviluppo urbano ha potuto affermarsi nel cuore d’Europa, in un paese dotato di una cultura architettonica e urbanistica tanto elevata.

Il mio obiettivo era anche di evitare un’interpretazione unitaria dell’intera regione dei Balcani occidentali. Volevo piuttosto far emergere le diverse posizioni e le soluzione concrete adottate di volta in volta dalle persone che lavorano nei vari contesti. Le ricerche selezionate illustrano come queste trasformazioni urbane vengano affrontate in modo diverso. Nessuno c’avrebbe scommesso, ma oggi in Montenegro o, ancora più incredibilmente a Tirana, sono molto avanzati nella gestione di questi processi: gli albanesi hanno fatto grandi passi avanti dal 1997-98 (quando lo stato collassò a causa del fallimento delle piramidi finanziarie) e ora Tirana può davvero essere un esempio di come si possa affrontare il problema degli insediamenti informali migliorando la città.

Alcuni collaboratori della mostra vedono nel turbo-urbanesimo anche alcuni aspetti positivi. Quali sono?

Srdjan Jovanović Weiss, ad esempio, vede questo processo come una sorta di improvvisazione, un ricorrere alla creatività che le persone adottano in situazioni di incertezza. Il suo approccio, come architetto, consiste nel cercare di trarre qualche insegnamento da questo fenomeno. Io invece rimango più critico. Considero questi problemi a prescindere dall’estetica, non mi interessa discutere se le persone preferiscono un mix tra l’architettura vittoriana, americana o qualsiasi altro stile. Quello che conta è guardare al livello di sviluppo della città. Cosa accade se lo stato collassa e le leggi sull’edilizia e l’urbanistica non sono più applicate?

Esatto. Cosa accade? Come si arriva al turbo-urbanesimo?

copyright: Kai Vöckler

Prendiamo il caso del Kosovo, dove la comunità albanese – circa il 90% della popolazione – è stata oppressa e tenuta fuori da tutte le istituzioni ufficiali dal 1981. In seguito all’ingresso delle truppe NATO e con la fuoriuscita dell’esercito serbo (seguito da una parte della comunità serba del Kosovo), gli albanesi kosovari si sono trovati a dover ristabilire le istituzioni locali. In situazioni di post-conflitto è normale che il processo di consolidamento istituzionale richieda molto tempo, ma contemporaneamente enormi flussi di migranti si dirigono verso la città, le persone si spostano dalle campagne verso i centri urbani e, non dimentichiamolo, molti paesi dell’Europa occidentale hanno rimpatriato i rifugiati. In conseguenza Pristina è esplosa: nel giro di uno o due anni la popolazione è raddoppiata, se non triplicata. Per far fronte a un’enorme mancanza di alloggi, tutti si mettono a costruire.

Inoltre, costruire una casa è l’unico modo per fare soldi in contesti di post-conflitto: nasce così un grande mercato, sul quale agisce anche la mafia edilizia. Le autorità dell’ONU, che avevano i poteri necessari, hanno evitato di affrontare questa questione assai delicata, perché non volevano alcun tipo di problema politico. Specialmente dopo il 2001, quando il capo del dipartimento di pianificazione urbana di Pristina, Rexhep Luci, è stato assassinato per aver toccato l’argomento, tutti avevano timore persino di parlarne. A Pristina il disastro è che il 75% del fabbricato urbano è stato distrutto dopo la guerra dall’edilizia illegale, e il fatto è che non si può biasimare nessuno, perché fino al 2006 era impossibile ottenere un permesso edilizio. Il risultato è che oggi ci confrontiamo con questioni davvero problematiche: in città le vie d’emergenza sono bloccate, gli standard di sicurezza non sono rispettati, il suolo pubblico è occupato, ci sono forti tensioni sociali tra vicini di casa, perché la gente si trova le finestre ostruite da nuove costruzione e avanti di questo passo..

Quando abbiamo iniziato la nostra iniziativa in collaborazione con architetti e urbanisti del Kosovo nel 2005, tutti ci hanno detto che era una ”missione impossibile”. Ciononostante, ora stiamo collaborando con il comune e la situazione sta migliorando. Cambiare è possibile ma richiede sempre che ci sia la volontà politica di farlo. Inoltre, occorre che la società stessa decida di voler cambiare le cose. La maggior parte degli albanesi kosovari ha vissuto per parecchio tempo all’estero, come lavoratori immigrati o rifugiati. Conoscono molto bene le soluzioni adottate dai tedeschi e parlando con loro molti diranno che si dovrebbe fare come in Germania. La mia risposta è che in Kosovo devono trovare la loro via per gestire la cosa: una specie di dibattito costante all’interno della società su cosa e come vogliono vivere.

Quindi secondo lei la società civile a livello nazionale e internazionale ha la possibilità di cambiare le cose. Stimolare la formazione di una consapevolezza condivisa socialmente attraverso il dibattito pubblico su queste questioni è un modo. Quali altri strumenti si possono mettere in campo?

Cosa piuttosto inusuale per degli urbanisti, noi siamo convinti che un piano regolatore, per quanto necessario, non è sufficiente se non lo si può far rispettare. Se sottoposti a pressione pubblica, i politici normalmente si muovono; perciò quello che stiamo facendo è di portare nella discussione pubblica il tema che ci sta a cuore, per promuovere una maggior consapevolezza a riguardo. A questo associamo una strategia mediatica e il tutto sembra funzionare. Nel dicembre 2007, durante le elezioni per il sindaco a Pristina, tutti e tre i candidati hanno inserito come uno dei punti principali nel loro programma lo sviluppo urbano. Dopo l’elezione, il nuovo sindaco si è rivolto immediatamente a noi chiedendoci di collaborare con la municipalità allo sviluppo di strategie che migliorassero la situazione. Per esempio, abbiamo istituito un comitato consultivo di esperti indipendenti – urbanisti, ma anche personaggi autorevoli della società – cui le persone possano rivolgersi per avere un aiuto e un consiglio sui processi di legalizzazione. In marzo lavoreremo con loro sul concetto di trasparenza, che è un altro punto essenziale vista la corruzione molto diffusa in Kosovo: occorre rendere questi processi il più trasparenti possibile, per evitare al massimo la corruzione.

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