Bosnia Erzegovina: se i Novanta si fanno fiction
Una serie tv in fase di produzione dedicata ad Alija Izetbegović e un film annunciato ma ancora da realizzare su Radovan Karadžić. Ma la memoria in Bosnia Erzegovina può essere affidata alla TV?
(Originariamente pubblicato Media Centar Sarajevo , partner del progetto ECPMF, il 7 settembre 2017)
Il culmine dello "scervellarsi" della società bosniaca sui sanguinosi eventi degli anni Novanta, o di nuovi tentativi di imporre l’identità etnica come l’unica possibile, trovano espressione in due recenti progetti televisivi: una serie intitolata “Alija”, già in corso di realizzazione, prodotta dalla televisione pubblica turca e incentrata sulla figura di Alija Izetbegović; e l’annunciato film su Radovan Karadžić che, stando alle parole del presidente della Republika Srpska (RS) Milorad Dodik, dovrebbe essere realizzato dalla Radio televisione della RS. Una situazione che fa tornare alla mente quel periodo in cui l’arte e la cultura venivano spesso usate come mezzo per inasprire e radicalizzare la situazione politica in Bosnia Erzegovina.
Il potere della televisione
È ben noto quale sia stato il ruolo dei media, soprattutto della televisione – ma anche dei programmi artistico-culturali imperniati sull’idea della purezza etnica – nel preparare il palcoscenico per le sanguinose guerre combattute nel territorio dell’ex Jugoslavia. Senza voler pregiudicare nulla in questa sede, ci sembra importante sollevare alcune questioni chiave sulle motivazioni e finalità dei summenzionati progetti televisivi, nonché sul significato che potrebbero assumere nella percezione dell’opinione pubblica.
Tra la fine degli anni Ottanta e la metà del decennio successivo, film e altri generi televisivi incentrati sui temi nazionali venivano realizzati, nella stragrande maggioranza dei casi con l’intento di scuotere la coscienza nazionale (leggi nazionalista) apparentemente addormentata durante il socialismo e, esponendola alle immagini delle imprese “eroiche” compiute nel passato, di mobilitarla e omogeneizzarla in vista di ciò che stava per accadere.
A dire il vero le circostanze attuali sono un po’ diverse, perché la Bosnia Erzegovina, sottoposta a un permanente assedio mediatico-manipolativo, si trova ormai intrappolata in una gabbia buia, minacciata da tutti i lati dallo spettro ghignante di una nuova guerra.
In una società devastata dalla logica del consociativismo etnico, dove ogni due anni si va alle urne, non vi è più nulla da omogeneizzare. Ciò non significa tuttavia che le opere cinematografiche come quelle di cui sopra non possano intorbidire ulteriormente le acque, approfondendo le divergenze etniche nell’interpretazione della guerra. Tenendo conto di quanto sia forte il potere della televisione da queste parti, c’è da aspettarsi che la serie su Izetbegović e l’annunciato film su Karadžić contribuiscano a distorcere ulteriore le immagini del passato, offuscando in maniera ancora più radicale le ormai inconciliabili memorie della guerra.
Questo non è certo un invito a censurare, o a non realizzare nemmeno le serie e i film di questo tipo. È un dato di fatto inconfutabile che Alija Izetbegović e Radovan Karadžić, ognuno a suo modo, abbiano segnato uno dei decenni più bui della storia dei Balcani. Ed è del tutto legittimo che come principali protagonisti di quel tormentoso periodo vengano trattati anche come personaggi delle future creazioni artistiche. Non è forse vero che Mirsad Sijarić, già un decennio fa, nel suo romanzo “Još jedna pjesma o ljubavi i ratu”, aveva acutamente delineato il flusso di coscienza di Radovan Karadžić? Certo, ma per poter realizzare un’impresa del genere, una rappresentazione artistica di un protagonista della storia, bisogna essere consapevoli che l’arte non sopporta letteralità né luoghi comuni.
Quale rappresentazione?
È senz’altro difficile prendere distanze quando si parla, ad esempio, di Radovan Karadžić, ma proprio per questo è ancora più necessario farlo. Proprio perché sembra impossibile percepire Karadžić come un uomo, essendo visto come l’incarnazione del male puro (forse trascendentale?), bisogna insistere sul fatto che egli, dopotutto, è un uomo. Uno di quelli che percorrevano le stesse strade percorse da noi, visitavano gli stessi luoghi visitati da noi. Tuttavia, questa umanizzazione non va intesa come un espediente per sollevare Karadžić, né qualsiasi altro protagonista del nostro dramma sanguinoso, dalla responsabilità per i crimini commessi, bensì come un tentativo di percepirlo tale quale è davvero. Così facendo si potrà uscire dai limiti delle opere cinematografiche che contribuiscono all’ambiguità della percezione della storia, creando i presupposti affinché, finalmente, si impari qualcosa da questa “maestra della vita”, affinché vengano comprese le vere ragioni, dinamiche e conseguenze della guerra.
Per fare un esempio, in uno dei suoi romanzi documentari, intitolato “Beara”, lo scrittore bosniaco Ivica Đikić è riuscito a trasmettere al lettore tutto l’orrore del genocidio di Srebrenica, fin nei minimi particolari, proprio grazie al fatto di essersi impegnato a ricostruire i retroscena psicologici della vita di uno degli ideatori del massacro. I numeri delle vittime sono desolanti, ma non ci vuole molto perché vengano trasformati in pura statistica.
L’arte, invece, può lasciare un monito più duraturo e fornire uno stimolo, anche minimo, all’auto-conoscenza e alla riflessione su quello che è successo. Al contempo, la distanza artistica e un approccio critico agli eventi traumatici e ai loro fautori impediscono, in una certa misura, la creazione di culti della personalità e la loro esaltazione, nonché il trasformarsi di un discorso vittimizzante nel modus vivendi di una società.
Tuttavia, a giudicare dall’attuale stato della cinematografia bosniaco-erzegovese – contrassegnata dalla propensione a semplificare, spesso in modo infantile, temi legati alla guerra e ai suoi protagonisti – ma anche dalle informazioni disponibili sui sopracitati progetti televisivi incentrati sulle figure di Izetbegović e Karadžić, è poco probabile che emerga in questo caso quel potenziale progressivo dell’arte di cui sopra. Tenendo presente che la serie televisiva su Alija Izetbegović è finanziata direttamente dallo stato turco e che, pur essendo ancora in via di realizzazione, sta suscitando forti polemiche ideologiche in Bosnia Erzegovina, è quasi certo che questa mini-serie sarà soltanto un tassello in più nella costruzione del culto di un ineccepibile uomo di stato impegnato per la pace. Ovviamente, senza alcun cenno al lato oscuro del suo governare.
Volgendo lo sguardo verso l’altra parte, alla ricerca del motivo che ha spinto il presidente della Republika Srpska a sollecitare la realizzazione di un film su Radovan Karadžić, troviamo una situazione ancora più desolante. Stando alle parole di Milorad Dodik, “La Republika Srpska dovrebbe realizzare un film su Karadžić e sulla sua partecipazione alla lotta per la libertà del popolo serbo”. Vale a dire, un altro guazzabuglio ideologico con un messaggio piuttosto distruttivo. E a giudicare da come Dodik impiega il termine “libertà”, sembrerebbe che da Petar Kočić a Radovan Karadžić i politici serbo-bosniaci non facessero altro che cercare di liberare il territorio dell’attuale Republika Srpska. In che modo, non è dato sapere. Per cui non ci sarebbe da stupirsi se un giorno venisse realizzato un film anche sugli effetti delle conquiste bizantine sulla Republika Srpska. Tutto è possibile. Summa summarum: in entrambi i casi probabilmente avremo a che fare con “opere” al vetriolo, la solita manovra di propaganda in vista della feroce campagna elettorale.
In fin dei conti, ciò che ci si aspetta dall’arte è che rappresenti in maniera responsabile e critica le figure e le azioni dei due personaggi in questione; che invece di cadere in preda alle esaltazioni nazional-romantiche e al pathos, cerchi di scavare più profondamente, dietro all’apparenza delle cose.
Per quanto impossibile possa sembrare in questo caso, è l’unico approccio sensato. Distanza, ironizzazione, decostruzione dei tabù. Solo esse consentono all’opinione pubblica di confrontarsi effettivamente con i leader politici, aprendo un’altra prospettiva da cui percepire quello che è successo durante la guerra. Tutto il resto è un tentativo mitomane di “trasporre sullo schermo” temi dolenti, che in nessun modo contribuisce a creare presupposti per un ripensamento e confronto critico con il passato.
Esistono fatti storici, chiari e inconfutabili, finalmente provati davanti ai tribunali. Ma esiste anche un pesante deposito di rappresentazioni romantiche e narrazioni popolari della guerra. È indubbio che prima o poi dovremo liberarcene, se vogliamo provare a creare una società che non sia fondata su paura e conflitto. Non è un compito facile, ma sarebbe di gran lunga peggio sprecare i decenni futuri nell’autoilludersi della propria grandezza eroica, mentre la vita ci scorre davanti.
È proprio qui che la cultura e l’arte dovrebbero intervenire, come portatori di cambiamento e portavoce della voglia di lasciarsi alle spalle il peso della guerra. Se invece dovessero assumersi il compito di incoraggiare l’attuale clima di conflittualità, allora è indubbio che già domani potremmo trovarci di fronte ai film su Caco e Batko [criminali di guerra, uno bosgnacco, l’altro serbo, colpevoli di numerosi crimini contro i civili commessi durante l’assedio di Sarajevo, ndt] intesi non come racconti della crudeltà umana bensì come esaltazioni degli “eroi” di strada.
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