Censura turca
Oscurato per alcuni giorni in Turchia il sito YouTube. Secondo un tribunale di Istanbul offendeva Ataturk, padre della patria. Il dibattito sull’articolo 301 e il caso del serial televisivo "La valle dei lupi". La Turchia si interroga sulla libertà di espressione
Libertà di pensiero, censura, informazione libera, non passa giorno in Turchia senza che si presentino nuove occasioni per riportare alla ribalta queste tematiche. Che si tratti del famigerato articolo 301, della censura al sito di YouTube o dei documenti riservati delle forze armate sulla stampa del paese, la cronaca propone continuamente spunti per rilanciare l’immagine di un paese in cui l’approccio autoritario continua ad essere uguale a sè stesso. Per chi volesse trovare conferme in questa direzione l’impresa sarebbe tutto sommato abbastanza agevole. Per tutti vale il caso del 301, perché ormai questo articolo del codice penale che punisce "il vilipendio alla turchità" è diventato così popolare che per farvi riferimento è sufficiente chiamarlo così, il 301. Dal governo, dal primo ministro Erdoğan e dai suoi collaboratori arrivano garanzie che l’articolo sarà riformato anche se poi si precisa che: "Sì, esistono degli ostacoli di ordine burocratico", ed in fondo nemmeno le associazioni della società civile chiamate a formulare una proposta alternativa sono arrivate ad un accordo soddisfacente. Nel frattempo il ministro della giustizia Çiçek, che trova su questo tema l’insperato sostegno anche del leader dell’opposizione Baykal, continua a ribadire che articoli analoghi esisterebbero in molti codici penali europei.
A cercare di aiutare chi nel paese cerca di dimostrare come le cose non stiano esattamente come le descrive il ministro è arrivata nei giorni scorsi anche una lettera di Joost Lagendijk, copresidente della commissione mista del parlamento europeo. Nella sua lettera Lagendijk ricorda alle autorità turche fondamentalmente due cose: che articoli che puniscono il vilipendio dello stato in molti paesi europei hanno lo scopo di proteggere nell’esercizio delle loro funzioni i rappresentanti delle istituzioni e non quello di mandare davanti ad un giudice scrittori e giornalisti. La seconda, per molti versi la più importante, è che in nessun codice penale europeo, nemmeno in quello italiano spesso citato ad esempio dal ministro, esiste un concetto tanto vago ed ambiguo come quello della turchità. Ma tant’è, il paese è ormai entrato da tempo nel clima della campagna elettorale, i venti del nazionalismo sono tornati a soffiare e le prospettive che il governo si assuma la responsabilità di riformare l’articolo in modo sostanziale non sembrano al momento molto realistiche.
Se su questo versante sembra difficile aspettarsi novità positive, vale la pena volgere lo sguardo ad altri due episodi che negli ultimi tempi hanno fatto discutere, magari per trovare qualcosa di nuovo.
Ad esempio il caso dell’oscuramento totale del sito YouTube deciso da un tribunale di Istanbul perché da giorni proponeva un video offensivo nei confronti di Kemal Ataturk, il padre della repubblica. Un provvedimento che ha immediatamente fatto il giro del mondo. La brutalità d’altri tempi di questa decisione ha avuto, come vuole una legge elementare della comunicazione, l’effetto di aumentare al di fuori della Turchia la curiosità ed il numero di visitatori del sito. Di fatto una ordinaria esibizione di idiozia telematica – turchi che mandano un video che accusa i greci di essere tradizionalmente omosessuali a cui risponde la controparte greca con gli insulti al padre della patria – trasformata in un caso internazionale.
Dopo alcuni giorni di oscuramento giovedì scorso il sito è tornato ad essere visitabile anche dalla Turchia. Decisiva, oltre al clamore internazionale, anche la mobilitazione nel paese, e questo nonostante in gioco ci fosse l’offesa al "padre dei turchi".
In particolare efficace l’iniziativa di un gruppo di studenti che per protestare contro la censura hanno aperto un sito alternativo al quale nello spazio di poche ore sono arrivate circa 26.000 mail di sostegno. Ed anche un celebre attore comico alla presentazione ufficiale della campagna pubblicitaria della Türk Telekom ha ironicamente invitato le autorità a mettere fine alla censura.
Il secondo episodio riguarda le pressioni esercitate dal Consiglio superiore per la radio e la televisione (RTÜK), l’organo di controllo delle trasmissioni radio-televisive, sul canale Show TV affinché cancellasse dai palinsesti la serie "La valle dei lupi – Terrorismo". Per capire di che cosa si tratta è meglio fare un passo indietro.
La serie precedente, "La valle dei lupi", ha rappresentato uno degli casi televisivi degli ultimi anni, capace di appassionare il paese ed anche di alimentare accesi dibattiti ed accanite polemiche. In breve, nella serie si ipotizza l’esistenza di un’organizzazione, il consiglio dei lupi, formato essenzialmente da uomini vicini agli Stati Uniti ed a Israele, che segretamente governa le sorti della Turchia. Un gruppo di valorosi patrioti però, capitanati da Polat Alemdar, viene infiltrato dai servizi segreti con lo scopo di annientare il consiglio. Si ritrovano una serie di topos che caratterizzano l’immaginario collettivo turco: la paranoia del complotto mondiale ai danni del paese, gli intrecci tra gli ambienti mafiosi – Alemdar è un uomo della mafia – e lo stato profondo che questi ambienti utilizza facendo leva sul loro senso patriottico, il nazionalismo richiamato dalla scelta del lupo, abbondanti dosi di anti-americanismo ed anche antisemitismo, la celebrazione della forza e della violenza legittimati dalla difesa della patria: "Il nostro obbiettivo non è una poltrona, l’unico nostro scopo è di dare anche l’ultimo respiro per la patria, la nostra parola è una promessa", spiega Alemdar ad uno dei suoi collaboratori.
Il successo travolgente della serie televisiva è stato doppiato lo scorso anno da una versione cinematografica "La valle dei lupi – Iraq" che ha portato milioni di spettatori nelle sale cinematografiche del paese. In questo caso i nostri eroi erano impegnati a vendicare un affronto subito dai soldati turchi ad opera degli americani nel corso della guerra in Iraq. Il riferimento è ad un episodio realmente accaduto all’inizio della guerra irachena quando i soldati USA arrestarono ed incappucciarono uomini delle forze speciali turche stanziati nel Nord Iraq. Un episodio che aveva scatenato i risentimenti nazionalisti del paese prontamente cavalcati dai produttori de "La valle dei lupi".
E dopo tanti successi Show TV ha deciso di puntare ancora sulla gallina dalle uova d’oro dei sentimenti nazionalisti per garantirsi la vittoria nella battaglia degli ascolti. Lo ha fatto scegliendo il tema del terrorismo, un eufemismo per indicare il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Nella nuova serie Alemdar ed i suoi bravi sarebbero stati impegnati nel tentativo di riportare dalla madre una ragazza che l’organizzazione ha costretto ad arruolarsi. Fin dall’apparizione dei primi trailer pubblicitari però si sono levate numerose voci di protesta. Questa volta non si tratta più di dare sfogo ai pruriti nazionalistici in un contesto puramente di fantasia, ma di mettere il dito su una delle ferite più dolorose e non rimarginate della società turca, la guerra civile tra il PKK e le forze di sicurezza che tra il 1984 ed il 1999 ha fatto, secondo le statistiche ufficiali, circa 32.000 vittime.
I precedenti lasciavano poco spazio all’immaginazione su come Alemdar ed i suoi avrebbero trattato il tema della guerra ed implicitamente la questione curda ad essa legata. Altra benzina sul fuoco che cova in una società in cui rigurgiti e tensioni nazionaliste si sono fatte da tempo sempre più palpabili. La reazione e lo sdegno di fronte all’iniziativa si sono materializzate in più di 16.000 telefonate e mail di protesta indirizzata al RTÜK. Il risultato è che il Consiglio ha persuaso Show TV, di fatto minacciando il ritiro della licenza per le trasmissioni, a ritirare la serie dal palinsesto.
Adesso è il momento delle critiche, delle accuse di autoritarismo rivolte al RTÜK – la cui riforma tra l’altro è da tempo invocata anche dalla UE; si moltiplicano le dispute intorno alla questione dell’influenza della televisione sugli spettatori, ma anche sui limiti di una concezione liberale pura che concepisce come unici limiti la presunta maturità degli imprenditori televisivi ed il diritto dello spettatore di "cambiare canale". Considerazioni e dubbi sacrosanti che però non riescono ad annullare la sensazione di sollievo che si prova di fronte ad un pericolo scampato. Ed anche l’impressione, e la speranza, che i termini del dibattito intorno a censura e libertà di espressione stiamo mutando, uscendo dal modello dello stato "questurino" di ottocentesca memoria che soffoca una società completamente passiva, per arricchirsi di nuove dimensioni ed attori, sintomi di una società che trasformandosi si fa più complessa.
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