Bulgaria: verso l’Europa o verso il Bangladesh?
Tanya Mangalakova, nostra corrispondente da Sofia, ha intervistato l’antropologo Asen Balikci. Sulla Bulgaria, l’Europa ed il Bangladesh …
Asen Balikci è antropologo, sceneggiatore di film, documentarista e autore di numerose pubblicazioni sui temi dell’etnologia e della antropologia visiva. Durante gli anni ’60 ha condotto ricerche sugli eschimesi dell’artico canadese e girato dodici brevi documentari sulle loro tradizioni. Nel 1978 ha girato il documentario "I figli di Haji Omar" un’indagine sul nomadismo e la vita rurale tra i pastori pashtoon dell’Afghanistan. Tra il 1989 ed il 1991 si è invece concentrato su alcune ricerche in Siberia dove ha girato il documentario "La cronaca di Sereniki". Nel 1994 Asen Balikci si è ritirato dall’insegnamento presso l’Università di Montreal, Canada, ed è ritornato in Bulgaria, sua terra d’origine, per mettere a disposizione le sue competenze ed i suo sapere. Ma già dal 1992 aveva iniziato studi sui Pomachi nel sud-ovest della Bulgaria e sulla povertà dopo la fine del socialismo.
Se si dovesse descrivere la personalità dell’ormai anziano professore con due parole queste sarebbero nomade e cosmopolita. E’ un ricercatore dei popoli nomadi perché lui stesso è stato nomade. Ha viaggiato in tutto il mondo e vissuto in Canada, Stati Uniti ed Europa. Gli ho chiesto dell’origine del suo nome e mi ha risposto che è di origine turca. "Mio padre è originario della Macedonia egea, mia madre è nata in un villaggio della Tracia, nei pressi di Istanbul, sono puramente bulgari. Io sono nato ad Istanbul ed il mio cognome era Nikolov. Prima dello scoppio della guerra nel 1936 Mustafa Kemal Ataturk obbligò tutti i cittadini della Turchia ad adottare cognomi turchi. Anche questi fenomeni sono da considerare se si rintracciano le identità nei Balcani. Io sono bulgaro, non ho origine turca, ma ho un cognome turco".
La sua famiglia si è poi spostata in Bulgaria poco prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale. "Tra il 1938 ed il 1939 mio padre ci disse che ci sarebbe stato un massacro di cristiani e che avremmo abbandonato la Turchia per la Bulgaria per evitarlo. E’ questa la ragione per la quale ci siamo spostati. Poi il sei settembre del 1944 mio padre ci disse che ci sarebbe stato un massacro degli esnaf (artigiani), scappammo nuovamente e ad Istanbul ci imbarcammo per Marsiglia. Ricordo ancora le parole di mio padre "Scappa dai Balcani e non tornare mai più"".
Ho deciso di intervistare il professor Balikci dopo aver visto il suo documentario "Labirinti musulmani" girato in collaborazione con il regista Antoni Donchev nel villaggio di Breznitsa (nei monti Pirin, vicino ai monti Rodopi) nel 2002. Lo ho intervistato non appena rientrato da un viaggio di un mese nel villaggio di Tingvoong, nella regione di Hepcha Dzongu, India.
D. "Labirinti musulmani" è il vostro quarto documentario sui Pomachi del villaggio di Breznista. I vostri lavori precedenti sono stati ferocemente criticati. Vi aspettate che anche questo documentario subisca simili attacchi?
R. Tra il 1995 ed il 1996 ho girato tre documentari sui Pomachi. Grazie ad un laboratorio sul campo di antropologia visiva abbiamo formato sei giovani di Breznitsa, tra i quali bulgari, pomachi ed un rom a filmare la loro vita quotidiana con una telecamera. Con frammenti di questo girato abbiamo montato un documentario che è stato poi fatto vedere ad un festival di Saarbrucken, Germania. Il nostro desiderio era quello di dare un mezzo a questi ragazzi per esprimersi. La maggior parte degli abitanti di quei villaggi sono illetterati, ascoltano sempre in modo paziente ed obbediente: soffrono e se ne stanno in silenzio. Ma questo non significa che non siano capaci di utilizzare una videocamera per raccontare qualcosa. Tutt’altro. Le persone che ho incontrato nei villaggi del terzo mondo imparano in fretta e sono molto creative. La scrittura appartiene invece alla tradizione accademica. I libri vengono scritti a Parigi, Londra e New York. I nostri sforzi erano diretti a superare queste fortissime ineguaglianze. I documentari sono stati pesantemente criticati poiché sembravano poco professionali e poco sofisticati, qualcuno è arrivato a dire che non dovrebbero essere trasmessi perché non contribuiscono all’"arte". Ma l’approccio al quale siamo abituati è spesso una spaventosa neutralità rispetto all’esistente. Ma non arricchisce artisticamente la realtà sociale. Non ci sono belle riprese, c’è solo l’etnografia spoglia.
Il documentario "Donne di Breznitsa", dedicato alla vita di tutti i giorni di una donna del villaggio, è stato trasmesso su di una televisione tedesca con grande successo. La BBC ha reagito commentando che con documentari come questi che rappresentano persone selvagge ed arretrate la Bulgaria non sarà in grado di entrare nell’Unione europea. Il documentario "Il mondo di Ibrahim", co-prodotto dal regista Antoni Donchev, dava invece un ritratto di una famiglia di anziani. Ha vinto molti premi ed è stato distribuito dal Royal Antrhropological Institute di Londra. "Labirinti musulmani" verrà trasmesso sul canale pubblico in Bulgaria e certamente mi aspetto molte reazioni.
D. Nel documentario "Labirinti musulmani" la telecamera mostra i ragazzi del villaggio che gettano via i libri di testo di turco. Sono infatti interessati a studiare piuttosto inglese, francese e russo. Dal 1994 ha più avuto dei contatti con questi suoi "eroi"? Come continuano a ricercare la loro identità? Cosa ritengono di essere adesso?
R. La gente di Breznitsa sta ricercando la propria identità ma la stessa cosa la stanno facendo i bulgari in generale. Solitamente si lega l’etnia dei bulgari a tre possibili origini: i traci, i proto-bulgari e gli slavi. A seconda del periodo si è enfatizzata ideologicamente una di queste tre origini. I Pomachi sono stati più fervidi nell’immaginazione. Nel 1994 la gente del villaggio di Breznitsa mi raccontò che appartenevano al credo turco Konya, che ha avuto origine in Anatolia. Ma quando parlavo turco loro non capivano una singola parola. Sono poi emersi altre percezioni della propria origine. C’era infatti chi affermava che erano d’origine araba discendenti da un gruppo di mercanti originari della Mecca e di Medina, arrivati nel IX secolo d.c. Ma vi è anche un’altra teoria. Si sostiene infatti anche che ci sarebbe una prova della loro origine tartara: una delle strade del villaggio porta il nome "Tatars". Ed altri sostengono che il nome della parte meridionale del villaggio "Suda" starebbe a testimoniare che la loro origine sarebbe invece da ricercarsi nel Sudan. Alle già numerose ipotesi esistenti si è aggiunta anche la "pista" iraniana dopo che alcuni missionari iraniani sono arrivati nella regione per predicare un Islam non certo moderato. Dopo aver conquistato l’Iran Alessandro il Grande avrebbe catturato molti prigionieri riportati in patria da un generale del suo esercito e poi stanziatisi proprio nei monti Rodopi. L’immaginazione molto fertile dei Pomachi dimostra un forte desiderio di riscoprire le origini più lontane possibili nel tempo. La teoria viene ritenuta credibile solo se dista nel tempo almeno un migliaio di anni.
D. L’Islam professato nei monti Rodopi si differenzia sia da quello sunnita che da quello sciita. La religione dei Pomachi ha caratteristiche fortemente sincretiche e contiene anche elementi pagani. Vivono vite isolate nelle montagne in un mondo tutto loro, i matrimoni avvengono esclusivamente all’interno della comunità. Saranno in grado di modernizzarsi?
R. Non si trovano villaggi di Pomachi in pianura. Sono lontani dalle vie principali, nascosti tra le montagne. I Pomachi dovrebbero costruire un monumento in nome di Todor Zhivkov (ex dittatore comunista della Bulgaria), perché la loro identità culturale è sopravvissuta proprio perché aggredita dal regime comunista. I Pomachi hanno risposto all’accerchiamento elaborando una propria strategia di sopravvivenza, rivelatasi vincente. Con la caduta del regime comunista si è infatti assistito ad una sorta di resurrezione: le donne rapidamente sono tornate ad indossare i pantaloni tradizionali, i "shalvars". I simboli etnici vengono "esposti" in particolare dalle donne. Ma i Pomachi non hanno elaborato alcuna "strategia di sopravvivenza" rispetto alla cultura di massa democratica, che li assimilerà molto presto. Sempre meno sono le ragazze che indossano la "shamia", il velo. Aumentano i divorzi e diminuiscono i matrimoni. Il sesso prima del matrimonio è sempre più diffuso. Questo significa la rottura dei valori etici e morali che, in fin dei conti, mineranno la loro cultura legata all’Islam. Non vi è modo per loro di lottare contro la cultura di massa propagata in modo irresistibile dalla televisione. La televisione sarà il mezzo attraverso il quale verrà condotta la loro assimilazione, in particolare attraverso i programmi pornografici trasmessi in modo ininterrotto da mezzanotte alle sei del mattino. Nel 1994 i Pomachi sostenevano di essere turchi, studiavano turco e si preparavano per immigrare in Turchia. Nel 2002 hanno iniziato a studiare il francese, l’inglese ed il russo e ad emigrare verso l’occidente iniziando così a "modernizzarsi". Alcuni hanno rinunciato ai loro vecchi cognomi di origine turca mantenendo quelli bulgarizzati per timore in occidente di subire discriminazioni perché collegati all’Islam. Consapevoli che vi è un forte livello di discriminazione nei confronti del mondo musulmano.
Ho sempre desiderato fare un documentario sull’ideologia dell’Islam perché l’Islam è una vera e propria "melting pot" e varrebbe la pena sforzarsi di fare un po’ di chiarezza: la comunità musulmana ammonta ad un miliardo di persone. Parliamo di modernizzazione ma questo processo va a cozzare contro l’Islam tradizionale e le tradizioni locali. La Bulgaria dal canto suo non è granché caratterizzata dalla tolleranza etnica. Lo è piuttosto dall’indifferenza, dall’inconsapevolezza e dall’ignoranza, ad esempio rispetto all’Islam. I bulgari non conoscono l’Islam, non conoscono i suoi principi, i suoi dogmi e le sue pratiche e vi è indifferenza nei confronti di questa gente "nascosta tra le montagne".
D. "I labirinti musulmani" si concentra anche sull’industria tessile nel villaggio di Breznitsa. Cosa avete scoperto in merito?
R. Attraverso il documentario volevamo dimostrare come da una parte la Bulgaria, un paese dove forti sono le radici europee, sta avanzando verso l’Unione europea. Dall’altra però la popolazione di luoghi come Breznitsa, con le loro industrie, stanno marciando in senso contrario, verso il Bangladesh dove centinaia di migliaia di lavoratori guadagnano un salario giornaliero simile a quello guadagnato dalla moglie di Mehmet: 103 euro per 16 ore di lavoro. Mentre il Paese sta marciando verso Parigi, Berlino e Londra parte della popolazione viene spinta verso condizioni simili a quelle vigenti in Bangladesh. La contraddizione di aziende occidentali che sfruttano le condizioni misere ad esempio del lavoro femminile in alcune aree del mondo è del tutto presente anche in Bulgaria. Nel documentario mostriamo l’azienda "Les trois Suisses" che da lavoro alla maggior parte delle donne di Breznitsa. Vi sono due manager a dirigerla che vivono a Blagoevgrad, maggior centro della regione. Sono Dimitrious Skuras e Ingeborg Heinemann. Questo è il significato del nuovo capitalismo, e non servono altre spiegazioni. Questo è il modello del basso costo del lavoro. Perché disturbarsi ad andare sino in Bangladesh in cerca di un costo del lavoro misero se lo si può trovare all’interno dell’Europa?
D. Ciononostante in Bulgaria questa aziende vengono considerate investitori strategici …
R. E’ vero. La gente del posto le benedice. La moglie di Mehmet si lamenta sostenendo che questa è "vera schiavitù" ma allo stesso tempo è felice poiché "senza questi 200 leva (103 euro) sarebbe la fame".
D. Nel documentario si mostra come gli uomini bighellonano nella piazza principale mentre le loro donne lavorano per più di 12 ore al giorno. Come spiega la cosa?
R. Per gli uomini non vi è impiego. La sartoria è un’attività tradizionalmente svolta dalle donne come lo è, nei monti Rodopi, la coltivazione del tabacco. Non vi è terra a sufficienza per favorire un’agricoltura industrializzata vi è solo il terreno che favorisce un’agricoltura di sussistenza: per una mucca, due pecore, un giardino con l’orto, un campo di tabacco, patate e galline. Gli uomini trovano lavoro spesso come braccianti, spesso lontano dal proprio villaggio. Alla donna musulmana invece non è permesso emigrare, non può ad esempio spostarsi a Sofia per cercare lavoro. Rimane al villaggio, si occupa della casa, dell’orto e dei bambini. Essendo una musulmana è sottomessa al marito ed alle proprie tradizioni, qualità che sono ben conosciute dal signor Dimitrious Skuras e dalla signora Ingeborg Heinemann.
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