Cannes: vince Nuri Bilge Ceylan
Palma d’oro alla Turchia al 67° Festival di Cannes. Nuri Bilge Ceylan era tra i grandi favoriti con il fluviale “Winter Sleep” e la giuria presieduta da Jane Campion l’ha premiato
Dopo due Gran Prix, per “Uzak” (2003) e “C’era una volta in Anatolia” (2011), è arrivata finalmente la Palma che consacra Nuri Bilge Ceylan tra i grandi.
Per la Turchia è la seconda vittoria dopo quella del 1982 con “Yol – La strada” di Yilmaz Guney e Serif Goren e arriva proprio nell’anno del centenario del cinema turco. “È una bella coincidenza che arrivi per i 100 anni di cinema turco. Dedico il premio a tutti i giovani della Turchia, a tutti i giovani soprattutto a quelli che sono morti nell’ultimo anno” ha dichiarato il regista facendo attenzione alle parole ma con chiaro riferimento alle proteste contro Erdogan.
Alla proiezione il regista si era invece presentato con un fiocco nero in segno di lutto per il disastro della miniera di Soma. Ceylan aveva ricevuto anche il premio dalla giuria Fipresci della critica, nonostante un film di tre ore e 16 minuti, molto parlato, sulle relazioni umane e un sottotesto politico.
“Winter Sleep” sarà distribuito in Italia da Parthenos e Lucky Red. Un film che è un dramma da camere e reception d’albergo, con aperture sui paesaggi stupefacenti nel cuore della Cappadocia mentre sta arrivando l’inverno.
La storia
Aydin (l’ottimo Haluk Bilginer) è un attore sessantenne che si è ritirato a gestire un albergo con la giovane e attraente moglie (Melisa Sozen), mentre pensa di scrivere una storia del teatro turco. Con loro c’è la sorella di lui, Necla. Tra pochi turisti che passano o non sanno neanche loro quanto restano, amici, vicini, collaboratori, affittuari indietro con le mensilità, imam, bambini che lanciano pietre contro le auto, i tre parlano di relazioni, senso della vita, del lavoro, dell’età che passa, del partire e dello stare.
Sono quasi tutte conversazioni a due o al massimo a tre personaggi (nei crediti Ceylan cita Shakespeare, Checov, Dostoevski e Voltaire), insistite, a volte con delle ripetizioni, che però scavano nelle relazioni, rinfacciandosi anche cose brutte. L’investigazione profonda, precisa dell’animo umano, con una grande capacità di scrittura (con la moglie Ebru) e un occhio fotografico notevole, ma che non sconfina mai nella maniera, restano i suoi tratti distintivi.
Salito alla ribalta con pellicole con poche parole e atmosfere rarefatte, il cineasta turco è passato già con “C’era una volta in Anatolia” a dialoghi prolungati, senza perdere la grande qualità fotografica e il fascino visivo. Un film raffinato, compatto, di grande equilibrio e respiro, classico nell’essere senza tempo. In sottofondo c’è la musica di Schubert, la Sonata in La maggiore, che ritorna più volte. E una lettera, forse solo immaginata, che cambia le cose.
La violenza, l’unica legge
Vittoria ucraina nella 53° Semaine de la Critique: tre premi su quattro al folgorante esordio “The Tribe” di Myroslav Slaboshpytskiy. Un film di oltre due ore, senza parole, senza spiegazioni, senza nessuna musica. Il racconto della vita dei giovani di un istituto per sordomuti, seguendo l’ingresso di un nuovo arrivato e il suo inserimento, dall’essere vittima degli altri, all’entrare nella banda e quel che ne segue, ribellione compresa. Una storia di bullismo, furti, traffici illegali, prepotenze assortite, prostituzione, l’attesa di un visto per l’Italia, la scoperta dell’amore per il protagonista Sergey, un giovane morto travolto da un tir in manovra, un aborto (in tempo reale, ancora più raccapricciante di "4 mesi 3 settimane 2 giorni" di Cristian Mungiu). Il tutto girato con la camera a mano in piani sequenza senza stacchi, con un lavoro straordinario del cameraman Valentyn Vasyanovych, nello stile del cinema romeno. Dopo una escalation di violenza e di scene crude che urtano lo spettatore, arriva un finale sconvolgente. Un film maturo che è anche metafora di un paese dove la violenza è l’unica legge e andarsene l’unica speranza.
Nella parallela sezione Un certain regard un po’ di delusione per “Xenia”, quarto film del greco Panos Koutras. Danny ha 16 anni, vive a Creta, è gay e ha una grande passione per la cantante Patty Pravo (i suoi brani, su tutti il celebre “La bambola”, compongono la colonna sonora) trasmessagli dalla madre di origine albanese. Quest’ultima è morta da pochissimo, così il ragazzo si reca ad Atene dal fratello Odysseus, che ha quasi 18 anni e lavora in un bar. Insieme decidono di mettersi alla ricerca del padre, del quale hanno vaghissimi ricordi e pochi elementi. Pare solo che viva a Salonicco, abbia cambiato nome e abbia fatto carriera, così partono per cercarlo.
Danny ama cantare e vuole partecipare al concorso canoro Greek Star, se si tiene proprio nella città del nord, la preoccupazione di Odysseus è di non avere la cittadinanza greca e di essere mandato in Albania se non riuscisse ad avere il riconoscimento paterno entro il compimento della maggiore età. La bravura e l’energia del protagonista Kostas Nikouli (Danny) tengono un po’ interessante il film e trasmettono la voglia di fare e di vivere e di sognare. La realizzazione è però lacunosa, la sceneggiatura e regia latitano in certi momenti e gli attori a volte sembrano abbandonati a sé stessi, la fotografia (di Hélène Louvart, la stessa de “Le meraviglie” di Alice Rohrwacher) non è all’altezza. E i colpi di scena sono troppo telefonati. Una pellicola non da buttare, ma non abbastanza curata per essere convincente e all’altezza delle potenzialità della storia.
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