Bosnia rurale: un ventennale lontano dai riflettori
Un viaggio per seguire un progetto di sviluppo rurale con le donne di Lukavica, un villaggio della Bosnia, diventa un’occasione per vedere come è stato vissuto il ventennale dall’inizio della guerra in Bosnia Erzegovina, lontano da Sarajevo
7 aprile, sono in partenza con una delegazione del Comitato di sostegno alle forze di pace, una rete di associazioni di volontari del territorio padovano e veneziano che svolge attività di cooperazione decentrata e animazione sociale a Gračanica (Federazione di Bosnia Erzegovina) e Petrovo (Republika Srpska). La nostra destinazione è Lukavica, piccola frazione della municipalità di Gračanica. Approfittiamo delle vacanze pasquali per aggiungere un altro tassello a un piccolo progetto di sviluppo rurale al femminile. Lo abbiamo chiamato “Dunja Lukavica” (Il cotogno di Lukavica), per le mele cotogne che le donne ci hanno regalato al nostro primo incontro.
La storia del progetto
Il progetto viene da lontano, da quando nel 1992 è nata questa rete di comitati, quando in Italia era forte il movimento di solidarietà verso la Bosnia Erzegovina in guerra. Già all’epoca Lucia Zanarella, la “Lucia della Brenta” come si firma lei, fondatrice del Comitato, sotto l’impulso del pensiero di Alexander Langer, portava nella zona di Gračanica carichi di sementi tra gli altri aiuti umanitari. Lucia ha sempre creduto nell’importanza del legame con la terra e nella forza delle donne.
Dopo qualche anno in cui il Comitato aveva dato priorità ad altri temi, nel 2009 con Luigi Calore, volontario e giovane agronomo, abbiamo deciso di unire le nostre competenze e riprendere l’impegno nel settore rurale. Abbiamo contattato una vecchia conoscenza di Lucia, Abida Jahić, un’agronoma che lavora a Gračanica per Agro Business Center, associazione che dà assistenza agli agricoltori. Abida parla bene italiano, perché durante la guerra si è rifugiata in Italia con i suoi tre figli. Con lei è stato organizzato nel settembre 2009 un viaggio per dieci tecnici e agricoltori delle municipalità di Gračanica e Petrovo, che sono venuti a visitare alcune realtà venete da cui prendere spunto per portare buone pratiche nel loro territorio.
Grazie a questo viaggio, ad Abida è venuta l’idea di realizzare, con il sostegno del Comitato, un piccolo laboratorio artigianale di trasformazione di frutta e verdura, coinvolgendo una decina di donne di Lukavica. Tra le municipalità di Gračanica, ha scelto proprio questa, perché è la più isolata della municipalità e nel contempo quella che ha subito maggiori danni, soprattutto in termini di vittime, durante il conflitto: oggi Lukavica conta circa 2.800 abitanti, mentre al censimento del 1991 erano oltre 3.200.
Il ventennale e la memoria
Questo viaggio, al di là del progetto, mi emoziona particolarmente. In questi giorni si ricorda il ventennale dall’inizio della guerra in Bosnia Erzegovina, sui media italiani se ne è parlato tanto. Il discorso si è concentrato però quasi esclusivamente sull’inizio dell’assedio di Sarajevo, come se la guerra non avesse colpito drammaticamente tutto il Paese. Il viaggio a Lukavica, quindi, mi dà la possibilità di vedere come viene vissuto il ventennale lontano dalle “luci della ribalta” della capitale, in un piccolo paese tra le colline bosniache.
Con me e Luigi ci sono quattro tecnici che seguiranno le attività formative previste dal progetto: Matteo Vanzetto e Mattia Bonato, esperti in Scienze e Tecnologie alimentari, Francesco Cortinovis, che si occupa di Sicurezza igienico-sanitaria degli alimenti, ed Enrico Libanore, un produttore agricolo che nella sua “Fattoria del Borgo”, vicino a Pesaro, produce trasformati di frutta e verdura in un piccolo laboratorio artigianale.
È il loro primo viaggio in Bosnia Erzegovina e avranno subito modo di conoscere alcune tradizioni bosniache. Appena arrivati, Abida ci porta infatti alla scuola di Lukavica, dove una troupe della televisione del Cantone di Tuzla deve registrare una trasmissione. Le donne hanno preparato i loro piatti tipici ed è in programma uno spettacolo del gruppo folkloristico locale. Immagino che questo evento sia stato organizzato in occasione del ventennale ed è con grande sorpresa che scopro che non è questo l’anniversario che si ricorda oggi. La festa è per un’altra ricorrenza: il 7 aprile 1945 è la data della liberazione di Gračanica dall’occupazione nazista. Nei due giorni che trascorro a Lukavica non mi capiterà di sentire nemmeno un accenno a quel ventennale ricordato con tante manifestazioni a Sarajevo ed anche in Italia. Dove è finita dunque la memoria dell’ultima guerra, mi chiedo…
Le ferite della guerra
Anche se nessuno parla del ventennale, la memoria del conflitto è in realtà ancora forte, la si può leggere accennata nei discorsi, in quel “prije rata” (prima della guerra) che a volte affiora tra le parole, ma è evidente soprattutto nelle difficoltà che a Lukavica si vivono ancora quotidianamente. A scuola, mentre aspettiamo che arrivi la troupe televisiva, si avvicina a noi un anziano signore: ha sentito che siamo italiani e con le lacrime agli occhi vuole darci il benvenuto e ringraziarci. Durante la guerra, dopo aver perso la moglie, ha mandato sua figlia in Italia. Oggi lei è ancora lì a lavorare ed è grato al nostro Paese per averla accolta ed aver aiutato la sua famiglia in un momento difficile.
Nei due giorni passati al villaggio, ci capita spesso di incontrare uomini, più o meno giovani, che lavorano in Italia e sono qui per le vacanze. L’emigrazione maschile, dovuta alle scarse possibilità di impiego locali, è molto forte ed è quindi particolarmente importante coinvolgere le donne, che restano sole a casa. Uno degli scopi del progetto, sottolinea Abida, è che “le donne stiano insieme, dare loro la possibilità di andare alle fiere a vendere i loro prodotti, perché quando stanno insieme sono contente”.
Le conseguenze del conflitto sulla vita quotidiana di oggi tornano in evidenza anche quando Abida mi riporta le parole del Presidente della comunità locale di Lukavica, Mirsad Hadžić, che ci sta supportando molto nel nostro lavoro: “Ha detto che questo progetto con i volontari italiani è soprattutto un progetto umanitario, perché si aiuta un Paese che ha subito tanti danni durante la guerra. Poi si tratta di un progetto con le donne, giovani donne che durante la guerra non hanno potuto andare a scuola e hanno perso quindi la possibilità di studiare e di avere un lavoro. Offrire a queste donne che sono state a Lukavica tutto il tempo della guerra, che hanno subito tanti danni, la possibilità di trovare un lavoro a casa propria, per loro è una cosa meravigliosa”.
Lo verifichiamo concretamente la domenica mattina, all’incontro che abbiamo organizzato tra i tecnici italiani e le donne, affinché si confrontino su come continuare il progetto. Ci troviamo a casa di una di loro. Al piano di sopra, lo scopriremo poi, ci sono i mariti: “Aspettavano che tutto finisse, e questo implica che anche loro appoggiano il progetto”, ci spiega Abida. Le donne all’inizio sembrano intimidite: producono da sempre marmellate e altri prodotti come il pekmez di mele (una sorta di sciroppo) con la frutta e la verdura dei loro piccoli orti, ma non riescono a venderli. Si intuisce che hanno poca fiducia nelle proprie capacità e scarsa consapevolezza di quanto questi prodotti tipici, fatti con metodi tradizionali e ingredienti sani, possano rappresentare un’opportunità.
Enrico ha portato dall’Italia alcuni dei suoi prodotti, tra cui la marmellata di rosa canina che viene realizzata anche dalle donne di Lukavica. Proponiamo un confronto a occhi bendati tra le due marmellate e quando tutti, compreso Enrico, diciamo che quella delle donne è indiscutibilmente più buona, il loro atteggiamento cambia: si sentono più sicure, fanno tante domande, si confrontano con entusiasmo, sembrano acquistare fiducia.
Considerazioni alla fine di un viaggio
Anche nei nostri ospiti, in questi due giorni, qualcosa è cambiato. Prima di partire, parlo con loro di questa esperienza. Matteo, Mattia e Francesco erano troppo piccoli, quando qui in Bosnia c’era la guerra, per ricordarsene. Enrico era già adulto, ma mi racconta di “non averla vissuta, di non averne mai saputo niente”. Ora hanno tante domande, vogliono saperne di più di questa terra. Mattia mi dice una cosa bellissima: “Prima di partire non sapevo cosa aspettarmi, in Italia si tende ad avere un’idea un po’ negativa degli “slavi”” e mi fa capire che l’accoglienza ricevuta in questi giorni gli fa vedere queste persone con occhi diversi.
Riparto da queste colline verdi punteggiate dal bianco degli alberi in fiore, sotto qualche fiocco di neve, contenta di aver vissuto il ventennale così, lontana dalle cerimonie ufficiali, ma vicina a queste persone. Anche se qui l’inizio della guerra non è stato ricordato esplicitamente, le ferite del conflitto restano ancora vive e ciò che preoccupa di più le persone non sembra essere quello che è avvenuto venti anni fa, ma le difficoltà che ancora oggi devono affrontare nella quotidianità. La memoria del passato è fondamentale per costruire il futuro, ma credo lo sia anche il desiderio di cui mi parla Mirsad Hadžić e che ho già sentito tante altre volte qui: “Vogliamo tornare a una vita normale”.
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