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Bulgaria, l’estate calda del governo Borisov

Le più grandi manifestazioni di piazza in Bulgaria degli ultimi anni – che durano ormai da una settimana – chiedono le dimissioni del governo Borisov. Le proteste, scatenate da uno "sbarco" simbolico sulle coste del Mar Nero, si focalizzano su corruzione e oligarchi ed hanno radici profonde

17/07/2020, Francesco Martino - Sofia

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Migliaia di persone in piazza da giorni nel cuore di Sofia per chiedere le dimissioni del governo, durissimo scontro istituzionale tra premier e presidente, una lotta di potere senza esclusione di colpi fatta di controverse azioni giudiziarie e imbarazzanti materiali compromettenti, il tutto sullo sfondo dell’epidemia di coronavirus che nelle ultime settimane ha ripreso a galoppare con numeri preoccupanti.

Una fiammata sembra improvvisamente percorrere la Bulgaria, e scuotere la società e un establishment politico – incentrato intorno alla figura del primo ministro Boyko Borisov – che negli ultimi anni si è cullato sempre di più sulla convinzione che non vi fossero alternative al proprio potere.

Lo sbarco di Rosenets

A dare fuoco alle micce ci ha pensato Hristo Ivanov, leader della piccola formazione di destra liberale “Da, Bulgaria” (“Sì, Bulgaria) che lo scorso 8 luglio – armato di bandiera nazionale – è “sbarcato” sulla spiaggia di Rosenets, non lontano da Burgas, per rivendicare il diritto di accesso a quella che sulla carta è proprietà pubblica.

Rosenets, però, non è un posto come tutti. Da alcuni anni, attraverso controverse procedure, il piccolo promontorio verdeggiante è diventato il rifugio estivo di Ahmed Dogan, presidente onorario del Movimento per i diritti e le libertà (DPS), che qui ha costruito una lussuosa villa lontano da sguardi indiscreti.

Non appena sbarcato, Ivanov è stato fermato da cinque individui che hanno rifiutato di identificarsi, e che dopo una concitata discussione lo hanno letteralmente rigettato in mare, sequestrando senza troppi complimenti anche il tricolore bulgaro.

Quello che per il pubblico straniero va spiegato passo passo, per il bulgaro medio non ha bisogno di sottotitoli: gli uomini erano agenti dell’NSO, i servizi di sicurezza, mentre Dogan – oggi ufficialmente un cittadino senza incarichi pubblici – rappresenta agli occhi dei più il simbolo più riconoscibile del connubio tra politica e gestione oligarchica e opaca del paese negli ultimi decenni, che vede stabilmente la Bulgaria leader in negativo nell’UE per corruzione e libertà dei media.

Sofia in piazza

Le riprese dello sfortunato sbarco di Ivanov, finito a mollo suo malgrado, hanno raggiunto in fretta i social media, dove sono diventate virali. La staffetta dello “sbarco” simbolico è stata raccolta da migliaia di cittadini, soprattutto a Sofia, che sono scesi in piazza chiedendo perché lo stato fa da guardia privata ad un cittadino, e perché a quel cittadino viene permesso di appropiarsi indebitamente di un pezzo di suolo pubblico.

Dogan però come detto non è solo un privato cittadino, ma un simbolo, e le domande non riguardano un uomo, ma un intero sistema di gestione del potere sempre più radicato, con poli diversi tutti a ruotare intorno al premier Borisov, come il procuratore capo Ivan Geshev e l’ineffabile tycoon mediatico e deputato del DPS Delyan Peevski.

La protesta è montata ancora più forte dopo che lo scontro ha coinvolto i piani più alti del potere. Il presidente (eletto con i voti socialisti) Rumen Radev ha criticato la scorta a Dogan e nel giro di poche ore la procura ha inviato agenti negli uffici della presidenza, dove hanno arrestato due suoi collaboratori.

Un Radev furioso ha definito l’azione come “un attacco mafioso”, chiedendo a gran voce le dimissioni del governo e chiamando di fatto i cittadini ad appoggiare le proteste. Giorno dopo giorno il centro della capitale bulgara è diventato teatro di manifestazioni sempre più convinte, contromanifestazioni, episodi di violenza sfociati nel pestaggio di due giovani da parte della polizia.

L’11 luglio c’è stato anche un nuovo sbarco a Rosenets, stavolta collettivo, organizzato dai sostenitori di “Da, Bulgaria”: nel giorno prefissato per la “conquista” della spiaggetta di fronte alla villa di Dogan, però, il DPS ha mobilitato centinaia di persone, arrivate per “proteggere” con la propria presenza fisica il proprio leader storico. Tra confusione, cordoni di polizia, appelli a non far scoppiare lo scontro interetnico (il DPS è, seppur non ufficialmente, il partito di riferimento dei turchi di Bulgaria) alla fine i manifestanti sono sbarcati sull’agognato lido senza incidenti di sorta.

Insomma, uno stato di fibrillazione e mobilitazione pubblica che non si vedeva dal 2013-14, quando le proteste misero fine al governo Oresharski, e che in qualche modo ne riprende alcuni fili conduttori: all’epoca, a far scoppiare il malcontento era stata la nomina di Delyan Peevski a capo dei servizi di sicurezza, lo stesso Peevski che ora, insieme a Dogan, ha annunciato di rinunciare alla scorta dell’NSO.

Un malcontento dalle radici profonde

Se l’impresa di Ivanov ha dato il via alle proteste, il malcontento che serpeggia in Bulgaria affonda le radici in una situazione di profonda incertezza e disillusione. Dopo una prima fase relativamente tranquilla, i numeri dei contagiati da COVID19 nel paese hanno iniziato a risalire rapidamente dopo l’allentamento delle rigide misure adottate in prima battuta.

Alle preoccupazioni sul piano sanitario, si uniscono quelle relative all’andamento dell’economia: secondo le previsioni della Commissione europea, il calo del PIL bulgaro per il 2020 sarà di almeno il 7%, mentre la disoccupazione è risalita e ha toccato il 9%.

A turbare ulteriormente il quadro, negli ultimi mesi è in corso una lotta, convulsa, opaca e senza quartiere che ha avuto protagonisti alcuni storici oligarchi, primo fra tutti Vasil Bozhkov detto “il teschio”, figura controversa, dominatore del mercato dell’azzardo e chiacchierato collezionista di antichità.

Fuggito nello scorso gennaio a Dubai dopo essere stato accusato di gravi reati, Bozhkov è passato al contrattacco rendendo pubblici documenti e testimonianze imbarazzanti per Borisov. Nel corso delle ultime settimane sono emerse foto e video del premier che dorme nella sua stanza da letto, con la pistola sul comodino e pacchi di banconote da cinquecento euro nel primo cassetto, tutti materiali diffusi anonimamente ma che in tanti fanno risalire alla “guerra sporca” in corso dietro le quinte. Tanto che dalla coalizione di governo sono partite più volte accuse – più o meno velate – che il fuoco della protesta venga alimentato da fondi che verrebbero generosamente elargiti da Bozhkov.

Accuse che però non colgono il nucleo profondo dell’insoddisfazione della classe media, a cui l’attuale élite politica continua a fornire un’amministrazione corrotta e inefficiente, capace di assorbire e distribuire a pochi il grosso del budget nazionale e dei fondi europei, ma non di garantire l’ammodernamento e la funzionalità delle istituzioni.

Un governo all’ultima spiaggia?

Come già successo in passato, di fronte alla piazza Borisov ha mantenuto all’inizio un profilo basso e attendista. Col prolungarsi delle proteste, il premier ha giocato prima la carta delle controproteste organizzate, poi del complottismo (i manifestanti vorrebbero sabotare l’ingresso della Bulgaria nel meccanismo ERM2, la “camera d’attesa” per l’ingresso alla moneta unica, appena ottenuto), poi del vittimismo.

Negli ultimi giorni ha commentato apertamente la possibilità di dimissioni ed elezioni anticipate, per poi passare repentinamente a difendere il governo a oltranza. “Il prossimo autunno sarà durissimo, e nessuno sarà in grado di gestire la situazione se non il nostro governo”, è il messaggio lanciato da Borisov prima dell’ultima piroetta, in cui ieri il premier ha annunciato “un pesante rimpasto di governo” con l’obiettivo di portare l’esecutivo fino a termine mandato.

La piazza però sembra pronta ad alzare l’asticella della protesta: dopo l’annuncio di Borisov, migliaia di cittadini hanno manifestato non solo a Sofia, ma anche a Varna, Plovdiv e in quasi tutte le principali città del paese.

Per la settimana prossima il Partito socialista ha messo in agenda un voto di sfiducia, ma i numeri per far cadere il governo in parlamento al momento non ci sono. Decisivi saranno la pressione dei manifestanti e il fiuto politico di Borisov: se la tensione dovesse salire ancora, il premier potrebbe decidere di mollare e puntare a nuove consultazioni, prima che il consenso del suo movimento GERB – che i sondaggi indicano ancora come primo partito nel paese – venga eroso irreversibilmente nel tritatutto della crisi sociale ed economica che incombe.

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