Tipologia: Reportage

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Area: Grecia

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Chios, la scuola dei bambini rifugiati

Volontari e Ong hanno dato vita a Chios alla "Refugee Education Chios", che ha riportato i bambini rifugiati sui banchi di scuola. Terza e ultima parte del reportage del nostro inviato

09/08/2016, Dimitri Bettoni - Chios

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La “Refugee School Chios” è stata aperta nel maggio scorso all’interno di un edificio che ospitava, fino a poco tempo prima, un ristorante. A dar man forte ci sono i volontari di una ONG svizzera, la “Be aware and share”, e l’energia di Nicholas Millet, la cui storia pare tratta da un film: quello di un consulente finanziario della City londinese che molla carriera e sicurezza finanziaria per, usando le sue parole, “stare dalla parte giusta della storia”.

Il 40% dei quasi tremila rifugiati di Chios sono minori in età scolare e nessuno di loro, fino poco tempo fa, poteva andare a scuola. I più giovani alunni hanno appena sei anni e questo significa che molti di loro non avevano mai avuto un’esperienza scolastica in vita loro, prima di varcare il piccolo cancello che conduce nel cortile della struttura.

A partire dal 23 maggio, oltre 120 bambini tra i sei ed i diciotto anni hanno potuto sedersi in una classe e, con l’aiuto di otto insegnanti, cominciare ad imparare.

La scuola, che si basa unicamente sui fondi della ONG e sull’aiuto volontario degli abitanti dell’isola, che spesso fermano i volontari per chiedere di cosa abbiano bisogno, portare cibo e donare libri per riempire la biblioteca che la scuola sta cercando di mettere a disposizione.

Con l’aiuto di insegnanti siriani si tengono corsi di arabo, inglese e persiano, matematica e arte, giardinaggio e anche cura dell’igiene personale.

Un progetto di successo

La scuola in verità parte già in strada, quando gli insegnanti vanno a prendere i bambini ai campi di Souda e Dipethe. Lungo il breve tratto per arrivare a scuola, i bambini salutano passanti e negozianti urlando “kalimera!”, buongiorno in greco, ricambiati con altrettanta gentilezza dalle persone che incrociano. Un modo per mettere in contatto gli alunni con la gente del posto, oltre che per avere l’occasione di insegnare il buon comportamento per strada, anche solo attraversare sulle strisce pedonali.

La scuola, che ha poi cambiato nome in “Refugee Education Chios”, è riuscita ad espandersi enormemente in sole nove settimane. Sono ora 240 i ragazzi coinvolti, compresi alcuni provenienti dal centro di registrazione di Vial, che si trova a diversi chilometri dal centro cittadino, grazie allo scuolabus ora a disposizione del progetto.

Alla scuola si è poi aggiunto un centro di aggregazione giovanile, aperto lo scorso 17 luglio e che conta già sulla partecipazione di 70 ragazzi in attività che vanno dallo sport alla cucina collettiva, con gruppi che di volta in volta si occupano, sotto la guida degli insegnanti, di fare la spesa e preparare il pasto per tutti.

Sogni

Al “Refugee Education Chios” non esiste una vera alternativa, ed era desolante, ci racconta Millet, vedere i ragazzini gironzolare per i campi e per le strade tutto il giorno senza nulla da fare. Questo non è solo un luogo che assicura loro uno spazio sicuro e accesso all’educazione, ma anche un posto che li aiuta a prendere coscienza dei loro diritti di minori.

Millet ci racconta ad esempio del progetto “Chi sono io?”, durante il quale gli studenti hanno dialogato tra loro, discutendo dei loro trascorsi e dei sogni per il futuro. “Quello che abbiamo subito notato è l’enorme differenza che c’è tra questi loro sogni e i nostri”.

Le cose sembrano davvero cambiate da quando questa iniziativa è stata lanciata. I genitori dei ragazzi raccontano che i bambini si svegliano prestissimo, entusiasti di cominciare la giornata, costringendo loro e gli stessi insegnanti ad una levataccia prima del tempo. Poi, quando tornano dalla famiglia, insegnano agli stessi genitori quello che durante il giorno hanno imparato.

Gli insegnanti che lavorano con il “Refugee Education Chios” sono a loro volta rifugiati dell’isola, facevano questo lavoro in Siria e negli altri paesi d’origine e sono felici di poter tornare alla loro occupazione, un modo per ritrovare dignità in un contesto che te ne lascia ben poca, e avere la percezione che la vita non si è del tutto bloccata, ma continua.

Mohammed ad esempio è originario di Damasco e per dieci anni ha lavorato in una scuola nella capitale siriana, prima di essere costretto dalla guerra ad abbandonare tutto. Si dice molto felice di quanto il “Refugee Education Chios” e lui stesso stanno realizzando. I bambini gli dicono di non aver bisogno di vacanza, perché vanno a scuola tutti i giorni.

Basso profilo

Non tutto è stato semplice, naturalmente. Millet ci racconta come, a pochi giorni dall’inaugurazione e dopo aver affisso all’esterno il cartello che annunciava l’apertura della scuola, alcuni sconosciuti si sono presentati chiedendo spiegazioni su quanto stava accadendo. “Abbiamo preferito rimuovere il cartello e cominciare con un profilo più basso”, spiega, perché vincere la diffidenza della gente del posto era un passo necessario perché l’iniziativa potesse avere successo.

I bambini sperimentano sulla propria pelle, e a modo loro, tutte le difficoltà della vita di rifugiato sull’isola, compresi quei momenti di tensione di cui abbiamo già parlato. Hanno ad esempio imparato le canzoni e gli slogan di protesta che gli adulti hanno usato nei periodi più tesi della loro permanenza, come quando il porto è stato occupato. Ma i bambini, dice Millet, dovrebbero restare quello che sono: bambini.

Nonostante i grandi traguardi, il “Refugee Education Chios” non riesce ancora ad abbracciare tutti i bambini rifugiati presenti sull’isola. Il lavoro è ancora lungo e servirà molto impegno e, magari, una diversa attenzione da parte delle istituzioni per un’iniziativa che resta ancora a livello informale e, per questo, vulnerabile.

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