Bosnia Erzegovina: migranti intrappolati senza via d’uscita
La denuncia, fortissima, è arrivata ieri da parte della Commissaria per i diritti umani del Coe Dunja Mijatović: "Va chiuso. Qui della gente morirà". Un reportage dal campo migranti di Vučjak, Bosnia Erzegovina
(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans il 2 dicembre 2019)
Ognuno si è coperto come meglio ha potuto. Alcuni si sono messi una coperta sulle spalle, un uomo tiene in mano uno strano ombrello verde. Tutti portano uno zaino sulle spalle e un piumino a tracolla. Si congedano brevemente dai loro compagni che restano nel campo di Vučjak. Sono 25 i migranti che questo pomeriggio nebbioso partiranno verso il confine croato, raggiungibile in meno di un’ora di cammino, per tentare “the game”, ovvero l’attraversamento, molto rischioso, del confine con la Croazia, ed entrare nell’UE.
“Ho già provato ad attraversare [il confine] sei volte”, racconta un giovane pakistano di nome Muhammad. “Ogni volta che ci fermano, i poliziotti croati ci ordinano di tirare fuori i nostri cellulari e poi li rompono. Inoltre, dobbiamo dare loro tutti i soldi che abbiamo. Poi bruciano le nostre borse, i nostri vestiti caldi e le nostre scarpe. Dopodiché ci portano alla frontiera con la Bosnia Erzegovina”.
Nonostante i ripetuti maltrattamenti da parte della polizia croata, Muhammad tenterà di nuovo “the game” non appena avrà messo insieme un po’ di soldi. Stando alle sue parole, ci vogliono 300 euro per un viaggio di dieci giorni a piedi, per raggiungere la Slovenia, soldi che non vanno usati per pagare i trafficanti, bensì per comprare il nuovo cellulare, i nuovi vestiti e il cibo.
Vučjak, viaggio al termine dell’inferno
Il campo di Vučjak è stato aperto il 16 giugno scorso sul sito di una vecchia discarica, molto inquinato (soprattutto a causa delle emissioni di metano), situato a una decina di chilometri da Bihać, nel nord-ovest della Bosnia Erzegovina. Il confine con la Croazia è situato a un’ora di cammino, in mezzo alle montagne. Durante la guerra degli anni Novanta, questi territori furono aspramente contesi e l’area intorno al campo è tuttora disseminata di mine. Durante l’estate l’intera zona era infestata da serpenti. Con l’arrivo dell’autunno sono comparsi i cinghiali che ogni notte arrivano, in cerca di cibo, fino alle tende dei migranti fornite dalla Mezzaluna Rossa turca. Attualmente tra 800 e 1000 migranti dormono in questo letamaio, in mezzo all’immondizia. Tutti maschi, che sono stati lasciati fuori dai campi sovraffollati di Bihać e Velika Kladuša, gestiti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), che attualmente ospitano solo i minori e le famiglie.
Secondo Nihal Osman, coordinatrice di Medici Senza Frontiere in Bosnia Erzegovina, attualmente nel cantone Una-Sana sono presenti circa 7000-8000 migranti: 3200 migranti sono accolti nei centri di accoglienza di Bira, Miral, Sedra e Borići, mentre più di 4000 vivono nelle case o nelle fabbriche abbandonate, oppure nelle tende del campo di Vučjak. Il bagno all’interno del campo è terrificante.
Dopo il fallito tentativo di attraversare il confine bosniaco-croato, molti rifugiati ritornano nel campo di Vučjak con ferite, causate da maltrattamenti da parte della polizia croata. Quasi tutti i migranti presenti nel campo soffrono di diarrea e di malattie della pelle, compresa la scabbia. Ogni giorno il comune di Bihać distribuisce 10.000 litri di acqua al campo, ma le docce all’aperto sono piene di immondizia. Gli ospiti del campo devono fare i loro bisogni all’aperto: i bagni sono fuori uso ormai da molto tempo. A causa delle umide nebbie autunnali, di notte la temperatura già scende sotto lo zero. Molti migranti hanno l’influenza, mentre MSF ha registrato numerosi casi di tubercolosi e di AIDS. “Se queste persone dovessero rimanere all’aperto, come oggi, alcune di loro moriranno quest’inverno”, avverte Nihal Osman, aggiungendo: “Qui le temperature possono scendere sotto i -20°C e i fuochi accesi con rami non basteranno”.
MSF non interviene all’interno del campo, per non legittimarne l’esistenza. Per assicurare il proseguimento della sua missione umanitaria, il personale di MSF opera in una piccola clinica allestita in un villaggio nei pressi del campo, nonostante l’ostilità dei residenti.
“Dobbiamo essere discreti. Finiamo alle 15, prima che la gente torni dal lavoro”, spiega Nihal Osman. Solo la Croce Rossa di Bihać distribuisce un pasto al giorno ai rifugiati nel campo di Vučjak: il giorno in cui abbiamo visitato il campo il pasto era composto da un mestolo di riso, un po’ di ragù di carne, qualche magra fetta di pane e un litro di acqua gassata. Già a partire dall’estate, alcune organizzazioni internazionali hanno iniziato a fare pressione sulle autorità bosniache affinché trovassero un’altra sistemazione per i migranti, ma le autorità sono rimaste sorde agli appelli. “Tutti si sono focalizzati sullo scandalo umanitario a Vučjak” afferma Osman, “ma questo è un problema europeo. Sempre più persone percorrono la rotta balcanica e il cantone di Bihać ne è lo sbocco naturale”. La città di Bihać, situata all’estremo nord-ovest della Bosnia Erzegovina, è infatti la città bosniaca più vicina alla Slovenia e all’Italia, paesi che tutti i migranti ammassati nel cantone Una-Sana aspirano di raggiungere, per chiedere asilo e poi proseguire il loro viaggio in paesi dell’Europa occidentale e settentrionale. Nel 2019 in Bosnia Erzegovina sono stati registrati 28.327 arrivi, quasi 5000 in più rispetto al 2018 e quasi 30 volte di più rispetto al 2017. In Europa, solo in Grecia è stato registrato un numero maggiore di arrivi. La Bosnia Erzegovina ha ormai superato l’Italia e la Spagna per numero di arrivi di migranti.
Migranti vittime dei calcoli politici
Ricordando la loro esperienza personale durante la guerra in Bosnia tra il 1992 e il 1995, gli abitanti del cantone Una-Sana per molto tempo hanno dimostrato ospitalità e solidarietà nei confronti dei rifugiati bloccati in questo vicolo cieco lungo la rotta balcanica. Oggi, tuttavia, prevalgono i sentimenti di sconforto e disperazione. Nelle ultime settimane a Bihać si sono svolte diverse manifestazioni contro i migranti, mentre le autorità locali continuano ad ostacolare l’attività delle poche organizzazioni umanitarie presenti sul campo, come Medici Senza Frontiere. E sono i rifugiati a pagare il prezzo più alto per gli scontri politici tra le autorità locali e quelle di Sarajevo.
Il controllo delle frontiere e la gestione delle migrazioni rientrano formalmente sotto la competenza delle istituzioni centrali della Bosnia Erzegovina, in particolare del ministero della Sicurezza, ma il cantone Una-Sana, che ha il suo ministero dell’Interno, ricade nel territorio della Federazione BiH, una delle due entità che costituiscono la Bosnia Erzegovina. Le autorità del cantone Una-Sana sostengono di essere state abbandonate dalle autorità federali e lasciate sole ad affrontare la crisi dei migranti. La loro politica mira a rendere ancora più difficili le condizioni di vita dei migranti al fine di scoraggiarli dal restare nella zona. Due settimane fa, le autorità cantonali hanno impedito la libera circolazione dei rifugiati. I rifugiati fermati in strada dalla polizia vengono immediatamente portati nel campo di Vučjak.
Anche l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che gestisce i campi ufficiali di accoglienza in Bosnia Erzegovina, cerca di ricollocare i migranti bloccati nel cantone Una-Sana, chiedendo che vengano aperti altri campi ufficiali nella Bosnia centrale, nei dintorni di Tuzla o Sarajevo. È poco probabile che questa strategia porti a risultati concreti, e nel frattempo Bihać resta “la porta d’ingresso” in Croazia. Pochi migranti osano avventurarsi verso nord, nel territorio della Republika Srpska, le cui autorità perseguono una politica di fermezza assoluta nei confronti dei rifugiati, rifiutandosi di allestire i centri di accoglienza.
Nei campi ufficiali, l’OIM promuove programmi di rimpatrio volontario. Molti operatori umanitari sostengono che l’OIM non si sia impegnata nel fornire una risposta umanitaria alla crisi dei migranti, ma piuttosto nel contribuire alla “gestione delle migrazioni”, ovvero alle politiche finalizzate a scoraggiare i rifugiati dal tentare di raggiungere l’Unione europea. Gli operatori umanitari sono inoltre stupiti dal silenzio quasi totale dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), che sembra aver trasferito le sue competenze all’OIM. Nemmeno il Comitato internazionale della Croce Rossa è presente sul territorio del cantone Una-Sana, solo alcune sezioni nazionali hanno inviato le loro équipe.
“Le autorità locali vogliono che queste persone se ne vadano altrove, affermando che ci sono troppi migranti da gestire sul loro territorio”, sottolinea Hannu Pekka Laiho, membro della missione di osservazione della Croce Rossa finlandese. “Il problema è che tutti gli attori coinvolti in questa crisi giocano a scaricabarile, sia i bosniaci che l’OIM e l’Unione europea".
Appoggiandosi al suo bastone, un vecchio uomo si commuove per la sorte dei rifugiati bloccati a Vučjak. “Tutti vogliono sbarazzarsi di Vučjak. Nel frattempo, queste persone sono semplicemente lasciate a se stesse. C’è una tensione palpabile, ma mi stupisce che la situazione non sia ancora peggiore, viste le condizioni in cui vivono questi uomini. Ogni giorno per chiedono se verranno aperti nuovi campi in Bosnia o in Croazia, e io non possono dare loro alcuna risposta concreta”.
Una lunga odissea attraverso i Balcani
Nel campo di Vučjak dominano due nazionalità, gli afghani e i pakistani. Non si parlano tra loro e ogni gruppo occupa la sua zona. I magrebini, malvisti, non osano restare nel campo e si rifugiano nelle case abbandonate. Quest’estate un palestinese è stato ucciso a colpi di coltello. Nel campo ci sono anche alcuni migranti provenienti dall’India e tre senegalesi. Djallo, 33 anni, è originario di Kédougou, una città situata nel sud-est del Senegal vicino al confine con la Guinea e con il Mali. Djallo è prima arrivato in Turchia, per poi raggiungere la Grecia, dove è rimasto due anni lavorando nelle fattorie. Dopo aver messo da parte i soldi sufficienti, ha intrapreso la rotta balcanica, sperando di raggiungere l’Unione europea.
Djallo racconta dettagliatamente le tappe della sua lunga odissea balcanica. Ha attraversato illegalmente le frontiere della Macedonia del Nord, e poi quelle della Serbia, pagando ogni volta diverse centinaia di euro ai trafficanti. A Preševo, nel sud della Serbia, alcuni pakistani gli hanno venduto per dieci euro una falsa ricevuta della richiesta di asilo presentata in Serbia, mentre la richiesta di asilo è gratuita. Poi ha pagato 150 euro per attraversa il fiume Drina, che separa la Serbia e la Bosnia Erzegovina, per poi arrivare a Bihać con l’autobus e ormai da più di un mese si trova nel campo di Vučjak.
“Nel nord della Macedonia sono rimasto bloccato in un villaggio dove tengono i rifugiati finché le loro famiglie non mandano i soldi”, racconta Djallo, tremante nel suo cappotto logoro, con ciabatte di plastica in piedi. Due giorni prima della nostra conversazione, Djallo è stato riportato nel campo di Vučjak, dopo essere stato forzatamente respinto dalla Croazia. “Abbiamo camminato dieci giorni con un gruppo di pakistani e afghani. Ci hanno fermati vicino alla Slovenia e ci hanno riportati qui. Non ho opposto alcuna resistenza, ma i poliziotti mi hanno preso tutto. Disperato, senza un soldo, Djallo pensa di tornare indietro. Almeno fino alla Grecia perché “lì almeno è possibile lavorare e guadagnare un po’ di soldi”. La polizia croata cerca di scoraggiare i migranti dal proseguire il loro viaggio. Zagabria ha ricevuto i complimenti dai suoi partner europei per la “buona gestione” delle frontiere e a breve potrebbe entrare nell’area Schengen.
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