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Cannes: tutti i film dell’est Europa

A poco più di un mese dall’edizione 2022 del Festival del cinema di Cannes una rassegna su tutti i film dell’est Europa proiettati nelle sue sale

11/07/2022, Nicola Falcinella -

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È girato in buona parte in Grecia il film svedese “Triangle of Sadness” di Robert Őstlund che si è aggiudicato la Palma d’oro del 75° Festival di Cannes. Il regista nordico aveva già vinto nel 2017 con “The Square” e ripropone una critica alla società contemporanea e al capitalismo con gli strumenti del grottesco e dell’accumulo: il risultato è migliore del precedente.

L’unico premio balcanico è stato quello per la miglior regia nella sezione parallela Un certain regard al romeno Alexandru Belc, noto per il documentario “Cinema mon amour”, al suo esordio nella finzione con “Metronom” che sarà presto distribuito in Italia da I Wonder.

Nel concorso principale era presente l’altro romeno Cristian Mungiu, che vinse la Palma nel 2007 con “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni” e stavolta non ha ricevuto riconoscimenti. “R.M.N.” racconta il ritorno a casa di Matthias in occasione del Natale in un paese della Transilvania dove sono presenti varie minoranze etniche. L’uomo era impiegato in un macello in Germania, ma, dopo aver picchiato un collega, fugge in tutta fretta per rientrare a casa. Molti dei compaesani sono emigrati all’estero, ma ci sono lavori a salario misero, come nella panetteria industriale di cui è direttrice la bella Csilla che suona il contrabbasso e ha una passione per “Il The Mood For Love”, che solo gli stranieri (in questo caso dello Sri Lanka) accettano. Questo fa però salire la protesta della cittadinanza, che si rivolta contro gli immigrati così come non vede di buon occhio la presenza degli orsi nei boschi, entrambi visti come una minaccia. “Non vogliamo essere lo zoo dell’Europa” dicono in una lunga infuocata assemblea pubblica che è ilmomento clou e ricorda la riunione scolastica “Sesso sfortunato” di Radu Jude ma con un taglio realistico e meno grottesco. I paesani, che espongono le prime lamentele in chiesa durante le funzioni natalizie e proseguono con un crescendo drammatico nei giorni successivi, accusano la Ue con discorsi qualunquisti.

Il film di Mungiuha forse qualche incongruenza nell’ultima parte (soprattutto legata al ruolo del francese che censisce i plantigradi), ma il finale è di forte impatto. Il titolo sta per la risonanza magnetica nucleare cui si sottopone il padre di Matthias, ma anche per Romania.

In concorso c’era anche “Tchiaikovsky’s Wife” del russo dissidente, e da sempre oppositore di Putin, Kirill Serebrennikov. Il regista, conosciuto per “Summer – Leto”, “Parola di Dio” e “Petrov’s Flu”, esplora la relazione tra il celebre compositore e la moglie Antonina Miliukova, già portata sullo schermo nel 1970 da Ken Russell. Giovanissima, la donna conosce il musicista a una festa, ne rimane folgorata e inizia un insistente corteggiamento di lettere e richieste di incontri, finché Ciajkovskij acconsente a un matrimonio improvviso e di facciata. Antonina non si rassegna ai presagi (si spegne la candela durante il rito del matrimonio ortodosso), ai consigli altrui, alle assenze e ai rifiuti, è convinta di essere ricambiata e si chiude in un’ossessione amorosa sempre più folle. Intanto la Russia zarista è oppressiva, costringe tante persone in povertà, e non è difficile riconoscere riferimenti ai nostri tempi.

Serebrennikov realizza un melodramma barocco ed eccessivo, pure troppo visionario, molto ben confezionato e illuminato dalla protagonista Alyona Mikhailova, quasi sempre in scena, con uno sguardo che lascia indifferenti. Una pellicola costruita quasi tutta su lunghi flash-back, cominciando dalla morte di lui nel 1893 e andando indietro al 1872, quando la ragazza si infatua del già famoso compositore, gli chiede di potersi iscrivere al conservatorio e come risposta riceve “è meglio se ti sposi”. Testarda, Antonina riuscirà a farsi sposare e promette di vendere un terreno per risolvere i perenni problemi economici di lui.

Fuori concorso è stato presentato il documentario “The Natural History of Destruction” di Sergei Loznitsa, cittadino ucraino bielorusso di nascita e residente in Germania. Un altro lavoro sugli archivi da parte di un regista che, soprattutto nell’ultimo ventennio, si è affermato come una delle voci più forti e importanti dell’area ex sovietica, passando dalla rigorosa ricostruzione storica alla rappresentazione dell’oggi (il film di finzione “Donbass” del 2018). Loznitsa ha usato soprattutto repertori tedeschi e inglesi per mostrare Germania e Inghilterra poco prima e poi durante la Seconda guerra mondiale. Dalla calma apparente di una vita tranquilla, tra campagne e fabbriche, prima del conflitto fino alle lunghe immagini della distruzione finale. Il regista non spiega niente, non impiega nessuna didascalia, lascia allo spettatore tutto il compito di interpretare le scene (in bianco e nero e pure a colori) solo accostate tra loro. Non ci sono dialoghi se non quattro discorsi, di un generale inglese, Churchill, Truman e un gerarca tedesco che invita il popolo a resistere e reagire. Molte immagini sono pazzesche e lasciano basiti, con tante riprese aeree, anche lunghe sequenze di bombardamenti. Il regista lavora sulla propaganda delle due parti, a smontarla pezzo per pezzo solo con la forza di immagini che sono speculari, e ragiona sulla presunta superiorità morale di entrambi, per motivi opposti. Una riflessione sulle ambiguità delle tesi che, a maggior ragione, è utile oggi.

Buono anche “Dodo” del greco Panos H. Koutras, che si era fatto notare con “Xenia – Pazza idea” sempre in Un certain regard nel 2014. Questo lavoro è meno kitsch e il risultato più compatto e convincente. In una grande villa nei dintorni di Atene vivono Mariella, ex attrice di una famosa soap degli anni ‘90, e il marito imprenditore Pavlos. La loro unica figlia sta per sposarsi, i preparativi fervono e nella residenza si avvicendano tante persone, non tutte affidabili. Intanto nei dintorni i cani abbaiano e uno strano uccello spaventato si rifugia nell’edificio. È un Dodo, uccello tropicale estinto da tre secoli e citato in “Alice nel paese delle meraviglie”. La scoperta aggiunge scompiglio a una situazione che sta andando a rotoli, perché la famiglia non ha più un euro e vari segreti stanno per essere rivelati. Un po’ commedia e un po’ dramma familiare che cita più volte “Victor Victoria” (tra i protagonisti si inserisce pure la trans Eva, che è uno dei personaggi più razionali del gruppo), e ha qualcosa in comune con il cinema dei connazionali Lanthimos o Avranas ma appare meno programmatico nella sua critica sociale e più efficace. Koutras non dimentica di mostrare come sono accolti e considerati gli immigrati di varie provenienze ed epoche, dall’Albania, l’ex Urss o la Siria, e non utilizzati solo come pretesti narrativi.

Sempre in Un certain regard era presente “Kurak gunler – Burning Days” di Emin Alper, regista turco premiato a Venezia per “Abluka” nel 2015. Emre è un giovane procuratore appena arrivato in una cittadina di provincia che si scontra con un sistema di potere molto coeso. Va subito a scontrarsi con il sindaco in campagna elettorale, mentre l’avvocato e il dentista del luogo cercano di farselo amico e contenerne l’attivismo. Nella zona c’è il problema dell’acqua, con un processo in corso e la gente che fa la fila per prenderla dalle autobotti. Lo scarto avviene quando la giovane zingara Pekmez è violentata al termine di una festa con l’avvocato e il dentista a cui aveva partecipato pure il procuratore. Nel corso della serata Emre era stato fatto ubriacare e drogato e a posteriore sospetta degli altri due e li fa arrestare, ritrovandosi tutta la cittadina contro di lui. L’unico che forse sta dalla sua parte, con la giudice che all’inizio l’aveva consigliato, è l’ambiguo giovane proprietario del giornale di opposizione, che ha degli scopi non del tutto chiari. Il film è interessante nel delineare le ramificazioni del potere in Turchia, anche se non è del tutto originale nella costruzione, ma pecca forse per un finale un po’ troppo sospeso.

Resta come testimonianza e omaggio il documentario “Mariupol 2”, presentato fuori concorso, con le ultime immagini filmate dal regista lituano Mantas Kvedaravičius, arrestato e ucciso dai soldati russi in aprile nella città contesa dell’Ucraina orientale dove aveva già girato un film nel 2016. La sua fidanzata Hanna Bilobrova ha recuperato il girato delle prime settimane della guerra e ha completato il lavoro con la montatrice Dounia Sichov. Il film ritrova alcuni protagonisti del precedente, che in una zona residenziale cercano oggi di continuare a vivere nonostante gli spari e le esplosioni si sentano sempre più vicini. “I nostri governi sono sempre più onesti, ma le nostre condizioni sono sempre peggiori” dice un uomo che prende in esame l’ultimo ventennio di politica nazionale e però non nomina Zelenski. Per il resto il documentario fornisce poche indicazioni, poche parole, solo l’osservazione delle piccole cose che succedono, mentre si seppelliscono i morti nei cortili o una bomba dal cielo può lasciare un cratere dove c’era un’abitazione, senza nessun voyeurismo.

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