Carcere di Scheveningen: fratellanza ed unità
Nella prigione “modello” targata Onu di Scheveningen serbi, croati e albanesi dividono gli spazi comuni, giocano assieme a calcio e festeggiano assieme compleanni e feste religiose. Damir Šagolj è il primo giornalista ad aver ottenuto l’autorizzazione a visitare l’interno del centro di detenzione
Tratto da Radio Free Europe e originariamente selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans
Sono il primo giornalista ad ottenere l’autorizzazione realizzare un reportage sull’interno del carcere di Scheveningen e, al momento di entrare, ho lo stomaco chiuso. In quanto bosniaco e in quanto fotografo, rimango prigioniero del mio passato.
Alcune tra le persone qui detenute sono accusati di crimini perpetrati contro membri della mia stessa famiglia. Siamo sopravvissuti all’assedio di Sarajevo. I miei parenti di tradizione musulmana, mia nonna, mio zio e anche altri sono stati espulsi dalle loro case da alcuni serbi di Bosnia. Alla fine hanno trovato rifugio in Svezia. Per quanto riguarda I membri croati della mia famiglia paterna sono stati anch’essi cacciati di casa, da altri eserciti, in altri territori… Alcuni tra di loro sono stati assassinati e i loro corpi scoperti più tardi in fosse comuni.
Laggiù, nella ex Jugoslavia, l’immagine che si ha di questo Tribunale internazionale creato con il solo fine di giudicare crimini commessi durante i conflitti armati degli anni ’90, riflette le divisioni di una società schizofrenica. Per i nazionalisti, che vedono negli incriminati degli eroi, questo luogo è una sorta di santuario, ma per gli altri, non dovrebbe essere che una scala sulla strada dell’inferno.
Il tribunale ha arrestato nel luglio 2011 l’ultimo latitante, Goran Hadžić, e ora ci si aspetta che ponga fine alle sue attività nel 2014, una volta che saranno decisi i destini di detenuti quali l’ex capo militare dei serbi di Bosnia, Ratko Mladić, e del loro ex capo politico, Radovan Karadžić. Un giorno, nei corridoi dell’edificio nel quale ha sede il tribunale, sono finito per caso faccia a faccia con Radovan Karadžić. Un incontro di un attimo: i nostri sguardi si sono incrociati, poi lui ha detto “Buongiorno”. Non ho risposto nulla, solo la mia macchina fotografica ha emesso un click. Ho pensato che, anche con le manette ai polsi, schiacciava le guardie carcerarie con la sua presenza. E’ ripartito subito, scortato sino alla sua sedia nella sala del tribunale.
Non ho provato niente, ed è questo che mi ha shoccato. Negli anni ’90 la mia vita era nelle mani di quest’uomo, quando era al comando degli artiglieri ed ai cecchini assiepati attorno a Sarajevo. IN questa prigione molto particolare Karadžić e i suoi compagni sono trattati bene.
Buona condotta
Mentre fumo una sigaretta su un balcone (anche se ho ufficialmente smesso di fumare da un po’ di tempo), sento il colpo di un servizio potente sul campo da tennis sottostante, accompagnato da alcune parole pronunciate in accenti diversi della mia lingua. Non riesco a riconoscere chi stia parlando, ma ho sentito dire che Ante Gotovina, il generale croato accusato di crimini di guerra contro civili serbi, è il campione di tennis incontestato della prigione.
L’edificio ha anche celle d’isolamento – stanze equipaggiate di un solo materasso, appoggiato a terra, tra mura dipinte di un giallo brillante – ma David Kennedy, a cpo di questa sezione di detenzione, spiega che nessuno tra gli accusati provenienti dalla ex Jugoslavia si comporta talmente male da trovarsi agli arresti in una di queste celle.
Insomma, per la maggior parte di loro la vita qui è relativamente gradevole: una palestra, atelier d’arte, un campo da tennis ed uno da basket… C’è anche una cucina, docce e cabine telefoniche non lontane dalle celle dei detenuti. I cellulari sono vietati, e così questi individui accusati di crimini di guerra devono utilizzare delle carte pre-pagate (30 euro al mese offerte dall’Onu) per telefonare a casa. Nessuna telefonata entrante è autorizzata e nemmeno l’accesso a Internet. Sono autorizzate solo le lettere.
Nelle loro celle i detenuti possono seguire i programmi televisivi dei loro Paesi su schermi piatti e libri e giornali vengono consegnati in modo regolare. Sulle pareti di una cella vuota si possono scorgere graffiti pornografici che illustrano i fantasmi omosessuali di un antico occupante.
In cucina vedo una torta pronta per essere infornata, un mazzo di carte e una ricevuta di 23 euro per un chilo di manzo olandese ed altre derrate consegnate ad uno dei detenuti. Il cibo è quello della prigione, ma sono ammesse richieste speciali, che vengono consegnate settimanalmente da un negozio specializzato in prodotti balcanici.
Alcune caricature del presidente iraniano Mahmoud Ahmedinedjad e del dittatore libico Mouahmar Geddafi, ritagliate da alcuni giornali, sono incollate alla porta della cucina.
Fratellanza ed unità
Ci sono anche dei festeggiamenti. I compleanni e le feste religiose vengono festeggiate tra queste mura, come lo erano durante il periodo di Tito, nella “fratellanza e unità”. Questi uomini che si sono combattuti sotto il pretesto delle differenze religiose ed etniche negli anni ’90, quando erano in libertà, si siedono ora attorno allo stesso tavolo per partecipare alle celebrazioni religiose, gli uni degli altri.
“Cucinano per festeggiare i giorni dei santi, con prodotti portati dal negozio specializzato in cibo balcanico, e tutti i detenuti si siedono assieme a festeggiare e cosa festeggiano poco importa”, racconta David Kennedy. Anche se giocano a calcio, non formano mai squadre su base etnica. A dire il vero, sempre secondo David Kennedy, dall’apertura di questa sezione speciale non vi è mai stato un solo incidente che possa essere legato a questioni di nazionalità o appartenenza religiosa.
"Vanno d’accordo perché si trovano tutti nelle stesse condizioni” spiega David Kennedy. “Devono sottostare tutti alle stesse restrizioni, quelle imposte dalla detenzione. Vivono tutti assieme nella stessa ala della prigione. Non vi è alcun tipo di segregazione fondata sull’appartenenza etnica o la religione. Nella loro situazione la vita è molto più facile se riescono a passarsela bene con il loro vicino di cella…”.
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