Città divise, vita sulla frontiera
Mostar, Berlino, Mitrovica, Beirut. Quattro città segnate da un destino comune: divise, segnate da ghettizzazione e veri confini tra mondi in conflitto. Il “Festival artistico delle città divise”, tenuto a Mostar lo scorso aprile, ha tentato di demistificare stereotipi e aprire nuovi canali di comunicazione
Alienazione e occupazione degli spazi pubblici cittadini. Questi i temi centrali esplorati durante il “Festival artistico delle città divise”, organizzato a metà aprile a Mostar dall’“Abrašević Youth Culture Centre”.
Il festival è stato una passerella di storie e destini delle città divise di Mostar, Mitrovica, Beirut e Berlino. Per cinque giorni i partecipanti hanno avuto la possibilità di confrontare emozionalmente le proprie esperienze di vita in città ghettizzate e segnate dalla frontiera tra comunità in conflitto, nel tentativo di demistificarne gli stereotipi.
Da quanto emerso dalle testimonianze di molti dei presenti, far parte di una “città divisa” è qualcosa che segna più profondamente di quanto possano suggerire mere questioni politiche. Vuol dire condividere la tragedia umana di ogni abitante presente e passato di queste città, e quella di uno spirito urbano in rovina, così come la lotta per preservare le memorie e gli spazi pubblici dall’abbandono e dall’occupazione.
“Il nostro obiettivo era quello di stimolare l’apertura di nuovi e diversi spazi pubblici attraverso l’arte”, ha dichiarato Mela Žuljević, giovane attivista del centro Abrašević.
“L’idea è quella di attirare la gente intorno ad un evento artistico, dando nuovo significato agli spazi pubblici e rendendo possibile l’interazione ‘qui’ e ‘adesso’”, ha aggiunto poi Mela.
“L’architettura riflette sempre la società da cui viene elaborata. L’architettura delle città divise è la materializzazione di paura e controllo. Viene utilizzata come meccanismo per mantenere le divisioni tra le comunità in conflitto”.
Rani Al Rajji, trentatreenne architetto di Beirut, è convinto che il contatto fisico sia l’arma più forte per decostruire la paura del confine. “La paura nasce dal non conoscersi l’uno con l’altro”, afferma Rani. “Io credo nella forza del contatto umano, a livello tattile. Anche l’arte può essere un’esperienza molto tattile. L’arte visiva è in qualche modo una forma artistica più semplice, perché passa attraverso la vista. Credo però che sia più importante raggiungere l’arte del contatto, che permette di sentire di più le situazioni”.
Ecco perché, a Mostar nella “Piazza spagnola” che connette la parte orientale (bosgnacca) e quella occidentale (croata) della città, Rani ha proposto un’insolita performance pubblica di “Twister” popolare gioco per bambini. Durante la performance, alcuni veterani di guerra, sia musulmani che croati, passando per la piazza sono stati provocati e intrigati dalle insegne di guerra posizionate da Rani sulla pavimentazione della piazza, a fianco dei tradizionali cerchi colorati del “Twister”.
La “Piazza spagnola” è stata realizzata su quello che era il parco cittadino, vicino al viale che separa le due parti della città, come dono della Spagna alla gente di Mostar. Sembra però che i suoi abitanti fatichino a sentirla come propria. A quindici anni dalla fine della guerra, Mostar è ancora una città divisa e piena di contrasti.
Nella parte orientale, musulmana, i negozi sono quasi vuoti. Per strada poche persone. Solo allo “Stari Most”, il ponte simbolo della città, si vedono turisti. Al mercatino locale si possono comprare pezzi del vecchio ponte distrutto, simboli militari e cimeli di guerra. La gente ha un atteggiamento caloroso, ma nelle facce si legge dolore e apatia.
Nella parte occidentale, croata, è diverso. Appare meno distrutta, più moderna e dinamica, e più ricca: negozi affollati, musica ad alto volume e rumore che si alza dai numerosi e affollati caffè e dalle costose auto che passano.
Nonostante l’amministrazione e la polizia unificati, Mostar è ancora segnata da molte divisioni: del sistema scolastico, delle poste, dei servizi. C’è addirittura una via con tre nomi diversi. Oggi la città rinnega anche il suo passato comune pre-bellico. Ad esempio il grandioso parco monumentale dedicato ai partigiani, disegnato nel centro di Mostar da Bogdan Bogdanović, il più famoso tra gli architetti della Jugoslavia comunista, è oggi abbandonato e nascosto dietro ad un’alta recinzione di metallo.
Gli attivisti del centro “Abrasevic”, attraverso un’apertura, hanno fatto entrare i loro ospiti all’interno del parco, oggi un enorme spazio abbandonato, simile ad un palco in disuso. La parte più in alto del parco-monumento regala uno splendido panorama di Mostar e delle montagne che la circondano, ancora coperte di neve.
La neve è l’elemento centrale di un altro viaggio doloroso, che ha mosso i suoi passi in un’altra regione d’Europa. Sonya Shoneberger, artista di Berlino, ha proiettato a Mostar il suo film “Dove sono i popcorn?” dedicato alla sua amica Sanna, morta recentemente dopo aver preso parte ai preparativi per il festival.
Nel film Sonya racconta la vera storia di Sanna, della sua malattia e del suo attraversare continuamente confini che dividono paesi diversi, raccogliendo le storie di chi incontrava e creando così un circolo di destini intrecciati. Tutto il viaggio è immerso nel biancore accecante della neve. Alla fine, i confini scompaiono, per lasciare spazio al dolore umano.
“Ragionando su Mostar, all’inizio pensavo che in realtà Berlino non rientrasse appieno dentro la categoria delle ‘città divise’", ci ha detto Sonya. “Storicamente, da noi la divisione è stata imposta. Poi, però, ho pensato ad altri aspetti della situazione. Berlino è una capitale adesso, ma è ancora una città povera, senza industrie. Berlino è una specie di isola: era un’isola al tempo delle due Germanie, e forse lo è ancora”.
“Artisti vengono da ogni dove in cerca di ispirazione, Berlino è oggi una città dei ‘party’, delle feste, ma la questione è: e la vita reale? I berlinesi sono lasciati ai margini. I due sistemi non sono ancora divenuti uno soltanto, nonostante le promesse. Il processo è ancora in divenire”, ha aggiunto poi Sonya.
Un altro film, “Cos’è l’architettura e cos’è la cultura”, girato con una camera amatoriale da Tanja Vujisić, ha raccontato durante il festival della realtà della parte nord di Mitrovica, in Kosovo, delle sue frontiere interne e dei suoi spazi negati. Secondo l’autrice, il film è volutamente rozzo e brutale nel suo racconto. Al centro della storia i cittadini e la completa negazione di spazi pubblici, il tutto immerso in un’atmosfera di profondo pessimismo.
“Gli spazi pubblici più importanti si trovano in quella che oggi è Mitrovica sud, ma io ho iniziato a dimenticarli ormai. Stiamo perdendo anche i più elementari spazi pubblici: le strade, i marciapiedi, le aree verdi”, ha detto Nevenka Medić, dell’ong “Centar za razvoj zajednica”.
“Questi spazi sono sottratti alla comunità urbana di Mitrovica, che rischia di scomparire. Sono occupati e distrutti da centinaia di baracche, palazzi e cantieri. Non abbiamo alcuna libertà di movimento e, semplicemente, lo spazio pubblico non esiste. Sono pessimista, e temo che non riavremo mai i nostri marciapiedi e le nostre strade”.
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