“Buon anno Sarajevo”, un film da vedere
A quattro anni dal pluripremiato “Neve” (Snijeg), la regista bosniaca Aida Begić conferma tutta la sua bravura e il suo talento con questo nuovo lungometraggio, da oggi nelle sale italiane
Da oggi nelle sale italiane “Buon anno Sarajevo” della regista bosniaca Aida Begić. Il film, titolo originale “Djeca – Children of Sarajevo”, ha ricevuto la menzione speciale della sezione Un certain regard all’ultimo Festival di Cannes, prima di iniziare un percorso festivaliero che l’ha portato a vincere quello di Pesaro e ottenere l’Heart of Sarajevo per la protagonista Marija Pikić e tante altre partecipazioni alle maggiori rassegne.
Era stato pure candidato dalla Bosnia all’Oscar come miglior film straniero, ma non è entrato nella rosa dei nove semifinalisti, dove c’è invece il romeno “Oltre le colline” di Cristian Mungiu.
La regista di Sarajevo, che si era segnalata con il bel “Snijeg – Snow”, ha realizzato come secondo lungometraggio una pellicola completamente diversa dalla precedente.
Dalla campagna dolente ma colorata e in fondo con una speranza si passa alla periferia della città, d’inverno con colori lividi e quasi sempre in notturna.
Protagonista è una coppia di fratelli Rahima (Marija Pikić), 23 anni, e Nedim (Ismir Gagula), 14 anni, che hanno perso i genitori nel conflitto. La prima lavora come aiuto cuoca in un ristorante alla moda, frequentato da persone d’alto rango, ed è completamente dedita al fratello, diabetico e vicino a cadere nella piccola delinquenza.
Il ricordo della madre uccisa da un cecchino è ancora molto vivo (e reso da spezzoni di immagini video dell’assedio), ma la giovane sembra aver trovato nell’islam e nell’indossare il velo un suo equilibrio. Una scelta che sembra portarle delle discriminazioni ma non le impedisce di condurre una vita simile alle sue coetanee: fuma, ascolta musica occidentale e fa valere i propri diritti in tutte le situazioni.
I giorni relativamente tranquilli si complicano quando Nedim danneggia l’i-phone di un compagno di scuola. Questi è però figlio di un ministro e la scuola ingiunge alla sorella di rifondere il danno. Rahima chiede al proprietario del locale, la cifra di cui ha bisogno, ma la sua richiesta è respinta. La disperazione la porta a danneggiare l’auto del ministro in un posteggio, mentre la denuncia della corruzione e della protervia dei potenti è sempre più netta.
Un dramma duro, diverso dai comunque pochi film balcanici che si vedono in Italia. Senza folklore, senza luoghi comuni, senza troppe spiegazioni se non vite pedinate nella loro quotidianità difficile. Lode alla Kitchen Film che lo distribuisce coraggiosamente.
Un film da vedere, che resta dentro, che aiuta a rendersi conto se non proprio a capire, una storia che lascia una scia d’ansia che non offre soluzioni o vie d’uscita facili, che traccia un quadro cupo di un Paese dove la memoria della guerra resta nella quotidianità delle persone, ma che nel coraggio e nella tenacia della protagonista non nega una speranza.
La rinuncia di Rahima a vivere la storia d’amore con l’amico che la corteggia non è una chiusura ma una conseguenza della scelta di essere madre per il fratello. È anche un ritratto della complessità della Sarajevo attuale, non più la complessità di prima del ’91, ma articolata in posizioni, stili di vita e contrasti diversi: Davor, il padrone del ristorante, è croato e omosessuale, la collega della protagonista, Vedrana ha problemi con il marito fondamentalista wahabita (una questione presente anche in “Na putu – Sul sentiero” di Jasmila Zbanić) che le ha portato via i figli.
La Begić, pur con un film lontano da “Snijeg” (ma anche là pesavano le assenze, i lutti del conflitto, un passato troppo ingombrante, un futuro che non arrivava, la voglia di non arrendersi delle giovani), conferma il suo talento, anzi ne offre una prova ancora più matura, affermandosi come una delle voci più forti e chiare della nuova Bosnia.
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