Chios: il campo rifugiati di Souda
Racconti, speranze, disillusione nel campo profughi di Souda. Seconda parte di un reportage OBC in tre puntate dedicato ai rifugiati sull’isola greca di Chios
Souda è la maggiore delle due aree di accoglienza nel cuore della piccola cittadina di Chios, sull’omonima isola greca. La si trova al termine di una breve discesa asfaltata, incuneata nello spazio tra le mura dell’antico castello medievale che il tempo e le erbacce stanno lentamente sgretolando e una fila di case ben più moderne, cementizie, appollaiate una decina di metri più in alto, quasi a voler emergere sopra la fila serrata di tende bianche ed impolverate che l’UNHCR ha eretto per dare rifugio al migliaio di migranti qui ospitati.
L’ingresso è presidiato da una minuscola guardiola rabberciata, che alcuni bambini del campo hanno convertito nel loro parco giochi privato. Altri bambini li troveremo dall’altro lato del campo, quando comincia la spiaggia e si apre il mare azzurro nel quale sguazzano. In mezzo, una tenda dopo l’altra: più grandi e solide quelle sulla sinistra del vialetto che attraversa tutta l’area, improvvisate alla meglio con teli e bastoni quelle sulla destra. Ovunque i colori dei panni stesi al sole cocente, che costringe buona parte delle persone a trovare ristoro all’ombra.
A prima vista, Souda è molto diverso dai campi che ho visto in Turchia, se non altro perché non ci sono alte recinzioni e filo spinato a racchiuderlo, né guardie armate a presidiarlo, anzi tutti possono entrare ed uscire senza affanno, ma è l’isola stessa ad avere i caratteri della segregazione, ad alimentare e contemporaneamente stroncare l’illusione di libertà. Passo dopo passo, le condizioni del campo mi sembrano peggiori dei campi turchi che ho avuto modo di vedere: si percepisce l’abbandono, l’assenza di energia e di cura verso un posto da cui sarebbero dovuti solo transitare ed è invece diventato il luogo dove l’attesa interminabile sfibra il corpo e annebbia la mente; dove aleggia una malsana atmosfera di abulia e si galleggia nella densa calura estiva che il vento bollente non può mitigare.
I rifugiati di Souda
I rifugiati a Souda arrivano per lo più dalla Siria e dall’Iraq, ma incontriamo anche alcuni giovani dal Pakistan tra i quali Ali, un ragazzo di 17 anni arrivato qui ad inizio aprile dopo aver viaggiato per cinquanta giorni, fuggito dalle violenze settarie che hanno coinvolto la sua famiglia, originaria del Punjab. Un viaggio lungo e difficile, racconta, durante il quale ha perso un amico partito con lui e al quale hanno sparato sul confine tra Iran e Turchia. Vorrebbe andare in Italia, dove avrebbe un cugino ad attenderlo, ma deve restare qui al campo perché la sua domanda d’asilo in Europa, presentata pochi giorni dopo l’arrivo sull’isola, non ha ancora avuto risposta. Aspettare è l’unica cosa che può fare, nient’altro che aspettare.
Jong invece arriva dalla Nigeria, dalla quale è fuggito perché, dice, minacciato di morte. È arrivato sull’isola sei settimane prima, come tutti anche lui è passato attraverso la necessaria registrazione al centro di Vial, ed ora attende una risposta che però, ne è convinto, non arriverà, “perché chi ha il potere di decidere della mia sorte non vuole. Chi potrebbe rilasciare i documenti e restituirmi alla mia libertà e al mio viaggio non intende farlo. Ma non ha alcun senso trattenermi qui ad oltranza, tutto questo campo non ha senso. Dormi, ti svegli, ti danno un po’ di cibo scadente, lavarsi è un’impresa perché l’acqua è sempre poca; fai una passeggiata, ti siedi da qualche parte, la gente del posto in genere ti ignora, ti fa sentire invisibile; poi riprendi a dormire, nient’altro. I bambini gironzolano tutto il giorno senza fare nulla, l’inerzia e l’apatia impigriscono gli uomini. Tutto questo non va bene, non ci fa bene”.
Nel suo tono di voce si mescolano rabbia e rassegnazione. “Avevo un passaporto, dei soldi che avevo portato con me dalla Nigeria. Ma in Turchia, ad Istanbul, sono stato fermato da alcune persone che si sono presentate con un tesserino della polizia, mi hanno convinto a salire su un’auto e mi hanno rapinato. Ho anche trascorso cinque giorni in carcere in Turchia, dopo il mio primo tentativo di raggiungere quest’isola. Ce l’ho fatta al secondo”.
Se è difficile trovar conferma dei dettagli di queste storie, l’atmosfera al tempo stesso tesa e apatica che si respira tra queste persone è tangibile e reale, così come lo sono i campanelli d’allarme che suonano di tanto in tanto, quando la misura della sopportazione è colma; come pochi giorni fa, quando un gruppo di rifugiati ha dato fuoco ad alcune tende per protestare contro il procrastinarsi di una situazione insostenibile.
Le autorità locali
Secondo Dimitris Karalis, vice sindaco con delega allo sviluppo economico di Chios, il comune ha ben poco spazio di manovra per gestire la situazione. Le difficoltà finanziarie in cui versa la Grecia da diversi anni impongono alle amministrazioni budget molto limitati e pochi trasferimenti dal governo centrale: “Di fatto, dipendiamo soprattutto dalla nostra cooperazione con l’UNHCR e con alcune Ong che operano sul nostro territorio. Dall’inizio di questi eventi nell’agosto 2015, il compito più arduo per noi è stato trovare il giusto equilibrio tra i bisogni dei rifugiati e quelli dei locali”.
Il vice sindaco di Chios racconta che in principio la gente aveva reagito molto positivamente all’emergenza e aveva accettato di buon grado la nuova situazione. A partire da fine marzo, ovvero dal momento in cui è entrato in vigore l’accordo tra Unione Europea e Turchia per la gestione del flusso migratorio, la situazione sull’isola è invece nettamente cambiata. Le incertezze e i dubbi sul futuro stanno ora esacerbando gli animi, la gente è più preoccupata e anche i casi di tensione stanno aumentando.
L’occupazione del porto ad inizio aprile, quando si sono toccati con mano i primi effetti dell’accordo UE-Turchia, è stato forse il momento più difficile. Il centro di registrazione di Vial, non attrezzato per svolgere i nuovi compiti previsti dal piano, ha avuto un’impennata di presenze, arrivando ad ospitare quasi 2000 persone contro le 1100 previste; non tanto per i nuovi arrivi, quanto per l’impossibilità delle partenze. I migranti, ritrovatisi improvvisamente bloccati sull’isola e senza risposte alle loro domande, hanno abbandonato il centro e occupato per una settimana il porto in segno di protesta per quanto stava accadendo.
“Il primo e più evidente risultato del piano” dice Karalis “è stato sicuramente il ridotto numero di sbarchi a cui abbiamo assistito da aprile ad oggi. Rispetto ai mesi precedenti, il flusso si è enormemente ridotto".
D’altra parte, sono anche cambiate le esigenze dei rifugiati che sono sull’isola. Le strutture che erano state allestite in precedenza funzionavano relativamente bene perché le persone arrivavano sull’isola e ne ripartivano due o tre giorni dopo”. L’isola assisteva quindi ad un flusso scorrevole di persone che sfiorava appena la realtà locale. Che queste strutture fossero nel cuore cittadino, vicino al porto, era perfettamente funzionale. “L’accordo invece ha cambiato tutto. Ora queste persone sono qui da diversi mesi, resteranno per non si sa quanto e sia le strutture che abbiamo sia la loro locazione non sono adatte a questo nuovo tipo di esigenza”.
Tanto che, ammette, per il comune tutto è ancora enormemente confuso e si vive quasi alla giornata: nonostante l’accordo tra Unione e Turchia sia in vigore da diverse settimane, non è ancora chiaro quale sarà il reale impatto sul medio e lungo termine, il che impedisce di realizzare una programmazione efficace: “Si lavora, quando va bene, su un arco temporale di tre massimo quattro mesi, dopodiché nessuno sa cosa riservi davvero il futuro”. Anzi, Karalis si dice “ben poco ottimista sul destino del piano, che ha raggiunto il suo scopo nel breve termine, ovvero fermare il flusso migratorio, ma non ha nessuna valenza sul lungo periodo e non risolve in alcun modo i problemi alla radice della questione migratoria”.
Ricadute su economia e politica
L’impatto della questione migratoria sulla vita isolana non riguarda solo arrivi e partenze. L’economia locale, che pur non dipende troppo dal turismo rispetto ad altre isole come Lesvos o Samos, ha visto un calo del numero di prenotazioni nelle strutture turistiche del 50%. “Il comune aveva in programma un piano di sviluppo del settore che abbiamo dovuto per il momento accantonare”.
Sarebbe da capire se la situazione andrà anche a toccare lo scenario politico locale. Il vice sindaco crede che “in prospettiva sì. Alba Dorata, ad esempio, non ha ottenuto rappresentanti nel consiglio comunale, ma posso prevedere che i consensi aumenteranno in futuro, oltre il 5% raccolto nel corso delle ultime amministrative”.
I rapporti con la vicina Turchia sono invece inesistenti. Nonostante la crisi coinvolga entrambe le coste di questo stretto di mare, “come amministrazione comunale non abbiamo alcun tipo di cooperazione con le autorità turche”, nonostante i pochi chilometri di acque che separano l’isola dalla costa turca. “Ogni relazione con la Turchia è responsabilità esclusiva del ministero degli Affari Esteri, non è né nostra responsabilità né nostro diritto intraprendere iniziative di alcun genere”.
Nel frattempo, l’unico intervento che il comune pare intenzionato a mettere in campo è la realizzazione di un nuovo spazio di accoglienza: “Stiamo pianificando una nuova area, a circa tre chilometri dal centro cittadino, per la quale stiamo completando i rilievi ambientali e urbanistici”.
Ma a parte quest’area, il comune non ha avviato altri progetti che possano agevolare la permanenza dei rifugiati o la coesistenza tra questi e la popolazione locale. Nessun progetto educativo per i bambini rifugiati ad esempio, neppure in collaborazione con le scuole già attive sul territorio, perché, insiste Karalis, solo “se sai con certezza che un certo numero di bambini resteranno qui per i prossimi cinque anni, allora puoi approntare un piano di educazione”.
Eppure, come avevamo avuto modo di scoprire il pomeriggio precedente, c’è qualcuno che non si rassegna all’ineluttabilità della mancata pianificazione e dal nulla è riuscito ad avviare una scuola per i bambini dei campi rifugiati di Chios: la Refugee School Chios.
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