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Cinema: da Sarajevo a Locarno

Nelle ultime settimane si sono chiuse due importanti vetrine per il cinema dell’est Europa, Locarno e Sarajevo. Le novità emerse ed i premi assegnati

28/08/2019, Nicola Falcinella -

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Un film bosniaco, “Take Me Somewhere Nice” di Ena Sendijarević, ha vinto l’Heart of Sarajevo del 25° Sarajevo Film Festival che si è svolto nei giorni scorsi. È la storia dell’adolescente Alma, cresciuta in Olanda con la madre, che parte verso la Bosnia alla ricerca di un padre che non ha mai conosciuto, per un viaggio alla scoperta di sé e delle proprie origini.

La giuria presieduta dal regista svedese Ruben Östlund (“Forza maggiore” e “The Square”) e composta anche dall’attrice serba Jovana Stojiljković e dalla regista macedone Teona Strugar Mitevska, ha premiato quattro dei nove lungometraggi in gara. Il riconoscimento per il miglior regista è andato al turco Emin Alper per “A Tale Of Three Sisters – Kiz zardeşler”, già passato al Festival di Berlino. Il premio di migliore attrice è andato a Irini Jambonas per il bulgaro “Rounds – V krag”, mentre per il miglior attore a Levan Gelbakhiani per il georgiano “And the We Danced”. Il premio del sito Cineuropa è stato assegnato a “Rounds” e la giuria Cicae ha premiato di nuovo Alper.

Tra i cortometraggi, vittoria per “The Last Image of Father – Poslednja slika o ocu” di Stefan Đorđević, coproduzione Serbia, Croazia e Grecia, e menzione speciale al romeno “The Last Trip to the Seaside – Ultimul drul spre mare” di Adi Voicu, mentre tra gli studenti è stato premiato il serbo “Šerbet” di Nikola Stojanović.

Il Cuore di Sarajevo per il miglior documentario è stato assegnato a “When The Persimmons Grew – Xurmalar yetişən vaxt” di Hilal Baydarov, coproduzione Azerbaijan/Austria. Premio speciale della giuria documentari a “Stack of Material – Gomila materijala” della bosniaca Sajra Subašić e premio Diritti umani all’ungherese “The Euphoria of Being” di Réka Szabó.

Ben quattro degli Heart of Sarajevo onorari consegnati ad altrettanti ospiti: i registi Alejandro González Iñárritu e Paweł Pawlikowski, l’attrice Isabelle Huppert e l’attore Tim Roth.

I premi del pubblico, tutti assegnati con medie voto molto alte, sono andati per un lungometraggio al francese “La belle epoque” di Nicolas Bedos, per un documentario al macedone “Honeyland” di Ljubomir Stefanov e Tamara Kotevska e per le serie tv al serbo “Black Sun”.

Molto importanti anche i premi ai progetti in preparazione, assegnati al termine del mercato di coproduzione Cinelink, che ha come sempre richiamato centinaia di addetti ai lavori per trattare i film in corso di realizzazione. Tra questi “Forever Hold Your Peace” del montenegrino Ivan Marinović, “The Happiest Man in the World (Lessons in Love)” della macedone Teona Strugar Mitevska, “Third Kind” del greco Yorgos Zois, “Mingno” della georgiana Sofia Georgovassili.

Locarno Film Festival

Si è svolto nelle ultime settimane anche il 72° Locarno Film Festival, nel quale il serbo-romeno “Ivana cea groaznica – Ivana the Terrible” di Ivana Mladenovic ha ricevuto il premio speciale della giuria nella sezione Cineasti del presente. La regista, serba di nascita e romena d’adozione, riprende lo stile del precedente “Soldatii. Poveste din Ferentari – Soldiers. Story from Ferentari” per un film del quale è anche protagonista. Ivana è un’attrice serba che lavora in Romania e torna a casa dai genitori a Kladovo, sul Danubio. Reduce da una delusione sentimentale, è in crisi e un po’ ipocondriaca, sente mille dolori e crede di avere dei mali, ma dalle analisi e le visite non risulta niente. Mentre frequenta di nascosto un tipo molto più giovane di lei, litiga spesso con l’anziana nonna che vive in famiglia. Intanto l’amministrazione locale le vuole consegnare le chiavi della città durante un festival che celebra l’amicizia con la Romania. È proprio su questo legame “storico” tra Serbia e Romania che la regista in una parte del film ironizza, mettendo in ridicolo le autorità e i politici con vogliono riscrivere la storia e hanno poca memoria.

Nel film c’è anche il discorso del ritorno a casa e del confronto con le aspettative degli altri, con l’obbligo sociale di farsi una famiglia e l’idea che i figli e risolvano i problemi esistenziali.

Senza premi è rimasto il bulgaro “The Cat in the Wall” di Mina Mileva e Vesela Kazakova, che era nei concorsi lungometraggi sia a Locarno sia a Sarajevo. E’ la storia di Irina, architetto che si guadagna da vivere come cameriera, che vive con il fratello Vlado e il figlio Jojo nella periferia di Londra. Un film nervoso, tutto camera a mano, che cerca di rimettere in scena una vicenda realmente accaduta che torna allo spettatore come una successione di piccoli fatti, una serie di stati d’animo più che una storia. Mileva e Kazakova mostrano le difficoltà di vivere da stranieri in un paese, quando il poco che si è raggiunto sembra messo continuamente in discussione e si sono dovuti accantonare i veri sogni.

Il quartiere dove vive Irina è un quartiere complicato, dove le cose funzionano male e tutti lasciano sporchi l’ascensore e le scale. Il nervosismo scatena una guerra tra poveri, fatta anche di insulti razzisti. E un litigio scoppia anche per colpa del gatto del titolo: i protagonisti si sentono un gatto trovato solo, che si nasconderà in un buco nel muro mentre i vicini si infuriano. Si sente il peso dell’origine bulgara in tempi di Brexit e si parla di gentrification, con la ristrutturazione del condominio che rende più difficili le condizioni di chi ci vive. E ancora l”eredità del comunismo: Irina ne parla prima con i due ragazzi che vendono giornale un comunista per strada, poi ricorda il nonno cui i comunisti distrussero la casa, perché “un comunista non può vivere in una bella casa”.

Molti apprezzamenti ma nessun premio per lo sloveno “Oroslan” di Matjaž Ivanišin, che parte da un racconto di Zdravko Duša per provare a esplorare i limiti tra la finzione e il documentario. Si tratterebbe del primo film di finzione del regista di “Playing Men” e “Karpopotnik”, tra i più interessanti della scena del suo paese, se non fosse che intorno e dietro alla morte di un uomo (che non si vede mai) entra la realtà dei villaggi. Siamo nel nordest della Slovenia, abitata da una minoranza di lingua ungherese. Le case disseminate tra le basse colline sono raggiunte da personale che distribuisce cibo agli anziani. Oroslan non risponde alle chiamate di chi bussa. Più tardi una bara è portata fuori da una casa. In auto un ex calciatore ripercorre i tempi dell’agonismo, finché al bar il fratello del defunto racconta degli episodi sulla vita del fratello, macellaio che andava a domicilio dagli allevatori. E arrivano i ricordi di altre persone a ricomporre un po’ la figura del morto. Ivanišin fa un film che lascia dei buchi, dei vuoti, fa dei salti tra i tre capitoli su cui è strutturato, ha forse bisogno di qualche spiegazione. È un lavoro che vuole essere teorico e ha un suo fascino, una sua energia, punteggiato da dissolvenze a nero.

Pardo d’oro tra i cortometraggi al turco “Siyah gunes – Black Sun” di Arda Ciltepe, affascinante ed ermetico lavoro sul ritorno a casa, la memoria e l’elaborazione del lutto.

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