Chiamatemi Esteban
“La storia è quella di Lejla, una ragazza di Sarajevo figlia di un matrimonio misto, incarnazione della società jugoslava”. Una recensione di “Chiamatemi Esteban” di Lejla Kalamujić, un’autrice con la capacità di raccontare sentimenti ed emozioni che tutti noi viviamo senza mai rincorrere a stereotipi
Anni fa, in un videoreportage sulle guerre jugoslave intervistavano una madre che una volta a settimana andava sulla tomba del figlio, si accendeva una sigaretta e la piantava con il filtro nella terra. Così – raccontava – anche da lì sotto mio figlio può continuare a fumare. Ho trovato la stessa scena descritta nel libro autobiografico “Chiamatemi Esteban” di Lejla Kalamujić (Nutrimenti Edizioni , 2022; traduzione di Elvira Mujčić): “Dalla tasca prendo il pacchetto di sigarette Drina e l’accendino. Ne accendo una, faccio due tiri perché si accenda bene e poi la infilo nella terra”, lì sotto è sepolta sua madre, scomparsa quando Lejla aveva solo due anni.
Sulla tomba, che periodicamente vanno a pulire, il nonno di Lejla piange spesso, “le grandi lacrime del nonno cadono sul marmo bianco. Si frantumano e le piccole gocce svaniscono lungo l’angolo della lastra della tomba”.
Strutturato per capitoli che possono anche essere letti come piccoli racconti a sé stanti, la grandezza di questo libro è proprio questa, nel non avere una forma definita, nell’essere inclassificabile e slegato dal corso lineare del tempo. La storia è quella di Lejla, una ragazza di Sarajevo figlia di un matrimonio misto, incarnazione della società jugoslava: “Io, tesoro, appartengo all’estate. È lì che sono nata. E sempre lì è morta mia madre. In quell’estate di vita e di morte eravamo insieme […] Una casa, in due luoghi diversi, in due differenti quartieri, mangiavamo la pita di nonna Safeta e la sarma di nonna Brana, i nonni bevevano la birra e la rakija. I nostri inquilini erano Dio e Tito”.
Lejla viene cresciuta dai nonni paterni mentre il padre passa le nottate a bere in una kafana. Con i nonni ha vissuto prima dopo e durante l’assedio, con troppo dolore, troppe morti, troppo di tutto. Il tempo presente invece è quello di una relazione felice con una ragazza nella Sarajevo odierna. Il racconto personale e della storia famigliare diventa così il pretesto per raccontare la società jugoslava e l’attuale società bosniaca.
Poco prima dell’inizio dell’assedio Ranko, loro vicino di casa nel quartiere di Gbravica, le regala un gufo imbalsamato che lei chiama Cielo. Poco dopo, la scena successiva, è Lejla che apre la porta della camera e a voce alta chiede ai nonni: “Perché non avete imbalsamato la mamma quando è morta? Avremmo potuto sistemarla qui oppure in camera da letto. Ranko avrebbe potuto farle passare il filo attraverso le ossa, riempirla di paglia ed erba, poi ricucirla".
La descrizione dell’assedio può essere racchiusa in queste frasi: “Le ore passano. I miei occhi sono conficcati nel cielo. Nelle altitudini dove vivono coloro che non ci sono più”. Poi il vento, che è gelido e “freme tra le verande vuote come attraverso le ossa bucate”.
Raccontare qualcosa senza raccontarlo, senza spettacolarizzarlo e senza nominarlo, sta qui la grandezza di Lejla Kalamujić. Una sorta di Salgari al contrario, perché quello che ha vissuto è stato talmente dirompente da non riuscire più a restituirlo direttamente, ma solo per via laterali.
La prosa poetica (e politica) della Kalamujić avvolge il lettore, lo porta dove decide lei, dentro e fuori la propria intimità, nella propria storia famigliare, nei reparti psichiatrici dov’è stata ricoverata e nei ricordi d’infanzia.
In questi ultimi riemerge il divertente ricordo legato al luogo in cui da bambina era solita giocare, nei pressi di una caserma in ulica Jajačka. Non era però una caserma qualsiasi, bensì quella in cui si girò nel 1972 il film partigiano Valter Brani Sarajevo. Giornalmente quest’ultimo veniva rigirato un numero infinito di volte nelle fantasie di Lejla e della sua combriccola, contendendosi tra loro la battuta iconica del film (Das Ist Walter). Accade però che un giorno, vedendo i militari della caserma marciare con elmetti e fucili, i bambini allarmano i genitori informandoli che erano arrivati i tedeschi in città, sostenendo che “in tutti i film dei partigiani i tedeschi indossano gli elmi, mentre i nostri hanno solo dei berretti”, cortocircuitando in questo modo la fantasia cinematografica con la realtà di una banale esercitazione.
La situazione contemporanea della regione viene invece narrata nel capitolo dedicato al racconto del viaggio in treno compiuto a Šid, in Serbia. Come molte famiglie, anche quella della Kalamujić si è divisa dopo la guerra, sparpagliandosi nelle ex repubbliche jugoslave o in diaspora all’estero. Il viaggio in treno da Sarajevo a Šid è il pretesto per raccontare il quotidiano che tutte le persone dell’area vivono a seguito di scellerate scelte politiche. Infatti il treno della tratta Sarajevo-Belgrado cambia quattro locomotive, una per ogni stato o entità che attraversa: Federacija Bosne i Hercegovine, Republika Srpska, Croazia, Serbia, così come i quattro controllori. “Nonno amava Tito praticamente quanto amava noi. […] meglio che non sia qui. Non è fatto per questo mondo e per questi viaggi. Per le locomotive che non possono uscire dai propri confini”.
L’aspetto più intimo della narrazione è affidato alla relazione tra la protagonista e la propria fidanzata, resa problematica non tanto dal contesto sociale in cui è inserita quanto dal passato da paziente psichiatrica della Kalamujić. Nella sua vita tutto ha lasciato traccia e dopo l’assedio viene ricoverata in clinica, “ ‘Dottoressa, lei sai com’ero… Mi sono disintegrata davanti ai suoi occhi… E adesso…’ Mi ha interrotto: ‘E adesso siamo in una situazione di remissione stabile, o no?’ ‘Sì già da un anno’. ‘E questa ragazza che dice?’ Non riuscivo a non sorridere: ‘Lei… lei osserva tutto con quei suoi occhioni blu, come se nulla fosse importante. Dice che non le crea problemi, che possiamo affrontarlo’. ‘Allora qual è il problema?’, ‘Vede… mi chiedo se è giusto trascinarla in questo. Cioè in questa cosa che è rimasta di me. E se mi spezzassi di nuovo? Se l’urlo e il furore di nuovo…’ La dottoressa mi prese per il braccio, era il suo modo di interrompere l’assalto dei miei dubbi e delle mie paure. […] ‘Anche tu hai diritto all’amore’ ”. È in questi delicati racconti di intimità che nella narrazione esce preponderante la voce dell’autrice, ed è una voce popolare perché ha la grande capacità di raccontare sentimenti ed emozioni che tutti noi viviamo senza mai scadere nella banalità o rincorrere a stereotipi.
Momento ilare quando il padre ne accetta l’omosessualità: “Squilla il telefono. Il papà chiede come va la salute? Hai i medicinali? La conversazione inizia sempre così. Molte cose sono cambiate. Ho una ragazza. E lui l’ha capito, anche se io non gliel’ho mai detto. È contento di sentire che la salute va meglio e che ho i medicinali. Poi discretamente chiede, come sta lei. Che fa? Sta bene, rispondo. Lavora. Poi in silenzio respiriamo nei buchini sulle cornette di plastica e lui mi dice e come va la vostra cooperazione? E tutto il resto? Mi ci vuole qualche istante per dominare la risata. Mi schiarisco la gola e concludo, anche la cooperazione va bene”.
È sempre con un umorismo nero che si esce dalle situazioni più difficili della vita e ce lo sta insegnando questa nuova generazione di scrittori post jugoslavi, grazie alla loro capacità di farcela anche dopo aver vissuto svariati inferni, raccontando storie importanti senza dimenticare il gusto di poter ridire.
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