Cipro: le parole sono importanti
Minacce di morte, petizioni, proteste. Lo scorso luglio, a Cipro, un glossario per il giornalismo pubblicato dall’OSCE ha scatenato furiose polemiche
Maria ha “tradito” per la prima volta il suo paese a diciotto anni quando ha partecipato ad un Festival delle Nazioni Unite all’Hotel Ledra Pallas, uno dei pochi luoghi nella buffer zone di Cipro dove greco- e turco-ciprioti potevano incontrarsi all’epoca.
Poco dopo si è iscritta alla Facoltà di Turcologia dell’Università. “A dispetto degli scarsi sbocchi lavorativi – racconta – visto che il dipartimento era considerato un covo di spie”. A quei tempi non era possibile attraversare la Linea Verde che separava di fatto la parte settentrionale dell’isola, a maggioranza turco-cipriota, da quella meridionale. Date le scarse occasioni di mettere in pratica le nozioni di lingua turca apprese in aula, Maria si è trasferita ad Istanbul per completare gli studi. Quattro anni dopo, quando è tornata, ha trovato una situazione cambiata: la Linea Verde era stata aperta nel 2003, Cipro era entrata nell’Unione Europea l’anno successivo e la presenza di persone bilingue era diventata necessaria. “Da oltre dieci anni lavoro come traduttrice, interprete e redattrice. Poi, un anno fa, l’OSCE mi ha coinvolto nel progetto Cyprus Dialogue”, spiega.
Maria Siakalli è infatti una dei quattro autori della pubblicazione “Words that matter: a glossary for journalism in Cyprus” che, lo scorso luglio, ha riscaldato un’estate cipriota già afosa. I quattro giornalisti – due greco-ciprioti e due turco-ciprioti, due donne e due uomini, due bilingue da ciascuna delle parti – hanno monitorato per un periodo di sei mesi il linguaggio usato dai media locali ed individuato la terminologia più controversa, cercando delle alternative meno conflittuali: il risultato è una lista di 56 parole che i giornalisti, da una parte e dall’altra, dovrebbero riconsiderare.
“So che si tratta di raccomandazioni e non ordini. Rimane il fatto che questa pubblicazione ha delle grandi falle: la prima è l’assenza di una ricerca empirica, chi ha deciso quali termini offendano una comunità? E la seconda è il tentativo di cancellare la storia. Nel 1974 la Turchia ha invaso Cipro e nessuno può impedire a noi greco-ciprioti di mantenere il ricordo di quel fatto storico”, tuona Natalie Alkiviadou dell’Università Central Lancashire di Cipro, specializzata in diritti umani e, in particolare, nell’analisi del discorso d’odio. Due settimane prima della sua presentazione ufficiale, duecentodieci giornalisti hanno firmato una petizione che condannava l’intento del glossario. In un comunicato il maggiore quotidiano cipriota, Philelefteros, ha avvisato che continuerà a chiamare “l’operazione di pace turca un’invasione”.
Occupazione o liberazione?
Il 15 luglio 1974 l’organizzazione paramilitare greco-cipriota EOKA B ha preso il potere con un colpo di stato che ambiva all’unione di Cipro con la Grecia (enosis); il successivo intervento delle truppe turche – che ha determinato la divisione attuale dell’isola – è ricordato da un lato come una ‘felice’ operazione di ‘liberazione’ e dall’altro come una ‘barbarica invasione’ od ‘occupazione’.
“Il linguaggio esprime due esperienze vissute diversamente. Il problema è trovare un terreno comune per il dialogo”, spiega l’antropologo Yannis Papadakis dell’Università di Cipro, il quale ha speso anni di ricerca nello studio del linguaggio utilizzato dalle due comunità principali di Cipro nei libri di storia scolastici. “Questo glossario andava nella giusta direzione, ma entrambe le parti si oppongono a qualsiasi tentativo di scalfire le rispettive, monolitiche auto-narrazioni – continua Papadakis – difficile stabilire cosa sia giusto dire o non dire anche dal punto di vista giuridico, visto che non è mai stato raggiunto un accordo”.
Invasione, occupazione, pseudo-stato, elezioni illegali, amministrazione greco-cipriota: sono quattordici i termini per cui gli autori del glossario non hanno trovato un’alternativa neutra e condivisa. "Questo lavoro ci ha permesso di scoprire quanto alcune parole, appartenenti alla retorica nazionalista, siano sedimentate nella nostra testa”, racconta Maria.
Violenza on-line
Maria su Facebook ha difeso il glossario, venendo di contro attaccata da almeno 27 account diversi che l’hanno minacciata di morte o stupro, sia sulla sua bacheca che per messaggio privato. E, ancora una volta, l’hanno definita una traditrice, venduta agli interessi della Turchia. Proprio lei, greco-cipriota, figlia di due genitori fuggiti dalla parte settentrionale di Cipro. Nelle foto profilo degli utenti che l’hanno attaccata spiccano bandiere greche e post condivisi da siti di estrema destra.
“Non escludo che esista un circolo nazionalista che si attiva in casi come questo. Ho avvisato l’OSCE dell’accaduto, ma non sono andata dalla polizia perché temevo che non mi avrebbe protetto e la situazione sarebbe peggiorata ancora di più”, confida.
Secondo la professoressa Alkiviadou nel caso di Maria Siakalli non si può parlare di discorso d’odio perché i giornalisti non rappresentano una minoranza o un gruppo protetto. In effetti l’articolo 35 del codice penale di Cipro, riformato nel 2017, riconosce solo i crimini d’odio perpetrati per ragioni etniche, religiose o per discriminazione di genere. Uno studio dell’Università di Cipro del 2017, tuttavia, identifica nel nazionalismo l’elemento costitutivo del discorso d’odio nell’isola e denuncia la scarsa volontà della polizia, organo deputato al monitoraggio del fenomeno, di implementare la normativa.
Anche il governo ufficiale di Cipro si è scagliato contro la pubblicazione affermando che, se fosse stato messo a conoscenza del progetto, si sarebbe opposto. Le reazioni delle autorità e della popolazione turco-cipriota, invece, sono state più tiepide. “Noi turco-ciprioti abbiamo già infranto i tabù nei primi anni 2000 ed ora siamo più immuni alla retorica nazionalista”, sottolinea la co-autrice della pubblicazione Esra Aygın.
Tra il 2004 ed il 2009 il governo turco-cipriota di Mehmed Ali Talat ha approvato una serie di provvedimenti che hanno riformato il linguaggio usato nei libri di storia delle scuole medie e nei mezzi di comunicazione, ma tale apertura non ha facilitato i negoziati. “Nel 2004 la parte turco-cipriota era più disposta al compromesso perché all’orizzonte c’era l’Unione Europea e molto da guadagnare”, spiega il Prof. Papadakis, “A nord le condizioni di vita erano – e restano – peggiori di quelle dei greci ciprioti”.
Gli ultimi negoziati, nel 2017, sono nuovamente falliti e nessuno degli intervistati vede vicina una soluzione politica allo stallo cipriota, ma tutti nutrono speranze a livello sociale. “Se anche soltanto un giornalista modificherà il suo modo di scrivere, sarà già un grande risultato – conclude Esra Aygın – il cambiamento nella società si può ottenere solo assumendosi dei rischi”.
Per saperne di più
Che cosa è il discorso di odio? E come contrastarlo, a livello nazionale ed europeo? Sul Resource Centre on Media Freedom uno special dossier (disponibile anche in italiano ) approfondisce la problematica.
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