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Bosnia: festival rampanti e musei in bancarotta

Le maggiori istituzioni culturali della Bosnia Erzegovina, incluso il Museo Nazionale, la Galleria d’Arte e la Cineteca Nazionale, sono in stato di abbandono. Lo Stato non le sostiene, perché farlo significherebbe riconoscere l’esistenza nel Paese di un patrimonio culturale e storico comune. Una parte del mondo artistico della capitale ne propone la privatizzazione. Il dibattito

06/09/2012, Marzia Bona -

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Da mesi in Bosnia Erzegovina incalza il dibattito sulla situazione allarmante delle istituzioni culturali eredità del periodo jugoslavo, orfane della politica e di un livello amministrativo che se ne faccia carico. Nel Paese in cui ad ogni espressione culturale viene data una marcata appartenenza nazionale, sembra impossibile assegnare uno status a queste istituzioni proprio per la loro storia e per il patrimonio che conservano, che si pone al di sopra delle linee di separazione nazionale.

Le istituzioni in questione sono sette, definite con un’acrobazia di termini “istituzioni culturali di interesse statale.” La formula aggira quella più problematica che le vorrebbe di “interesse nazionale”. Ma di quale nazione? La domanda si potrebbe riformulare in questi termini: a chi spetta finanziarle? Quale cultura nazionale, fra quelle presenti nel Paese, rappresentano?

Non si tratta evidentemente di una crisi dettata soltanto dalla ristrettezze finanziarie del Paese. Infatti, mentre le sette istituzioni sono lasciate a loro stesse, non mancano consistenti contributi a festival in grado di garantire grande visibilità al prezzo di un minor impegno economico. Di fronte a queste contraddizioni si lamenta l’eccessiva “festivalizzazione” della cultura, ovvero il monopolio dei festival in termini di budget e visibilità a scapito di istituzioni custodi di un’eredità culturale condivisa.

L’argomento ha progressivamente assunto il tono polemico di uno scontro tra chi rivendica il valore delle sette istituzioni, invocando tutela e finanziamenti pubblici, e chi invece imputa la situazione all’inerzia e alle scarse capacità gestionali dei loro amministratori. Il dibattito richiama questioni aperte in molti Paesi europei, riguardanti la necessità di conciliare la tutela del patrimonio pubblico con le sfide della sostenibilità economica. Ma in Bosnia Erzegovina si sommano anche le difficoltà connesse al riconoscimento di un’eredità culturale condivisa.

La questione dello status

La definizione dello status di queste sette istituzioni si rimanda da 17 anni, un’impasse le cui cause sono di natura politica. La soluzione più ovvia sarebbe quella di assegnarle al livello statale, ma non tutte le parti politiche coinvolte sono disposte a farsi carico di istituzioni culturali non chiaramente connotate in senso nazionale. Tale decisione infatti significherebbe riconoscere l’esistenza di un patrimonio culturale e storico condiviso, un’idea inaccettabile in particolare per l’SNSD, il partito del ministro agli Affari Civili Sredoje Nović1 e di Milorad Dodik, che non intende sostenere i costi di istituzioni all’occasione definite “sarajevesi” né avvallare il monopolio della capitale sulla cultura.

Le sette istituzioni, tutte collocate nella capitale del Paese, sono un’eredità del periodo jugoslavo durante il quale erano di competenza dalla Repubblica di Bosnia Erzegovina. In seguito alla dissoluzione della Federazione Jugoslava, il loro status non è mai stato definito. Gli Accordi di Dayton non contengono indicazioni in merito, così che oggi il vuoto costituzionale lascia spazio ad opposte interpretazioni. C’è chi insiste che la situazione vada risolta assegnando finalmente queste istituzioni al livello di competenza statale. E c’è chi al contrario sostiene che, poiché nulla si dice nella carta costituzionale del Paese, la loro amministrazione spetti ad un livello inferiore e non debba gravare sul bilancio comune.

Secondo la prima ipotesi, i sette enti culturali dovrebbero poter fare affidamento sugli stanziamenti di bilancio pubblico erogati dal livello statale. Una voce di bilancio ad hoc però non esiste né è mai esistita. Allo stesso tempo i governi locali (federale, cantonale e municipale) non hanno competenza né risorse per garantirne la gestione. Nel corso degli anni, ripetute assegnazioni di fondi straordinari da parte delle autorità locali hanno cercato di tappare i buchi di bilancio delle sette istituzioni, prolungandone di fatto l’agonia. In questo clima di incertezza, le sette istituzioni sopravvivono in uno stato di emergenza continua, senza possibilità di pianificare a lungo termine e riducendo al minimo le proprie attività.

Questa politica dell’emergenza è confermata in ripetute occasioni dai vertici di governo. Fra le altre, vale la pena di ricordare l’incontro organizzato dalla Fondazione Heinrich Böll e Sarajevo Open Centar a marzo 2012, dal titolo “Di quali istituzioni culturali abbiamo bisogno”. Nel corso del dibattito, la vice-ministra agli Affari Civili Denisa Sarajlić Maglić (SDP) dichiarava come priorità quella di fare fronte agli interventi di manutenzione delle strutture, a scapito della definizione del loro status. Come dire, le questioni scomode per il partito del ministro Sredoje Nović (SNSD) sono rimandate fino a nuovo ordine, nel frattempo si continuano a tappare i buchi.

Un approccio manageriale alla cultura

A partire dall’autunno 2011 le sette istituzioni hanno intensificato gli appelli per richiamare l’attenzione sullo stato di “emergenza continua” che le affligge. A questi allarmi hanno risposto voci critiche: Haris Pašović, regista e fondatore di East West Center e ideatore della performance con le sedie rosse per il ventennale dell’assedio di Sarajevo, ha attaccato le sette istituzioni denunciandone l’immobilismo e l’incapacità di ricorrere a metodi alternativi di finanziamento. Fra le soluzioni proposte dalla "corrente festivalista" rappresentata da Pašović (ma di cui fanno parte anche i direttori del Sarajevo Film Festival e del MESS Festival, Mirsad Purivatra e Dino Mustafić) ci sono l’adozione di una gestione manageriale e il ricorso a sponsor e ai fondi e progetti europei.

Pašović sostiene che la responsabilità principale per lo stato in cui si trovano le sette istituzioni è da imputare ai loro direttori: “E’ chiaro che lo Stato viene meno a molte delle proprie responsabilità, fra cui anche quelle nel settore della cultura – ma se gli amministratori delle istituzioni culturali non hanno le competenze manageriali per far fronte a questo dato di fatto, sono loro per primi a dover rassegnare le proprie dimissioni”. La raccomandazione pratica di Pašović è quella di creare un gruppo di esperti selezionati a livello regionale ed internazionale che dovrebbero formulare un piano per il risanamento delle sette istituzioni. Secondo il direttore di East West Center, si dovrebbe considerare anche la possibilità di aprire a partecipazioni private (aziende o corporazioni), un’opzione che garantirebbe il risanamento di queste istituzioni tramite un approccio marcatamente imprenditoriale.

La risposta da parte del direttore del Museo Nazionale, Adnan Busuladžić, insiste sulla complessità delle sette istituzioni, affermando che il loro buon funzionamento non può prescindere da finanziamenti pubblici continuativi e garantiti. “Il Museo Nazionale è uno dei più antichi d’Europa. Il suo valore non è una proprietà della BiH, ma ha un significato per tutta l’Europa e in quanto tale andrebbe preservato. Il Museo Nazionale ingloba cinque differenti strutture: tre dipartimenti museali (archeologico, etnografico e naturalistico), un orto botanico e una biblioteca. A fronte dei 129 dipendenti che vi lavoravano nel 1992, il Museo ne impiega attualmente circa la metà. Una struttura come questa non può, come il SFF, basare la propria attività sugli sponsor. Il Museo Nazionale non è un avvenimento che dura dal 6 al 14 luglio”.

I costi di gestione del Museo ammontano a circa 670 mila euro all’anno, ma i contributi ricevuti dallo stato e del Cantone di Sarajevo coprono appena un quarto di queste esigenze. Per il resto il museo deve contare su donazioni intermittenti. D’altra parte, nemmeno il ricorso a finanziamenti europei può essere considerato un sostituto al sostegno pubblico: progetti e fondi europei non sono pensati per coprire i costi fissi.

Se è vero che da più parti si ammette la scarsa competenza manageriale degli amministratori delle sette istituzioni, d’altra parte le accuse provenienti dai direttori dei grandi festival circa l’eccessiva dipendenza da budget è facilmente tacciabile di ipocrisia. SFF, MESS ed East West Center sono infatti regolarmente finanziati dal ministero della Cultura della FBiH. Secondo quanto riportato da Maja Radević su Slobodna Bosna, infatti, nel 2011 sarebbero stati distribuiti a questi tre eventi circa 500.000 KM in maniera diretta, a cui si sommano 320.000 al SFF da parte del Fondo per il Cinema, a sua volta sostenuto dal ministero della FBiH. A queste cifre – secondo il settimanale – sono da aggiungere i fondi assegnati attraverso il bando della FBiH per l’implementazione di progetti culturali ed artistici, vinto nel 2012 proprio da queste tre organizzazioni culturali. I festival sono inoltre regolarmente cofinanziati anche dal livello cantonale (Kanton Sarajevo) e municipale. Stanti queste cifre, rimane il fatto che il bilancio complessivo del Sarajevo Film Festival, pari a circa 2 milioni e mezzo di euro, viene sostenuto per il 30 per cento da fondi pubblici, mentre il restante 70 per cento è ottenuto attraverso sponsor, donazioni ed entrate proprie del festival. Un obiettivo impensabile da raggiungere per le istituzioni museali.

Attacco alla memoria condivisa

La questione delle sette istituzioni testimonia come gli obiettivi politici possano essere perseguiti non solo tramite azioni mirate, ma anche attraverso forme di inazione politica consapevolmente pianificate. Se il sostegno istituzionale e finanziario alle sette istituzioni è in balia del clima politico, il nodo della questione resta irrisolto da 17 anni. In concreto, si tratta della mancanza di un’azione politica tesa a sancire il riconoscimento del patrimonio culturale condiviso preservato dalle sette istituzioni. Quest’azione, nelle forma di un intervento legislativo ad hoc, è stata accuratamente evitata lasciando le sette istituzioni a languire e causando danni materiali difficili da sanare a posteriori.

Secondo Robert Donia,2 questa politica dell’inazione rientra nel processo di attacco alla memoria condivisa del Paese e può essere interpretata come la continuazione degli attacchi, molto più appariscenti, perpetrati nel corso della guerra. Se il simbolo dell’assedio di Sarajevo e della dissoluzione dell’unità jugoslava rimane l’edificio moresco della Biblioteca in fiamme, le istituzioni della memoria di Sarajevo e di tutta la BiH sono da allora soggette ad un attacco meno evidente ma non meno pericoloso. Dalla metà degli anni Novanta le istituzioni culturali sono diventate strumento di identificazione nazionale in ciascuno delle repubbliche ex-jugoslave. In BiH non poteva essere lo stesso a causa della problematicità nel riconoscere ed affermare un’identità nazionale che faccia da collante per l’intero Paese.

In assenza di una chiara assegnazione di bilancio pubblico, le istituzioni della memoria sono in balia di decisioni più o meno contingenti, ma sempre all’interno di agende nazionaliste che ne hanno causato la lenta asfissia. L’inazione politica in quest’ambito ha causato nel corso degli anni il deterioramento di queste sette istituzioni, della storia e quindi anche dell’identità del Paese, rivelando lo sforzo di negare l’esistenza di una cultura e di una storia condivise che costituirebbero un elemento di legittimazione del Paese stesso.

Una soluzione selettiva

Già nel 2002 un rapporto sulle politiche culturali del Consiglio d’Europa suggeriva la necessità di chiarire lo status delle sette istituzioni. Fra le soluzioni proposte, veniva avanzata la possibilità che l’elenco delle “istituzioni di interesse statale” potesse essere ampliato in modo da includervi enti localizzati anche fuori dalla capitale. L’altra proposta era di assegnare uno status indipendente alle istituzioni in questione, in modo da renderle più autonome e quindi più flessibili anche nell’attività di raccolta fondi.

Una delle ipotesi ventilata negli ultimi mesi è quella di procedere in maniera differenziata, ovvero riconoscendo come “istituzioni statali” soltanto alcune di esse. In questo caso, sarebbero il Museo Nazionale e la Galleria Nazionale, che un tempo faceva parte del primo, ad essere assegnate alla competenza statale. La scelta sarebbe dovuta al fatto che soltanto questi due musei comprendono collezioni ed esposizioni significative per l’intero Paese. Come a voler dire, politica ed eventi storici rimangano fuori dallo spettro culturale di competenza statale: orto botanico e arte pongono meno problemi di un Museo della Storia che in passato era il Museo della Rivoluzione. Se questa soluzione passasse, le altre istituzioni sarebbero assegnate alla competenza di una sola parte del Paese, un passo verso il riconoscere che le due Entità, Republika Srpska e Federazione, hanno poco o nulla da spartire dal punto di vista culturale e storico.

 

Note:

1Nel governo centrale della Bosnia Erzegovina non è previsto un ministero della Cultura. Ad occuparsi degli affari e delle politiche culturali è quindi il ministero degli Affari Civili, le cui competenze riguardano anche affari sociali, diritto di cittadinanza e sminamento.

2 Robert Donia è ricercatore all’Università del Michigan e autore di svariati studi sul patrimonio culturale bosniaco, fra cui il volume “Sarajevo. A biography” (http://www.press.umich.edu/titleDetailDesc.do?id=189593). L’articolo “Archives and Cultural Memory under fire: destruction and the post-war nationalist transformation (2004) è consultabile a questo link: http://www.arhivsa.ba/ica2004/robert.htm

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