Chiara Rango risponde a Diego Zandel
Chiara Rango, autrice del romanzo "Nel limbo sospesi" edito da Besa Muci, replica ad una recensione che Diego Zandel ha fatto del suo libro
La recensione che Diego Zandel ha fatto al mio romanzo, tralasciando gli aspetti positivi che pur contiene, mi spinge ad alcune riflessioni. Se dovessi ridurre gli eventi narrati nel mio libro ad una frase, questa sarebbe (o dovrebbe essere) condensata nel titolo “Sospesi nel limbo”. Eppure, leggendo la recensione, non si capisce che rapporto esista tra i personaggi e la condizione di sospensione evocata. Si insiste invece sulla vicenda della protagonista femminile, Libera, cresciuta negli agi di un paese capitalista, inconsapevole del proprio privilegio (non detto, ma sottinteso) che s’innamora di un paese, la Jugoslavia, che presto diventerà ex, a causa di una “guerra fratricida”. Tutto il libro, secondo Zandel, è pervaso da una sorta di jugonostalgia, anzi di più, da una “pedagogia ideologica” che inquina il testo.
Tornando al titolo, il motivo che mi spinse ormai molti anni fa ad intraprendere questa avventura, fu il desiderio (ambizioso) di cercare una chiave di lettura per affrontare le tragedie del Novecento, nei Balcani Occidentali. È una storia che riguarda da vicino noi italiani per gli esiti che ebbe la seconda guerra mondiale nei territori del confine orientale; ed è storia altrettanto vicina, per la prossimità con l’altra sponda dell’Adriatico, la dissoluzione della Jugoslavia come entità politica, conseguenza delle guerre degli anni Novanta.
Il libro ha due voci narranti, Libera, che è nata nel 1968 nella provincia veneta, e grazie agli studi di slavistica incontrerà la Jugoslavia pre e post dissoluzione. La seconda voce è quella di Virgilio che ha il ruolo di raccontare la storia di Elio. Entrambi sono nati a Pirano alla fine degli anni Venti, ma al termine del conflitto sceglieranno strade diverse. Virgilio resterà, mentre Elio diventerà un esule in Italia. Di questa seconda storia, non c’è quasi traccia nella recensione.
Il mio intento era raccontare, attraverso le storie piccole, cosa succede quando i destini personali vengono stravolti da eventi traumatici. Ho provato a dare voce alle persone (quasi sempre vittime incolpevoli) che parlano attraverso il filtro del loro vissuto. Non mi stupisce quindi la rabbia di Virgilio nei confronti di un socialismo al quale aveva creduto e che si rivela crudele (sanguinario, pure) nei confronti della minoranza italiana. E non mi stupisce neppure che negli esuli jugoslavi, dispersi per il mondo, persista la nostalgia di un paese perduto, trasfigurato in un luogo dell’immaginazione dove le contraddizioni appaiono sfumate.
Mi rendo conto che tenere insieme due storie così diverse sia un processo scivoloso, eppure non esiste una radice comune al senso di perdita? La vita precaria dei funamboli alla ricerca di un equilibrio, forse impossibile, non rende più simili i dolori?
Affrontare lo spazio plurale dei Balcani significa addentrarsi in terreni carichi d’insidie. Sono aree di compenetrazione di storie, culture, lingue religioni diverse che spesso si sono scontrate, ma in alcuni contesti, soprattutto urbani, sono state oasi di straordinaria convivenza. Il conflitto non va eluso, ma affrontato nella sua complessità. Il rischio invece, soprattutto per chi arriva da luoghi più “omogenei”, è di interpretare quel mondo attraverso una lente semplificante.
Chi è il colpevole e chi la vittima? Io non ho gli strumenti per un giudizio definitivo, cerco di ascoltare e raccontare le voci, rischiando ad ogni pagina di tradire qualcuno. La narrazione è sempre tradimento e questo lo hanno detto altri assai più bravi e più saggi di me. Certo è che l’identità di frontiera non può essere delimitata come si tracciano i confini sulla terra. Lo insegna bene la cristallina scrittura di Marisa Madieri, italiana esule e nello stesso momento connaturata a quel mondo slavo che ha portato la sua famiglia ad abbandonare Fiume.
Libera è una traduttrice di una lingua che sta morendo.
Izet cerca una lingua che evochi la perdita e forse nella poesia trova uno spazio aperto, un luogo interiore dove è ancora possibile abitare.
Elio non distoglie lo sguardo dal mare perché il mare è lo specchio che riflette il molteplice.
Voci, nient’altro.
Post scriptum.
Rispondo ad una delle domande di Diego Zandel: Orsera è Insula per un puro caso, perché ognuno può trovare da qualche parte la sua isola/insula di salvezza.
Castromonte è un nome inventato, perché quasi tutti scappano da un luogo, che non è mai un luogo geografico definito.
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