Bosnia Erzegovina: partecipazione come possibile soluzione del rebus costituzionale
E’ ormai evidente che una riforma della costituzione in Bosnia Erzegovina sia tanto necessaria quanto difficile. Una possibile soluzione potrebbe arrivare dal costituzionalismo partecipativo
Riformare l’irreformabile è l’enigma costituzionale del regime di Dayton. Chiaramente, tutte le proposte che sono state presentate fino ad ora per oltre 25 anni non sono riuscite a produrre un cambiamento significativo.
Il problema è ben noto. Già nel 2000, la Corte costituzionale della Bosnia Erzegovina, con la sentenza sui “popoli costituenti”, aveva affermato chiaramente che la Costituzione di Dayton doveva essere inevitabilmente riformata per poter attuare i principi fondamentali della stessa Costituzione, ossia per creare una società basata sull’uguaglianza di tutti i cittadini.
La Commissione di Venezia, nel suo parere del 2005, si era espressa con ancora maggiore chiarezza: la Costituzione di Dayton non è sostenibile perché è in contraddizione con i presupposti fondamentali di uno stato funzionale, ma sarebbe estremamente difficile modificarla in quanto si basa sul consenso tra i rappresentanti dei tre popoli costituenti. Come chiedere ai principali beneficiari del business etnico di rinunciare a tale sistema, dopo aver fornito loro la chiave di ogni possibile riforma?
Tali contraddizioni sono emerse in maniera drammatica nella sentenza Sejdić-Finci della Corte europea dei diritti dell’uomo che, in sostanza, ha giudicato discriminatoria la struttura istituzionale della Bosnia Erzegovina paese perché limita i diritti (politici) di quelli che si rifiutano o non sono in grado di affiliarsi ad uno dei popoli costituenti, o non soddisfano una combinazione di requisiti relativi all’appartenenza etnica e al luogo di residenza.
Una lunga lista di successivi eventi, sentenze, dichiarazioni, prese di posizione della comunità internazionale ha ulteriormente rafforzato la sensazione prevalente che in Bosnia Erzegovina una riforma costituzionale e istituzionale sia indispensabile e, al contempo, impossibile. Riformare l’irriformabile è il rompicapo costituzionale del regime di Dayton.
Nuovi sviluppi
È ormai chiaro che tutte le proposte avanzate negli ultimi venticinque anni non hanno portato ad alcun cambiamento significativo. Persino quelle che sono state imposte dall’Alto rappresentante, utilizzando i poteri di Bonn, pur essendo estensive da un punto di vista giuridico, sono intrinsecamente limitate a causa della scarsa rappresentatività e della mancanza di un reale radicamento nella società.
C’è molta retorica sull’appropriazione del processo di riforma da parte dei poteri locali, ma si tratta perlopiù di mere parole. Ciò significa non c’è alcuna alternativa e che si deve proseguire come prima?
Probabilmente no, tenendo conto dei più recenti sviluppi nell’ambito del diritto costituzionale comparato, soprattutto per quanto riguarda il cosiddetto “costituzionalismo partecipativo”.
Negli ultimi decenni, nel mondo democratico si è assistito a enormi cambiamenti che pian piano iniziano a riflettersi, seppur ancora in misura limitata, nei processi e nelle procedure di elaborazione e di modifica di testi costituzionali. Mutatis mutandis, un problema simile a quello dell’impossibilità di riformare la Costituzione di Dayton è evidente anche nella democrazia rappresentativa e in quella diretta, entrambe inadeguate ad affrontare le sfide di una società pluralista.
La crescita della popolazione mondiale, l’aumento del livello di istruzione e la conseguente volontà crescente di partecipare attivamente alla vita pubblica hanno reso le forme tradizionali della democrazia rappresentativa e di quella diretta insoddisfacenti per la maggior parte della persone. Le assemblee parlamentari elette sono sempre meno percepite come rappresentative, infatti sono state concepite all’epoca in cui solo un piccolo numero di persone godeva del diritto di voto, fungendo da piattaforma per raggiungere compromessi tra una ristretta élite aristocratica e la borghesia. Allo stesso tempo, gli strumenti della democrazia diretta, come referendum e iniziative popolari, sono strumenti rudimentali, spesso utilizzati dalle minoranze mobilitate, e sono ampiamente inadeguati per affrontare problematiche sempre più complesse che spesso richiedono conoscenze approfondite e di solito non possono essere ridotte ad un “sì” o un “no”.
Quindi, il disamore verso la politica, il ruolo sempre meno rilevante dei partiti politici, le sempre più frequenti proteste e alcuni altri sintomi del malcontento popolare di fronte al processo politico non sono conseguenza della diminuzione delle capacità delle élite politiche, bensì di alcuni fenomeni strutturali e sistemici.
Questa situazione richiede istituzioni e procedure sempre più complesse e sofisticate, in grado di mostrarsi efficienti senza mettere a repentaglio i principi democratici, aiutando le società a diventare meno conflittuali rispetto alla condizione dettata da un confronto permanente tra maggioranze e minoranze occasionali e strutturali.
Una via d’uscita partecipativa?
Negli ultimi anni, allo scopo di superare alcuni deficit strutturali del classico processo decisionale, sono sorte alcune pratiche spontanee, solitamente definite come democrazia partecipativa (a volte anche deliberativa o associativa).
Una caratteristica che accomuna le differenti forme della democrazia partecipativa consiste, da un lato, nel fatto che la democrazia partecipativa non mira a sostituire il processo decisionale politico, bensì lo supporta, e dall’altro nel fatto che diversi organismi partecipativi non seguono la logica della maggioranza, bensì quella del consenso. Se alcuni gruppi, rappresentativi in modo variabile, decidessero di preparare una misura in modo cooperativo, al di fuori delle polemiche politiche quotidiane, le loro proposte godranno di un’ampia legittimità e molto probabilmente verranno appoggiate nel corso del processo decisionale politico in quanto in grado di offrire una soluzione prevenendo, al contempo, l’esplosione del malcontento dopo l’adozione della misura in questione.
Gli esperimenti di questo tipo sono stati estesi dal livello locale, dove ovviamente sono sorti, all’ambito costituzionale, aprendo uno spazio molto interessante anche per una possibile futura riforma della Costituzione della Bosnia Erzegovina.
Si potrebbero citare alcune possibili fonti da cui trarre ispirazione per ideare un processo che porti all’elaborazione delle proposte di una riforma costituzionale in Bosnia Erzegovina e all’avvio di una procedura che possa favorire tale riforma. Le Costituzioni di 25 paesi prevedono la possibilità di avviare processi partecipativi per modificare il testo costituzionale, e anche i trattati dell’Unione europea dopo Lisbona dovrebbero essere modificati attraverso un processo partecipativo (Convenzione). Anche le costituzioni di alcune entità subnazionali contengono molti esempi di organismi deliberativi di questo tipo.
Se finora né la strategia top-down né il classico approccio bottom-up hanno dato i frutti sperati, forse è ora di prendere in considerazione la partecipazione come una possibile soluzione del rebus costituzionale in Bosnia Erzegovina.
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