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Bosnia, il decimo girone dell’inferno

Ha trascorso sei mesi in campo di concentramento nel 1992. Una volta liberato è stato accolto in Norvegia dove nel 1993 decide di scrivere un libro sulla sua prigionia. Rezak Hukanović, giornalista di Prijedor, è autore di "Il decimo girone dell’inferno" uscito di recente in Italia con prefazione di Eli Wiesel e postfazione di Paolo Rumiz. Lo abbiamo intervistato

13/04/2023, Nicole Corritore -

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“Il silenzio era l’unica cosa che non era proibita nel campo. Esprimeva l’autentica mostruosità del vivere lì e la tristezza infinita nel provare disperatamente a dimenticare tutta quella sofferenza, almeno per un attimo.”

(Il decimo girone dell’inferno, Rezak Hukanović)

 

Nel suo libro lei descrive i giorni in cui è stato prigioniero in un lager in Bosnia Erzegovina, nei pressi di Prijedor. Quando l’hanno deportata e quanto tempo è stato prigioniero?

Sono stato rinchiuso sei mesi in due lager diversi: a Omarska [nel campo, le forze nazionaliste serbe, che avevano assunto il controllo dell’area, rinchiusero migliaia di civili bosniaci, musulmani e croati, ndr] dal 30 maggio al 6 agosto [si ritiene che il campo venne chiuso dopo la pubblicazione del video-reportage dei giornalisti Penny Marshall e Ed Vulliamy, ndr] poi a Manjača fino a novembre 1992. Questo secondo era, diciamo, una versione più “leggera” di campo di concentramento: dormivamo per terra, pativamo il freddo, ma almeno non ci hanno torturato come accadeva a Omarska. A quel punto la Croce Rossa Internazionale ci aveva registrati. In quel momento ormai in Bosnia e all’estero tutti sapevano dell’esistenza dei lager, per cui non potevano più farci sparire tutti. Mio figlio sedicenne, che avevano imprigionato con me, è stato liberato prima, mentre io sono stato liberato il 14 novembre del 1992. So che altri sono rimasti invece prigionieri fino a dicembre.

Cosa è accaduto, una volta liberato?

Siamo stati trasportati in autobus dalla Croce Rossa fino al territorio croato. Lì ci hanno spostati su un autobus con targa croata e portati in un campo profughi vicino a Karlovac in Croazia, che accoglieva superstiti dei campi di concentramento . Da qui, era previsto uno spostamento programmato verso paesi che davano la disponibilità ad accogliere ex deportati. Ogni mattina guardavamo la lavagna degli annunci dove esponevano gli elenchi: un giorno 30 nomi per la Svizzera, un altro giorno 50 per la Svezia, e così è arrivato anche il mio turno nell’elenco, per la Norvegia .

Di solito, l’elenco appariva tre quattro giorni prima della partenza. Ed è nel giorno dell’imbarco sull’aereo che ho rivisto per la prima volta, davanti alla caserma, la mia famiglia che era stata contattata dagli organizzatori del volo perché aveva diritto di partire con me.

In Norvegia avete ricevuto cure e sostegno psicologico? Come è nata la sua decisione di mettersi a scrivere?

Sì. All’arrivo, nei primi 15 giorni, tutti noi ex deportati siamo stati visitati da una serie di medici. Alcuni di noi avevano ancora sul corpo ferite non guarite, dovute alle violenze subite nei lager. Finite queste visite, ho sentito il bisogno di mettere per iscritto tutto quello a cui ero sopravvissuto. Ho avuto la fortuna di conoscere una persona eccezionale, un norvegese che aveva studiato a Belgrado e Novi Sad e che conosceva molto bene la mia lingua. Dopo aver letto le prime 15 pagine che avevo scritto mi ha proposto di pubblicare un libro.

Innanzitutto, lo sentivo come dovere morale verso chi non era sopravvissuto ai campi di concentramento. Inoltre, uno degli ex-deportati mi aveva pregato di scriverlo perché diceva che tra loro ero l’unico scrittore, e quindi l’unico che sarebbe stato in grado di farlo.

In seconda battuta, si è rivelato per me una forma di cura. Sia chiaro, è stato un percorso doloroso, ci sono stati momenti in cui ho pensato di fermarmi, di non riuscire a reggere. Mentre scrivevo, ho rivissuto ciò che avevo subito… non ci crederà, ma ho persino sentito di nuovo, fisicamente reali, i colpi che mi davano sulla schiena, come la violenza psichica, la fame. Anche per questo, come forma di difesa, ho deciso di ricorrere alla terza persona e a uno pseudonimo per il protagonista.

Ma arrivare alla fine della scrittura e vedere poi il libro pubblicato, è stata per me la migliore medicina per una sindrome così traumatica da lasciare segni indelebili in molti di noi. Mi è capitato, anche anni dopo, di conoscere ex deportati che contrariamente al sottoscritto non sono più riusciti a dormire.

Come è stata accolta la sua testimonianza, ma anche quella di altri superstiti? Le è mai capitato di non essere creduto?

È molto importante questo che mi ha chiesto. Fino ad oggi, a me per lo meno, non è mai capitato che qualcuno mi abbia detto in faccia “quello che dici non ti è mai successo”. Anche perché ho scelto di scrivere solo quello che ho visto con i miei occhi e non ciò che ho sentito raccontare da altri. Esiste una sola verità, dimostrata, non ne esistono due, tre e così via. A me è stato spesso detto che ho avuto coraggio a raccontare ciò che ho scritto. Non penso si tratti di coraggio scrivere la verità, ma è sicuramente da codardi mentire.

Quando è uscita la prima edizione del libro?

Ho scritto il libro trent’anni fa ed è uscito la prima volta in Norvegia nel 1993. Poi l’ho ripubblicato, con degli aggiornamenti. In Bosnia Erzegovina l’ho pubblicato molti anni dopo, per la prima volta nel 2012, per merito della stessa persona splendida che mi aveva aiutato all’inizio. Negli anni della guerra ovviamente, se non purtroppo, il libro è stato molto letto e venduto. Per cui poi è arrivata la richiesta dagli americani di tradurlo in inglese, ed è così uscito negli USA nel 1994 per tre edizioni. La versione inglese è stata pubblicata poi anche in altri paesi, tre edizioni in Gran Bretagna, altrettante in Nuova Zelanda. Sono poi seguite le versioni in turco, tedesco e ora in italiano.

Da dove nasce il titolo del libro?

Si riferisce a Dante, che parla di nove gironi dell’Inferno. Per spiegare il titolo credo che bastino le parole della prefazione scritta da Eli Wiesel [Il 29 novembre 1992 Eli Wiesel è entrato a Sarajevo assediata, accompagnato da alcuni giornalisti tra i quali la collaboratrice di OBCT Azra Nuhefendić, ndr] scrittore, premio Nobel per la pace, superstite dai campi di concentramento della Seconda guerra mondiale: “Dante si era sbagliato. All’inferno non ci sono nove gironi, ma dieci. Rezak Hukanović vi porta nell’ultimo, quello più spaventoso e straziante”.

Nonostante tutto, lei ha deciso di tornare a vivere in Bosnia Erzegovina, nella sua città Prijedor. Qual è stato l’impatto?

Sono tornato in Bosnia nel 1996, a Sarajevo, appena finita la guerra. Allora era ancora impossibile tornare a Prijedor [rimasta, secondo gli Accordi di Dayton, nella Republika Srpska, entità a maggioranza serbo-bosniaca, ndr]. Lì ci sono tornato solo nel 2000 e ci vivo ancora oggi. Prijedor è la mia città, lì avevo amici, familiari, dopo tutti quegli anni volevo tornare nella mia terra. Non avevo paura, se è questo che intende.

Ad un caro amico serbo ho chiesto che cosa si dicevano tra loro. E lui mi ha risposto: “Quelli buoni sanno e dicono che è tutto avvenuto come hai scritto tu, se non peggio. Quelli che hanno la coscienza sporca e sono criminali, dicono che menti”.

Per dire, avevo il grande desiderio di promuovere il libro anche a Prijedor e ci sono riuscito: al Narodno Pozorište (Teatro popolare), dieci anni fa, e in sala c’erano anche dei serbo-bosniaci.

Sappiamo che il rientro di sfollati e profughi bosgnacchi a Prijedor è stato molto difficile, osteggiato se non impedito, per lo meno nei primi anni del dopoguerra…

Sì, è vero. Ma c’erano anche leggi che lo imponevano e che venivano applicate sotto il controllo della comunità internazionale. Innanzitutto l’Accordo di pace di Dayton del 1995, con l’Annesso 7 che stabiliva il diritto di tutti i profughi e gli sfollati di fare ritorno nelle proprie case.

Certo, non è stato facile tornare, per diversi motivi. Ad esempio, io non sono potuto tornare nella mia casa perché era completamente bruciata, per cui mi sono trasferito nell’appartamento di mio fratello, che era rimasto in Svezia dove vive tuttora. Mentre vivevo nel suo appartamento ho ricostruito la mia casa e sono riuscito a tornarci solo nel 2012. Il giorno dopo, mi hanno messo una bomba sotto l’auto. Un mese dopo qualcuno ha buttato dell’esplosivo vicino alla finestra che è andata in mille pezzi.

Quello stesso giorno sono arrivati giornalisti della RTS (Radio Televizija Srbije ) e mi hanno chiesto come consideravo quel messaggio. Ho risposto: “Un chiaro e rumoroso messaggio: che noi [i non serbi di Prijedor, in maggioranza musulmani, ndr] non dobbiamo tornare a Prijedor. Ma io invio un messaggio a voce ancora più alta: io resto, questa è la mia città. È la città di tutti noi, così come lo è la Bosnia Erzegovina. Non è di uno, del secondo o del terzo, ma di tutti e non solo dei tre popoli costituenti! Ogni persona ha diritto di vivere nella sua terra”.

Lei lavora a Prijedor come giornalista. I giornalisti che in Bosnia parlano delle responsabilità di quella guerra, che non sono nazionalisti, sono spesso sottoposti a pressioni e minacce anche di morte. A lei è mai accaduto?

Lavoro per una televisione privata, la TV 101 , di cui sono proprietario e nella quale posso parlare liberamente, esattamente come faccio in pubblico, su ciò che mi è accaduto allora. Sono convinto che le persone apprezzano sentirsi dire la verità. Mi è accaduto spesso, per strada a Prijedor, di essere avvicinato da sconosciuti che mi allungavano la mano per dirmi: “Complimenti!”.

Ho ricevuto delle minacce, ma non si sono mai trasformate in atti concreti. Penso che chi vuole veramente ucciderti, non ti avvisa prima, lo fa e basta. Semmai, risulta più pesante psicologicamente incontrare per strada quelle stesse persone che allora ti avevano deportato, picchiato, torturato e ucciso parenti e amici.

Non dovete dimenticare che attorno a Prijedor sono stati aperti i tre maggiori e più terribili campi di concentramento di tutto il paese. Che sono decine e decine le fosse comuni in cui hanno cercato di nascondere i corpi di migliaia di persone. A soli 15 minuti di macchina dal centro di Prijedor è stata trovata la fossa comune di Tomašica , finora la più grande nel paese, con i corpi di 435 persone [scoperta nel 2013, ad oggi non tutti i corpi sono stati identificati, ndr]. E considerate che nella città di Prijedor non c’è mai stata la guerra guerreggiata… hanno “ripulito” subito il territorio, in poche settimane, dai civili non serbi.

Per i crimini perpetrati nell’area di Prijedor, il Tribunale Internazionale dell’Aja ha emesso condanne a carico di 37 serbo-bosniaci per un totale di 617 anni di carcere. Lei è stato testimone in qualche processo?

Sì, ho testimoniato tre volte. Non ricordo più esattamente quando, ma sicuramente nei primi anni duemila. Hanno chiamato un gruppo di superstiti del campo di concentramento di Omarska, per i processi a carico di alcuni che erano al comando in quel campo e di altri che avevano perpetrato le uccisioni. A tutti i criminali sotto processo dove ho testimoniato, sono state comminate condanne pesanti.

Ha quindi dovuto rivivere tutto…

Questa volta è stato meno difficile. Mi ero già alleggerito, come ho detto, scrivendo il libro anni prima. Durante la scrittura ho buttato fuori da me ciò che avevo vissuto, pur avendolo scritto come se stessi guardando un film ero stato parte di quegli eventi, di quei luoghi, di quelle emozioni e stati d’animo.

Certo, ogni tanto le emozioni riemergono, soprattutto pensando a ciò che ha vissuto mio figlio che è stato deportato e imprigionato con me, a soli 16 anni. Lui oggi ha un figlio di 18 anni, si è costruito una vita in Norvegia, ma non ha mai più voluto parlare di quello che ci è successo. Lo capisco molto bene.

Ma si deve continuare a raccontare, perché si sappia ciò che è stato. Perché non accada mai più a nessun altro.

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