Bosnia Erzegovina: i volti degli invisibili
Ajna ed Alen sono due “figli della guerra”. Che hanno deciso di non nascondersi e di attivarsi per i diritti di chi è nato a seguito di uno stupro
La madre di Alen lo ha lasciato in ospedale dopo la nascita. Non si è più fatta vedere finché lui non l’ha cercata, ormai adulto.
Quella di Ajna invece, nonostante lo stigma e il dolore che portava, ha deciso di essere la sua vera madre.
Coloro che hanno violentato le loro madri sono ancora liberi, impuniti.
Alen e Ajna raccontano di essere “i ragazzi invisibili”, dimenticati ed emarginati dalla società. Gli altri bambini spesso chiamavano Alen “il bastardo di Četnik”. Per Ajna ogni Natale era un incubo perché è proprio in quel giorno che sua madre subì l’inenarrabile violenza.
Alen oggi è un tecnico in medicina ed Ajna è una studentessa universitaria di psicologia oltre che, dal novembre scorso, presidentessa dell’associazione "Zaboravljena Djeca Rata " (I dimenticati figli della guerra)
Entrambi sono giovani e simpatici. Entrambi sono figli di due tra le migliaia di donne bosniaco-erzegovesi che hanno subìto stupro durante la guerra 1992-1995, una violenza organizzata che la giurisprudenza internazionale definì "stupro come arma di guerra, strumento specifico di terrore".
Alen
La Goražde di cui è originario Alen, Bosnia occidentale, nel 1993 era un luogo dell’orrore. Sua madre biologica, originaria della vicina Foča , fu una delle vittime civili del conflitto. Venne imprigionata e violentata da militari di varie formazioni dell’esercito dei serbo-bosniaci. Il giorno successivo al parto lasciò il figlio in ospedale e se ne andò.
Fu all’età di dieci anni che Alen scoprì le sue vere origini. Fu a causa di un banale litigio tra ragazzi. Si prese a pugni con un ragazzo che per fargli del male disse ad Alen chi erano i suoi veri genitori. Fu la fine di un’epoca di spensieratezza. Lo stesso giorno Alen ottenne conferma da coloro che lo avevano cresciuto di questa sconcertante verità.
Il 19 giugno 2018, nella Giornata internazionale contro la violenza sessuale nei conflitti armati, Alen Muhić si è rivolto ai membri dell’Assemblea generale della Nazioni Unite a New York e il suo discorso è stato accolto con un enorme applauso. Apertamente e senza vergogna un giovane “figlio della guerra” ha parlato della madre biologica e dell’identità che stava ancora scoprendo: "Penso comunque che non abbia commesso niente di imperdonabile. Non so che vita avrei avuto con lei se mi avesse portato con sé. Forse avrei avuto un’infanzia felice? Forse si sarebbe scagliata contro di me infastidita dal trauma fisico e psicologico che aveva vissuto durante la guerra? Non posso proprio giudicarla perché non so nemmeno cosa avrei fatto io se fossi stato al posto suo in quel momento. Senza una famiglia vera, lasciato da solo, così piccolo ho conquistato comunque i cuori di molti. In particolar modo di una persona che lavorava come portiere in ospedale e che poi diventò il mio vero padre ", raccontò Alen.
Alla fine Alen ha conosciuto la sua madre biologica ma il periodo in cui hanno mantenuto i rapporti è stato breve. Suo padre invece è un criminale di guerra. Ha scontato una penna di cinque anni e mezzo per vari crimini e ha riconosciuto di essere il padre di Alen. Vive non lontano da Foča. Una volta Alen si è presentato davanti alla sua porta. Non hanno mai avuto nessun rapporto. Questo suo padre biologico non si è mai occupato di lui, nemmeno in modo indiretto.
Oggi Alen lavora nello stesso reparto di chirurgia dell’ospedale di Goražde dove fu abbandonato da neonato.
Ajna
Più a nord, in Bosnia centrale, la guerra colpì con la stessa durezza. Lo stesso crimine, altri nomi. La madre di Ajna partorì e decise di tenera la figlia, di essere madre, portando il dolore e la tristezza che ciò avrebbe comportato. E affrontando anche quella società che l’aveva anche rispettata ma allo stesso tempo la stigmatizzava e condannava perché non aveva abortito. Il padre biologico vive ancora in Bosnia.
La storia di Ajna è stata raccontata da Eldina Jašarević all’interno di un progetto della Fondazione Heinrich Boll. E’ in questa occasione che Ajna racconta: “Ho sempre saputo che qualcosa non andava. Ho frequentato le scuole elementari in paesi piccoli. Ero una bambina senza padre, non conoscevo né il suo nome né le sue origini. Giravano molte voci nel villaggio su di me e su mia madre. Quando mia madre si sposò, le stesse storie cominciarono a girare anche nel villaggio del mio “nuovo padre”. Tutti sapevano che non ero la sua figlia biologica. Da piccola, per alcuni versi, era più facile perché c’erano sempre i miei genitori, mia madre e mio padre o il marito di mia madre. Io lo chiamo padre. Lui e mia madre mi hanno sempre protetta. Tuttavia, all’età di 15 anni, mi sono iscritta alla scuola superiore di medicina a Zenica ed ho lasciato la città natale. Ero sola, senza nessuno che mi proteggesse e risolvesse i miei problemi. Un giorno un professore mi chiese il nome del padre visto che in rubrica al posto del suo nome c’era solo una riga vuota. Non avevo risposta. Lo stesso professore poi mi chiese: “Ma almeno tua madre lo conosce?”. Per me è stato un colpo devastante. Mi sono ricordata subito che mia madre non mi ha mai dato il mio certificato di nascita in mano. Quando mi ero iscritta alle superiori, tutti i ragazzi stavano aspettando da soli e io invece accompagnata dalla mamma. "Non puoi andare da sola, ti iscriverò io", mi disse.
Così capì anch’io che mio padre non era mio padre biologico. Fu l’inizio della mia ricerca delle mie origini. Mi ricordo che ero andata a casa. I miei erano fuori. Nel nostro grande armadio mia madre teneva ben sistemati i nostri documenti. Tra questi ho trovato il rapporto della polizia rilasciato all’organizzazione non governativa "Medica ", che all’epoca aveva sede a Zenica e forniva assistenza psicologica alle donne stuprate”.
In quell’istante davanti ad Ajna si aprì un abisso. Un vuoto creatosi dopo che un pezzo della sua identità era crollato in un istante. Tante incognite le divennero però chiarissime. Non riusciva comunque a credere che questa “mancanza anagrafica” fosse dovuta ad un episodio così crudele, inquietante, terribile.
"Mia madre ha fatto di tutto affinché non mi sentissi diversa dagli altri. Però non avevo il papà come gli altri. Negli anni dell’adolescenza proprio questa mancanza fu il grilletto che fece scoppiare in me un conflitto interno. Ci sono voluti anni per ritornare ad una vita “normale”. Dopo tante ore di assenze ingiustificate a scuola e tanti pessimi voti finì dallo psicologo della scuola e lì cominciai a confessarmi. Oggi posso dire che fu al ima fortuna. Pensavo che mia madre mi odiasse e di essere la conseguenza che le resta della sua tragica vita”, ha raccontato Ajna.
Non fu quindi casuale la sua scelta di studiare psicologia.
Stigma
Lei e Alen oggi portano avanti la loro causa, quella che lo stato bosniaco non ha saputo o non ha voluto sostenere e risolvere. Il numero delle donne che hanno subito violenze sessuali durante la guerra, il numero di quelle che poi hanno partorito ed il numero di questi ragazze e ragazzi figli del conflitto non si saprà mai. La vergogna e la società incapace di assistere queste donne e i loro figli spesso abbandonati non permette che si venga a sapere.
In Bosnia ed Erzegovina al livello statale ma anche delle Entità non esistono leggi che riconoscano ai nati da madri che li hanno concepiti a causa di stupri sessuali durante il conflitto gli stessi diritti di vittime civili di guerra. Loro stessi si chiamano “invisibili”, anche se potrebbe sembrare esagerato a qualcuno, in realtà è la descrizione esatta della loro posizione nella società odierna. Questi giovani, alcuni letteralmente orfani fin dalla nascita e con padri non identificabili e madri – per cause assolutamente comprensibili – che spesso li hanno abbandonati, non godono di alcuna agevolazione come avviene invece per i figli dei soldati caduti in guerra o dei figli di vittime civili di guerra.
Oggi l’associazione fondata soltanto a novembre dell’anno scorso, di cui Ajna è presidente, conta 15 membri. Delle persone con cui condivide il passato, solo lei ha ottenuto un’assistenza psicologica da un esperto. Gli altri nemmeno questo. Il basso numero di adesioni alla sua iniziativa si spiega con il fatto che chi ha subito questo tipo di violenza non prova niente altro che vergogna e tristezza, difficili da esprimere.
Quando nel 2006 nelle sale cinematografiche della Bosnia ha cominciato a girare l’eccellente opera cinematografica “Grbavica”, in cui la regista Jasmila Žbanić ci ha raccontato una vicenda basata proprio sulla vita di Ajna e di sua madre, sempre più vittime hanno deciso di rivelare le loro identità, le loro storie. Un migliaio forse.
Lo conferma anche Bakira Hasečić, alla guida dell’associazione “Donne vittime della guerra” (Udruženje Žene Žrtve Rata )che ad oggi conta più di 6.000 associati e non solo donne, tra le quali donne sopravvissute alle torture che però rappresentano un numero piccolissimo rispetto alle stime, che si attestano tra le 25 e le 50mila di donne vittime di stupro negli anni ’90. La stessa associazione, basandosi su documenti e dati certi, parla di 62 bambini identificati nati a seguito di stupri sessuali. Un numero non certo definitivo.
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