Bosnia, Serbia, Croazia: triangolazioni
Settimane di intensa diplomazia tra Bosnia Erzegovina, Serbia e Croazia con le visite, in Bosnia, del primo ministro croato Andrej Plenković e del presidente serbo Aleksandar Vučić
E’ una settimana d’intensa attività diplomatica quella che si è appena conclusa in Bosnia Erzegovina, dove nel giro di pochi giorni entrambi i leader politici di Croazia e Serbia si sono presentati per discutere delle relazioni bilaterali e dei vari dossier aperti (e per dialogare ciascuno con le rispettive minoranze nazionali residenti nel paese). Il primo ministro croato Andrej Plenković si è recato in Erzegovina martedì 5 e mercoledì 6 settembre, con l’obiettivo di chiarire innanzitutto la questione del ponte di Pelješac, che Plenković vorrebbe costruire entro il 2021, ma attorno a cui è nata di recente un’accesa polemica con Sarajevo. Il presidente serbo Aleksandar Vučić ha invece raggiunto la capitale bosniaca giovedì 7 e venerdì 8 settembre, per parlare di cooperazione politica ed economica tra i due paesi, regolarmente divisi dalle mosse autonomiste (quando non chiaramente indipendentiste) di Milorad Dodik, il presidente della Republika Srpska.
Croazia-Bosnia
“Il ponte si farà”. Questo è stato il messaggio che Andrej Plenković ha ripetuto durante i suoi incontri con i rappresentanti della comunità croato-bosniaca, rispedendo dunque al mittente le obiezioni di alcuni politici di stanza a Sarajevo. Il progetto di collegamento della penisola di Pelješac alla costa dalmata – volto a rompere l’isolamento geografico in cui si trova Dubrovnik da ormai 25 anni – ha sollevato infatti più di qualche sopracciglio tra le autorità bosniache, che temono di perdere (o di veder ridotto) il proprio accesso alle acque internazionali tramite il corridoio di Neum, unico sbocco adriatico del paese. Ad agosto, il membro bosgnacco della presidenza tripartita bosniaca – nonché leader del Partito d’azione democratica (Sda) – Bakir Izetbegović ha dichiarato in un’intervista a “Faktor.ba” che l’opera croata può essere realizzata soltanto dopo che Bosnia e Croazia avranno trovato un accordo sui confini marittimi. Già allora, lo stesso premier croato Plenković aveva risposto sostenendo che “il progetto andrà avanti”, pur concedendo che “se ci sono delle cose da spiegare ai nostri vicini, lo faremo”.
Nei giorni successivi, sono seguite altre dichiarazioni contrastanti e anche delle lettere inviate da Sarajevo a Bruxelles, con l’intento di coinvolgere la Commissione europea nella controversia. Ma quest’ultima, che ha approvato il proprio finanziamento del progetto il 7 giugno scorso, si è limitata ad auspicare che i due paesi raggiungano un accordo. Arrivato in Erzegovina (ma senza visitare Sarajevo), il Primo ministro croato ha dunque reiterato il suo messaggio. Ma non solo. Se l’opera di Pelješac rappresenta un investimento capitale per Zagabria (357 milioni di euro in totale, di cui l’85% finanziati dall’Ue), la comunità croata residente in Bosnia Erzegovina lo è ancora di più. Ecco che Plenković ha visitato diverse località bosniache in cui vive la minoranza croata, assicurando che il suo governo sta “dedicando particolare attenzione ai cittadini croati, che sono il gruppo etnico con minore rappresentanza fra i tre popoli costitutivi (della Bosnia Erzegovina, ndr.)”. Non si tratta di un appoggio alla creazione di una “terza entità” in Bosnia Erzegovina (come vorrebbero alcune frange dell’Hdz croato e bosniaco), ma di un sostegno articolato alla comunità croata.
In quest’ottica, Zagabria ha infatti in programma degli investimenti nei settori della sanità, dell’istruzione e dell’agricoltura, così come dei finanziamenti a dei progetti individuali, rivolti sia ai croati residenti in Erzegovina sia a quelli della Bosnia centrale. Inoltre, per rafforzare il suo legame con la comunità croato-bosniaca, il governo Plenković intende anche aprire un consolato a Livno, per evitare che gli abitanti dell’entroterra dalmata debbano scendere fino a Mostar per usufruire dei servizi consolari.
Serbia-Bosnia
Come Zagabria, così Belgrado segue da sempre e con attenzione i bisogni e le aspirazioni della propria comunità di riferimento, perlopiù residente all’interno della Republika Srpska (Rs). Non sorprende, dunque, che all’indomani della visita di Aleksandar Vučić in Bosnia, la Serbia abbia deciso di concedere un aiuto “una tantum” alla Rs per un valore di 660 milioni di dinari (circa 5,54 milioni di euro) e con l’obiettivo di realizzare dei progetti congiunti volti a rafforzare le relazioni fra l’entità bosniaca e lo stato serbo. Dal canto suo, il presidente della Rs, Milorad Dodik, ha accettato di rinunciare – almeno temporaneamente – ad un cavallo di battaglia della sua retorica nazionalista, ovvero al progetto di referendum sull’indipendenza dell’entità serba di Bosnia. Ammettendo una “mancanza di consenso all’interno della Rs”, Dodik ha promesso che il progetto “sarà discusso più tardi, a meno che non si creino delle condizioni estreme che lo rendano possibile”.
Poco prima di questa dichiarazione, l’arrivo di Vučić a Sarajevo aveva marcato la prima visita ufficiale di un capo di stato serbo da 6 anni, ovvero da quando la poltrona presidenziale a Belgrado era occupata da Boris Tadić. Nella capitale bosniaca, il presidente serbo ha definito la Serbia “un paese amico” della Bosnia Erzegovina e ha assicurato di rispettarne l’integrità territoriale (prendendo appunto le distanze da Dodik). Ma oltre ad adottare un vocabolario distensivo e ad invitare la presidenza tripartita bosniaca a recarsi a Belgrado entro fine anno, Vučić ha anche discusso di commercio (per “raggiungere due miliardi di euro di scambio”) e di progetti infrastrutturali (tra cui dell’autostrada Belgrado-Sarajevo), facendosi accompagnare a Sarajevo da due ministri del governo Brnabić. Lo stesso Primo ministro bosniaco, Denis Zvizdić, ha confermato che l’incontro col leader serbo si è concentrato sul rafforzamento della cooperazione bilaterale, dal punto di vista politico, economico o sociale. “Assieme, possiamo diventare un nuovo mercato e creare nuovi posti di lavoro”, ha assicurato Zvizdić, limitandosi però a definire la Serbia “un partner”, come riporta il portale regionale Birn.
Sullo sfondo di queste due visite ufficiali da parte dei suoi vicini più importanti (e più ingombranti), la classe politica bosniaca continua a registrare un alto grado di divisione e di conflittualità interna, inversamente proporzionale alla sua capacità di concretizzare i propri programmi. Bloccata dalla lentezza del proprio sistema istituzionale interno e strattonata dagli interessi diversi dei paesi vicini, la Bosnia è comunque riuscita, la scorsa settimana, ad approvare il “Trattato sulla comunità dei trasporti”, sottoscritto durante il vertice dei Balcani a Trieste (12 luglio), ma rimasto senza la firma di Sarajevo per via dell’opposizione di Banja Luka (che chiedeva una maggiore rappresentanza delle entità nella futura “unione dei trasporti”). Il compromesso raggiunto permette ora di sbloccare 250 milioni di euro di contributi europei e, sul lungo termine, di connettere il sistema dei trasporti dell’Unione europea a quello dei cinque paesi balcanici firmatari. Un avanzamento lento ma che è negli interessi sia della Bosnia, che dei suoi onnipresenti vicini.
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