Cecenia, scelte di vita
In Cecenia vi sono giovani che fanno rapidamente carriera e vivono nel benessere. Tessere le lodi di Putin e Kadyrov è una delle condizioni per riuscirci. Ma per tutti gli altri, la vita può essere molto difficile
Solo qualche anno fa, l’attuale gioventù cecena era tutta sulla stessa barca, o meglio nello stesso campo profughi. In senso letterale e figurato. Ammassati in tende e treni abbandonati nei campi profughi delle repubbliche confinanti con la Cecenia, i giovani erano uniti nelle simpatie e nell’odio. Appena adolescenti, pregavano per i ribelli ceceni e sognavano di crescere al più presto per unirsi alle milizie e vendicarsi dei russi. L’odio per la Russia li univa più di qualsiasi altra cosa.
Sono passati anni. Gli ex residenti dei campi profughi sono cresciuti e le loro strade si sono separate. Alcuni sono saltati sul carro delle nuove autorità filo-russe, inseguendo ricchezze favolose e incredibili carriere. Altri, come sognavano, sono entrati nelle milizie ribelli. Chi non ha voluto fare né l’una né l’altra cosa vive al margine della politica e della grande storia, cercando di sopravvivere e sfamare la propria famiglia. I campi dove insieme avevano odiato e amato sono stati demoliti da tempo.
Il "ceceno selvaggio"
Radjap Musaev è fra coloro che si sono abituati per tempo alle nuove autorità. Da adolescente, come decine di migliaia di profughi ceceni, viveva con la sua famiglia in Inguscezia. Di quei giorni rimane un’interessante video-intervista, rilasciata in un inglese stentato ad un giornalista straniero. Nel buio della tenda, con pochi poveri averi e i piatti di stagno donati da qualche organizzazione benefica, il piccolo Radjap racconta il suo sogno di diventare avvocato e difendere tutte le vittime della Russia. Sogna anche di citare in giudizio la Russia per quello che ha fatto al suo Paese.
Qualche anno dopo, Radjap è diventato uno dei più appassionati sostenitori della Russia. Nel suo blog, in cui si firma con il nome utente “ceceno selvaggio", parla di "mercenari stranieri" e denuncia gli Stati Uniti, che mirerebbero a indebolire la Russia per dominare il mondo incontrastati. Nelle appassionate invettive contro l’opposizione russa accusa la medesima di ricevere denaro dal Dipartimento di Stato americano nonché da tutta la NATO, che sognerebbe anch’essa il crollo della Russia. Questa propaganda, nel miglior stile delle agenzie di stampa sovietiche, sembra strana e incongrua in bocca allo stesso ragazzo, sebbene un po’ cresciuto, che da un buio e umido campo profughi sognava di far condannare la Russia per crimini contro l’umanità. Difficile immaginare come in pochi anni questo ragazzo abbia potuto fare carriera nell’organizzazione filo-russa Nashi, diventandone coordinatore capo in Cecenia. Divenuto beniamino delle autorità, è stato poi nominato capo di "Grozny Inform", principale agenzia di stampa cecena.
Ma non è tutto. Come si è scoperto un paio di mesi fa, Musaev ha avuto accesso a milioni di rubli destinati da Nashi alla lotta contro i dissidenti in rete. Il gruppo di hacker Anonymous è entrato nella posta elettronica del capo-ufficio stampa di Nashi e ne ha diffuso in rete il contenuto, compresa la corrispondenza con Musaev. Le somme stanziate da Mosca per fare trolling su Internet, nonché per creare falsi blog con il progetto "Blogger caucasici”, lasciano allibiti. Per ogni lettera scritta, per ogni minuto passato in rete, per ogni provocazione lanciata sui blog sgraditi alle autorità, Musaev e i suoi compagni ricevevano fior di quattrini. Musaev stesso, emerge dalla corrispondenza, riceveva 18 milioni di rubli l’anno: 2,4 per il suo stipendio e il resto per costruire un’immagine positiva della Russia nella blogosfera, ovvero per attirare sempre più giovani nella rete dei "blogger caucasici". Non gratis, ovviamente. Così il ragazzo della tendopoli in Inguscezia è diventato milionario.
L’altra gioventù
Non è diventato milionario Arbi Sagaipov, anche lui vissuto nella tenda di un campo “umanitario” in Inguscezia più o meno negli stessi anni di Radjap. Nel 2004, quando il governo ceceno, dichiarata conclusa la guerra, cominciò a lottare per il ritorno dei profughi, Arbi aveva 16 anni, ma non fece ritorno in Cecenia: si trasferì invece, con la famiglia, a Mosca. Due anni dopo fu ammesso all’università e in seguito aprì, insieme al padre, una piccola impresa nella capitale russa. Ma nemmeno vivendo nel cuore di questo Paese è riuscito a perdonare la Russia, e tanto meno ad amarla.
Nel 2010, all’insaputa della famiglia, Arbi è tornato in Cecenia per unirsi ai ribelli, che allora nessuno chiamava più con il nobile nome di "combattenti della resistenza", ma solo terroristi. Da allora, sua madre Tamara lo cerca per tutta la Cecenia, nella speranza di dissuaderlo da una lotta apparentemente priva di senso. Una volta è riuscita ad entrare in contatto con un gruppo di ribelli in un bosco vicino al villaggio ceceno di Shatoi. "Sembravano quasi bambini”, racconta. “Nessuno di loro era più vecchio del mio Arbi ". Nel gruppo i ribelli erano una ventina. Si definivano mujaheddin e per loro combattere contro l’occupazione russa è una jihad: una guerra santa contro il nemico invasore, il dovere di ogni musulmano. "Li guardavo e non riuscivo a trattenere le lacrime. Sono bambini, hanno 17-18 anni. Che cosa hanno visto nella loro vita? E cosa sanno della vita? Perché devono vagare nei boschi, mezzi morti di fame, e morire così giovani, quando i loro coetanei vivono in grande stile? Devono morire solo perché non vogliono e non sono capaci di sottomettersi al potere?". Tamara non è riuscita a trovare suo figlio. I ribelli le hanno detto che in quel gruppo c’erano tre o quattro Arbi. E che i ribelli nelle foreste non usano i propri veri nomi. Tuttavia, Tamara torna in Cecenia alcune volte l’anno e vaga per villaggi e città, cercando informazioni sul figlio partito per questa guerra confusa e incomprensibile che ingoia le vite sempre più giovani.
Una questione di dignità
I giovani ceceni che vanno “nei boschi” per unirsi ai ribelli sono generalmente considerati disadattati. Numerosi esperti di Cecenia e Caucaso del nord vedono nella disoccupazione e nei problemi sociali il motivo principale che spinge i giovani alla lotta armata. Sarebbe certo sciocco negare l’influenza della disoccupazione e della mancanza di prospettive dei giovani ceceni sulla loro radicalizzazione, anche religiosa. Probabilmente, tuttavia, il motivo principale per cui, nonostante oltre un decennio di crudele persecuzione, la resistenza cecena non può essere schiacciata risiede nella tradizione patriarcale della società cecena, dove l’uomo non è solo colui che porta il pane a casa, ma prima di tutto il capo della famiglia. Ora la posizione degli uomini è cambiata drammaticamente. Non possono provvedere alla famiglia, e nemmeno proteggerla, se non collaborano con il regime e non diventano parte di esso.
Il fenomeno, totalmente nuovo in Cecenia, di uomini che dagli schermi televisivi cantano le odi delle autorità, rivaleggiando in servilismo e piaggeria, disgusta la generazione più giovane. Inoltre, con migliaia di uomini delle varie agenzie di sicurezza in giro armati giorno e notte, le violenze su persone inermi, o nella migliore delle ipotesi le umiliazioni verbali, sono all’ordine del giorno. Rivolgersi al tribunale è inutile, perché il tribunale, come le altre istituzioni statali, è dalla parte del potere.
Così parte della società cecena, educata in una tradizione di uguaglianza e giustizia, non trova posto nel nuovo sistema di regole che ha improvvisamente travolto il Paese, in cui il diritto è di chi ha armi e denaro, e per ottenere armi e denaro bisogna imparare a venerare Putin e i suoi luogotenenti. Ed ecco che cresce il divario fra i giovani che si abbeverano con piacere alle fonti del Cremlino e quelli che le considerano velenose.
Le ingiustizie e umiliazioni sofferte dai giovani ceceni per mano dei propri coetanei vicini al potere sono la principale risorsa della resistenza. In questo senso il governo ceceno, e il Cremlino che l’ha messo lì, lavorano instancabilmente per la resistenza, moltiplicando ogni giorno che passa le ingiustizie nel Paese e spingendo così i giovani alla lotta armata come unico mezzo per proteggere la propria dignità.
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